Umberto Gervasi è indubbiamente una delle figure più interessanti sulla scena contemporanea italiana se si parla di arte outsider, quella di chi si forma e lavora al di fuori del circuito ufficiale. Nato a Catania nel 1939, figlio di dolciari ambulanti, porta in sé l’ossessione per scultura fin da giovanissimo, e la coltiva senza alcuna istruzione, ma con coraggio e fierezza, nonostante i tanti ostacoli di una vita segnata da disagi familiari e dai rifiuti da parte della società, dalle molte fatiche fisiche e spirituali.
L’intento di quest’intervista, immediatamente successiva alla sua ultima mostra Cose di questo mondo curata da Francesco Porzio e Giorgio Bedoni presso la Galleria Isarte, a Milano, è quello di cogliere l’essenza del suo lavoro e della sua personalità, osservando contemporaneamente il nostro Paese com’era ieri e com’è oggi nell’arte e non solo nell’arte, e permettendoci di comprendere che fra uomo e artista non c’è differenza nel sacrificio all’arte.
Il genere di arte da lei prodotta viene comunemente inserito nel genere dell’arte Outsider, e questo la porrebbe al di fuori dei limiti dell’arte convenzionale. Vede il suo lavoro contrapposto a quello degli artisti “laureati”? Qual è la sua opinione sull’arte contemporanea?
Io ho la mia mano, il mio modo, se gli altri riscontrano delle simpatie nel pubblico non è cosa che mi interessa. Purtroppo c’è come quest’insidia nel mondo dell’arte. L’arte moderna mi piace tanto. È giusto essere nel proprio tempo. L’arte moderna si stacca in qualche modo da tutto, basta guardare un De Chirico o un Boccioni per vedere quanta autonomia c’è. Gli artisti si staccano da tutto, sono tutti diversi gli uni dagli altri, unici. Se parliamo di arte contemporanea io non sono un critico, e forse non la riesco a capire tutta. Alcuni artisti sono simpatici. In ogni caso non possiamo immagazzinare quello che non è del nostro tempo, e del nostro pubblico se siamo artisti. Io ho fatto le mie cose nel mio tempo, e ho avuto il mio pubblico, e così accade adesso nell’arte contemporanea, non ci sarà mai soddisfazione. La crisi secondo me sta nel fatto che gli artisti di oggi non si liberano, non hanno la mente chiara. La crisi è una cosa cupa, e il buio è brutto.
La personalità dei grandi artisti spesso viene travisata in maniera romanzesca dai manuali di storia dell’arte, allontanando il grande pubblico dalla comprensione dell’essenza umana alla base di ogni opera d’arte autentica. Che cosa significa realmente essere un artista?
Un vero artista non ha grilli per la testa, non ha alcuna pretesa di vendere o di arricchirsi. Io faccio le mie cose da più di trentacinque anni, ho fatto tante mostre, più o meno importanti, qui in Italia o all’estero. Ho portato la mia Via Crucis in Germania. Spesso dopo aver finito un’opera non mi piace più, per me ha il massimo valore nel momento in cui prende forma nella mia testa, e poi sotto le mie mani.
Lei ha sviluppato il suo percorso artistico completamente da autodidatta. Quali sono stati gli elementi che hanno permesso al suo lavoro di affinarsi nel tempo e di raggiungere equilibrio e maturità in completa mancanza di istruzione?
Per un po’ di tempo ho fatto il muratore, questo mi ha permesso di sviluppare la mia manualità e un senso del mestiere. Modellavo con il gesso alcune figure e venivo puntualmente deriso. Ma li ho sempre ignorati.
A quindici anni frequentavo lo studio di un certo Don Totò, che tutti chiamavano Pane Bianco, che era un artista, una persona colta nel paese e che quindi godeva di ammirazione e rispetto. Lui scolpiva, realizzava monumenti funerari e dipingeva, e io andavo a pulire il pavimento del suo studio. Ogni tanto, quando aveva dei grossi pezzi di pietra da sgrossare mi lasciava tirare due colpi di scalpello. Poi mi sono sposato, ho avuto i figli, e ho sempre e comunque sentito la voglia di evadere. L’artista non potrà mai essere soddisfatto nel dedicarsi ad una persona per tutta la vita, può funzionare per un periodo, e in quel caso è comunque fortuna. L’artista si sposa solamente con l’arte.
Q
uando ha sentito per la prima volta l’impulso creativo?
È la mia propria natura. Mia madre era analfabeta, sono cresciuto in una casa dove oltre alla cultura mancava il cibo, e quando manca il cibo non si pensa all’arte. I miei zii erano torronai, e anche mia madre lavorava con loro, si girava per tutta la Sicilia vendendo i loro dolci. Probabilmente è stato vedendo mia madre mentre plasmava piccole figure di animali lavorando il torrone con le mani. Lì ho sentito il primo, inconsapevole, impulso alla scultura. Ricordo, ancora piccolo, di aver realizzato la mia prima scultura proprio con il torrone. Spesso mi rintanavo sotto al bancone dei dolci e lì sonnecchiavo, osservavo quel che succedeva intorno a me. Sono sempre stato un ragazzino molto curioso, ma senza essere un ficcanaso. Ricordo bene l’impressione che suscitava in me il carretto del merdaiolo, trainato da un asino e sormontato da una botte che era ricolma di tutte le feci raccolte alla mattina di casa in casa, a quell’epoca non esistevano le fognature in paese, c’erano ancora i maiali in mezzo alla strada. Il merdaiolo fu la mia prima scultura.
Nel suo lavoro distinguiamo chiaramente temi sociali di importanza globale, come il lavoro, l’immigrazione, la politica …
Ho lavorato per trent’anni alle Fucine Breda. Era un cimitero vivente. Fra quelle macchine alte anche otto, dieci metri poteva succedere di tutto, era un inferno di rumori. Non c’erano controlli e nelle vicinanze c’erano scuole e abitazioni, così capitava spesso che dei bambini si intrufolassero in fabbrica. Mi chiedevo sempre perché una fabbrica del genere dovesse stare in piena città, perché non la si portasse fuori. Ho vissuto la rivoluzione del ’68, ma ora dico basta alle rivoluzioni. È solamente una rotazione costante di nuovi padroni che rimpiazzano i vecchi. Alla rivoluzione bisognerebbe preferire la riforma, soprattutto una riforma contro tutta quella gente che guadagna tanto e fa poco, e che nell’ultimo ventennio ci ha derubato, perché siamo noi a pagarli. E in tutto questo conosco persone che fanno gli infermieri a tempo pieno per 800 euro al mese. Io non giustifico la mafia e la delinquenza, mai. Ma un uomo disperato che ruba il pane per i propri figli io lo posso comprendere, rispetto ad altri tipi di delinquenti veri. Non c’è differenza fra una penna e una pistola.
Quanto è importante per lei che le sue opere abbiano un pubblico che le osservi? Nel momento in cui produce, sente l’intento a comunicare con qualcuno?
L’artista lavora certamente per sé stesso, ma il confronto col pubblico è nei suoi desideri. La prova di questo è la curiosità che ho di leggere i pensieri, non le firme, che le persone mi lasciano sui quaderni alle mostre. C’è chi scrive bene di me, chi ne scrive male, ci sono opinioni differenti sulla mia scultura, e mi incuriosiscono tutte allo stesso modo.
Solo recentemente è stata compresa l’importanza del suo lavoro. È mai stato insoddisfatto delle sue opere e quanto le opinioni degli altri hanno influito sul suo lavoro? Cosa le ha dato la forza di continuare a produrre nonostante l’assenza di riconoscimenti?
Io sono stato pubblicato, sono finito su Rai Tre, su Repubblica, mi hanno scattato molte foto. Ma dopo non ne ho mai saputo niente. Sono sempre stato più o meno visto, ma passeggero. Il professore e artista Antonio Mottolese mi è sempre stato vicino. Mi diceva “tu sei più bravo di Ligabue” e io mi imbarazzavo, non mi sarei mai messo al suo livello. Ligabue avrebbe potuto fare della buona figurazione, ma in quel momento ha deciso di fregarsene. E così faccio io, me ne frego di cosa pensano gli altri. Per me l’arte è un bisogno. Ho bisogno di modellare, mi piace fare uscire le cose dalla mia fantasia. Modellare è la mia vita. Se smettessi significherebbe che ho deciso di uccidermi.
Che cosa rappresenta per lei il successo che ha riscosso?
Il successo mi appaga, mi da soddisfazione perché riconosce un senso a quello che io ho fatto con fatica, e gli rende atto di essere unico. Se questo succede, vuol dire che io sto andando per conto mio.
Che cosa vorrebbe trasmettere ai giovani artisti di oggi?
Agli artisti giovani, che sono colti e sanno vita, morte e miracoli della storia dell’arte io dico va bene, ma non bisogna guardare al lavoro di nessuno, bisogna che guardino al loro. Quando si impara il disegno in accademia si inizia a vedere il lavoro degli altri nel proprio, e lo si contamina. Bisogna andare avanti sui propri piedi e coi propri sentimenti. E ricordarsi che la gelosia non serve a niente.
di Iacopo Pesenti
Linkografia:
Galleria Isarte, Corso Garibaldi 2, Milano
aprile 28th, 2014 at 22:14
Ritengo Gervasi un artista Estroso , apprezzo le sue opere , in particolare le sculture . Bravo Umberto