Quando si socchiudono le palpebre al mattino può darsi che la visuale inizialmente sia un po’ annebbiata.
Pulviscoli di luce e ciglia stropicciate, fin quando non appare il mondo, lo stesso mondo riconoscibile in cui la sera prima ci siamo addormentati.
Eppure è davvero così noto ciò che ci sta attorno? Se chiudessimo gli occhi saremmo in grado di ricostruire la stanza senza esitare?
La giacca sulla sedia, il borsellino aperto e abbandonato sulla scrivania, una pianta che oggi è un po’ più appassita di ieri o un gatto che alle sette di mattina ha già collezionato un monte di balzi, agguati e grattatine di unghie contro la sua poltrona preferita sono cose che abbiamo sotto al naso
tutti i giorni, ma che probabilmente non guardiamo più.
Per molti non è importante: c’è tutto un groviglio di affari, pensieri, baruffe, amori, lotte, urla e faccende di cui occuparsi. Il cassetto della cucina può aspettare, così come la lampadina del ripostiglio che dovevamo cambiare sin dalla scorsa primavera, ma che sta ancora lì, a ronzare invano ogni volta che per errore spingiamo sull’interruttore.
Così corre il tempo, corrono le parole e restano incompiuti e smarriti i pensieri, le tenerezze, le paure e i desideri che sono cresciuti insieme a noi.
Vivian Lamarque, poetessa giocosa, ci sorride alzando gli occhi dal suo mucchio di fogli pieni di parole, raccontandoci il mondo delle sensazioni bambine che abbiamo soffocato e costruendo uno spazio di immaginazione nostalgica, dove riacquistano valore gli aquiloni, i sogni, i libri
impolverati dell’ultimo scaffale e tutte quelle attenzioni dimenticate per le piccolezze della quotidianità che spesso si danno per scontate.
Bisogna essere tenaci per camminare fino in fondo su una strada fatta di mattoni gialli, immaginati, che potrebbero interrompersi all’improvviso, lasciando sospesi nell’attesa di ritrovare la strada; leggendo i versi di Vivian Lamarque, però, ci si accorge in pochi attimi di quanto sia salda la
concretezza celata dietro a un sogno costruito in un gioco di parole.
Lo stile poetico è semplice e fresco, imbevuto di un’ ingenuità fanciullesca che porta ogni scenario descritto dall’autrice in una dimensione diversa da quella a cui siamo abituati: un giardino in cui le parole corrono libere, come se fosse davvero possibile parlare apertamente di sé e delle cose che
rendono deboli e fragili, senza la necessità di nascondersi dietro ad armature che possano difendere (e allontanare) dagli altri.
Attraverso rime, ritornelli ed un lessico concreto e quotidiano, la poesia si fa minuscola porta rassicurante che conduce a riflessioni esistenziali, profonde e ricche di sfumature impercettibili, in cui sono riconoscibili interrogativi eterni e dinamiche emotive in cui la nostra fragilità trova facile
specchio.
Ricorrono costantemente nelle poesie di Vivian Lamarque alcuni riferimenti autobiografici da cui l’autrice prende spunto per occuparsi di tematiche dolorose ed evocative di sentimenti capaci di suscitare empatia.
L’abbandono e la solitudine, ad esempio, sono temi molto cari alla poetessa, che, cresciuta nel riflesso di un’ infanzia trascorsa desiderando una stabilità familiare, dopo essere stata data in adozione in tenerissima età, rivela al lettore tutto il disagio dell’inadeguatezza e la paura che si cela
dietro al viaggio che ogni essere umano intraprende alla ricerca di amore e di approvazione.
CERCASI CASA
Cercasi casa con sole
con sole fin dal mattino
casa con dentro un bambino
con madre con padre
secondo te a chi assomiglia
cercasi casa
con dentro famiglia.
Non è solo la famiglia, tuttavia, il sospirato nido di affetti su cui Vivian modella le sue immaginazioni dolcissime e piene di tenero rimpianto. Dietro agli occhi, aperti sull’orizzonte con cui la poetessa guarda il mondo, si nascondono infatti i luccichii dell’amore, dove si conserva, ancora una volta, uno spazio per l’ideale, tanto perfettamente descritto nella fantasia da assumere contorni concreti e da far perdere, in parole lievi e gentili, il confine tra ricordo e sogno.
IL SIGNORE SOGNATO
Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.
E nella realtà?
La realtà non c’era, era abdicata.
Splendidissima regnava la vita immaginata.
ALLA LUNA
Oh essere anche noi la luna di qualcuno!
Noi che guardiamo
essere guardati, luccicare
sembrare da lontano
la candida luna
che non siamo.
FATE PIANO
Fate piano si è addormentata
la televisione se l’è cullata
fate piano non sia svegliata
sta sognando di essere amata.
L’amore ci viene raccontato come un valzer in cui ad ogni passo si alternano reale ed irreale. Non si sa quale sia la mattonella su cui i piedi si troveranno quando la musica sarà finita, ma nonostante questo vale la pena danzare, immaginando che, per una volta, sia la vita vera a vincere sul desiderio.
Strascico di questo romanticismo sommesso, che esplode timido, dietro ai confini di un pensiero, troviamo un pesante bagaglio di attese inutili, aspettative deluse e parole non dette, che si annodano in gola, inumidendoci gli occhi.
Così, come il gatto domestico che si stupisce di noi e ci intenerisce nella sua innocente inconsapevolezza, l’autrice descrive l’amore come qualcosa che è ancora capace di lasciarci increduli e stupiti, travolgendoci irrazionalmente, senza lasciarci gli strumenti per comprenderne le dinamiche. Amare un sogno, un uomo appena incontrato o un dottore galante a cui si vorrebbero dare in segreto sette o otto (mila) baci è un atto di fiducia senza fondamenta: camminare su un filo di ragnatela, completamente ignari del fatto che cadere potrebbe essere fatale.
Lo spazio amoroso che Vivian Lamarque disegna è quello intimo, individuale e solitario, messo insieme attraverso le piccole bugie piacevoli che la mente ci suggerisce per ricostruire mentalmente un ricordo insignificante, rendendocelo più gradito nell’impertinente solitudine di prima sera.
IL SIGNORE PUNTINO
Non potendolo vedere sempre, quando infine poteva vederlo lo
guardava moltissimo, fino all’ultimo minuto, fino all’ultimo
secondo, e anche dopo si voltava indietro, si voltava indietro.
Il signore diventava sempre più piccolo, ormai era quasi del
tutto irriconoscibile, eppure lei lo riconosceva benissimo,
anche sottoforma di minuscolo puntino laggiù.
IL SIGNORE NELL’ARIA
Alle ore venti ognuno tornava alla sua casa.
Non avevano una stessa casa?
No, ma nell’aria sì.
Nell’aria?
Sì, a destra e a sinistra nel mezzo dell’aria avevano una stessa
casa. Con le porte e le finestre gli uccelli le cene le voci e il riposo.
Non i colori?
Sì, colori splendenti erano appesi nei quadri nell’aria della casa.
IL SIGNORE D’ORO
Era un signore d’oro. Un signore d’oro fino, zecchino.
Per il suo carattere duttile e malleabile, per il suo caldo dorato
colore, per il luccichio dei suoi occhi, era un signore molto
ricercato.
I corsi dei fiumi venivano deviati, i fondali scandagliati e setacciati,
ma i signori che affioravano brillavano poco, erano signori
pallidi, opachi, non erano d’oro vero, erano signori falsi.
Non avevano aurifere vene?
No, le loro lente vene scorrevano quasi del tutto essiccate in
direzione dei loro minuscoli cuori, a fatica.
E dov’era il signore d’oro vero?
Lontano, in una casa assolata, pigro e paziente, aspettando di
essere trovato, in un angolino, il signore d’oro luccicava.
Paura e desiderio nelle poesie di Vivian Lamarque sono cullati da una docile brezza di incertezza.
La mutevolezza degli eventi, la precarietà del tempo e l’inesorabile paura che sia troppo tardi lasciano spazio alle ombre di un pensiero di morte, che compare attraverso la delicatezza di parole cantilenate, risuonando come una melodia lieve, senza sconquassi.
Nemmeno nell’immaginazione c’è lo spazio dell’eternità, ma la limitatezza del tempo mortale non è affrontata dalla poetessa come una fonte di inquietudine disperante, bensì come un nuovo motivo di stupore che suscita nella fantasia un’ingenua curiosità.
Quando mi ricordo della morte
guardo diversamente
i Fiori e l’Erba
li accarezzo preparo
la nostra futura amicizia
saremo così vicini!
i vicini più stretti
guarderò tanto (dal basso)
i loro steli perfetti.Chissà se l’amore mio ci sarà
quando sarò in punto di morte
mi piacerebbe tanto di sì
e che mi stesse vicino vicino
tanto è l’ultima volta
e che mi dicesse delle cose commoventi
per esempio mi spiace molto che tu muoia.
Ed ecco che negli gli spazi bianchi tra una parola ed un’altra la poetessa costruisce con grazia le mura di una piccola città dei sentimenti, in cui ogni emozione ha spazio ed ogni racconto trova il suo giusto posto. Si può parlare di tutto, descrivere ogni cosa, restituire importanza a ciò che si
vede, che si sente e che si spera, senza che la realtà e l’immaginazione finiscano per negarsi reciprocamente. Sarà dunque sufficiente perdersi in questo piccolo mondo per restare rapiti dalla sua forza sottile, capace di arrivare al lettore risvegliandone la parte più intima, dove riposano i
desideri e le fantasie accantonate, le stesse che da bambini non avevamo paura di confessare ad alta voce.
Leggendo Vivian Lamarque, dunque, ci troveremo a camminare lungo un sentiero fatto di versi che, con leggerezza, ci parlano della vita in ogni suo aspetto. E se, lungo il percorso, ci imbatteremo nel fantasma di piccoli o grandi tormenti che sorgono come fiori ai lati della strada, pur sentendoci
piccoli e disperatamente bisognosi di qualcosa, saremo abbastanza pieni di immaginazione da trovare la voglia di continuare il cammino e di sorridere godendoci il panorama.
di Mariaelena Micali