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Sono lenti lumaconi…ma saranno i motori del futuro!

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Sono lenti lumaconi…ma saranno i motori del futuro!

Pubblicato il 18 marzo 2018 by redazione

Cyborg-lumache

Evgeny Katz

Le lumache saranno il motore del futuro! Questa sembra essere la sfida lanciata dal laboratorio di Evgeny Katz, professore del Dipartimento di Chimica Biomolecolare e Scienza, della Clarkson University di Potsdam, New York (che sta sviluppando il progetto in collaborazione con il Dipartimento di Nanotecnologie dell’Università Ben-Gurion di Bersabea, in Israele). L’idea di fondo: trasformare il glucosio prodotto dalle lumache in energia ecologica! Come? Convertendo queste simpatiche polentone in cyborg-lumache. Sul guscio dei molluschi, infatti, vengono praticati due fori e impiantate minuscole celle a biocombustibile, costituite da due elettrodi ricavati da due sottili fogli di nanotubi di carbonio, chiamati Buckypaper. Questo materiale altamente conduttivo viene, quindi, ricoperto di enzimi, che favoriscono le reazioni chimiche nel corpo dell’animale. Come spiega il Professor Katz: “Usando un enzima diverso per ciascun elettrodo, uno che estragga elettroni dal glucosio e l’altro che sfrutti questi elettroni per trasformare le molecole di ossigeno in acqua, creiamo corrente elettrica”. Operazione che può essere ripetuta più e più volte, a condizione che le lumache vengano nutrite e fatte riposare dopo ogni processo e che, assicura Katz, non è doloroso per gli animali “elettrificati”.

Queste lumachine verranno trasformate in vere e proprie bio-batterie, dove la definizione tecnica “pila” è proprio: dispositivo che converte energia chimica in energia elettrica!

Recuperare le forze

L’unico potenziale ostacolo? Il fatto che il tasso di produzione di energia delle celle dipenda necessariamente dalle dimensioni degli elettrodi e, di conseguenza, dalla velocità con cui glucosio e ossigeno possono essere estratti dall’emolinfa delle lumache. Un altro problema riguarda la continuità dell’alimentazione energetica a livelli soddisfacenti, dal momento che queste piccole bio-batterie tendono a “esaurirsi” rapidamente se la produzione energetica è intensiva e, quindi, hanno poi bisogno (e il sacrosanto diritto!) di un discreto margine di tempo per recuperare le forze.

lumache

Bioelettrodi per alimentare dispositivi microelettronici per uso militare

L’impiego di queste piccole bio-batterie? Il New York Times parla di “lumache da guerra” non a caso, dal momento che il progetto sembra aver attirato

l’attenzione del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti, tra i finanziatori del progetto, che vedono in questa peculiare “fonte di energia”, una soluzione al problema dell’alimentazione energetica durante le missioni di lungo periodo. Le micro-batterie potrebbero, infatti, andare ad alimentare spie, microfoni, videocamere, sensori di telerilevamento e altri componenti elettronici di piccola grandezza, ed è lo stesso Katz a non farne mistero, quando dice: «In futuro, i bioelettrodi saranno connessi a dispositivi microelettronici (che rilevano e trasmettono senza fili) fissi al corpo della chiocciola, che sarà rilasciata e potrà muoversi quanto e come vorrà. Ora basterà solo munirle di videocamere o di sensori di telerilevamento che ovviamente non necessitano di grandi quantità di energia ».

Ma anche in questo caso non si tratta di una novità! Esiste, infatti, un’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, chiamata Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency), incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, creata agli inizi degli anni ’90 (la stessa che creò Arpanet, “l’antenato” del moderno Internet). Questa sezione del Pentagono studia da anni l’applicazione di nanotecnologie sui piccoli esseri viventi e le lumache non sono che uno dei possibili animali ospitanti: prima i vermi, poi le blatte e gli scarabei e ora persino i crostacei.

Inutile dire che la ricerca segue un ritmo sempre più incalzante e il confine tra scienza e fantascienza sta diventando sempre più labile, ma ammettetelo: a chi, leggendo l’articolo, non è venuto in mente (anche solo per un istante!) la celebre scena di Matrix dove gli uomini, imprigionati in sacche, vengono coltivati in campi immensi per nutrire le macchine?

E se un domani le lumache fossimo proprio noi?

di Sara Pavesi

 

Linkografia: 

 

 

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Le nuove mini bombe atomiche rilanciano la corsa agli armamenti

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Le nuove mini bombe atomiche rilanciano la corsa agli armamenti

Pubblicato il 25 novembre 2015 by redazione

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Trinity Site Obelisk National Historic Landmark.

All’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo, finita la Guerra Fredda, sembrava si stesse affermando finalmente un clima di distensione tra Paesi, prima duramente contrapposti sia sul piano ideologico, sia sul piano economico – militare.

I trattati internazionali di disarmo nucleare START I del 1991 e START II del 1993, poi il trattato SORT del 2002 e il New START o Trattato di Praga del 2010, hanno consentito riduzioni notevoli degli arsenali e regole precise sullo sviluppo di alcune categorie di armi e vettori nucleari.

L’entusiasmo si è però progressivamente spento, lasciando il posto a un’altra preoccupazione: il nuovo ‘disordine mondiale’, ha consentito di far riemergere gli scontri latenti tra gli Stati.

La tragedia dell’11 settembre 2001 ha fatto ripiombare il mondo in una situazione di tensione e di diffidenza reciproca fra le nazioni.

Una delle conseguenze è stato il tentativo da parte di molti Paesi di entrare nel cosiddetto club nucleare, cioè il gruppo di Paesi in possesso dell’arma atomica.

Bisogna ammettere che la tecnologia di base ormai non è più appannaggio solo di quegli Stati che per primi l’hanno sviluppata, sebbene progettare un’arma atomica resti una cosa piuttosto complessa.

Le tensioni anche tra le grandi due superpotenze USA e Russia è tornata a salire, fino a sfociare di fatto in una nuova corsa agli armamenti, propagandata come razionalizzazioni e ammodernamenti degli arsenali nucleari, necessari e formalmente rispettosi dei limiti imposti dai trattati internazionali.

Gli Stati Uniti hanno sostenuto, a propria giustificazione, l’impossibilità di proseguire nello sviluppo del Trattato di Non Proliferazione (TNP), finché vi siano Paesi apertamente impegnati nello sviluppo nucleare.

Le vicende che fino a oggi hanno coinvolto l’Iran e la Corea del Nord sono esempi attualissimi.

Washington ha annunciato un piano trentennale di revisione dello stockpile nucleare con una spesa prevista di circa 400 miliardi di Dollari. La necessità di rendere sicuro e controllabile l’arsenale è reale, riguarda tutti i possessori di armi nucleari, ma i programmi di tutti i Paesi del club sono chiaramente sovradimensionati.

Inoltre hanno incominciato a guardare all’atomica anche Paesi, stabili e potenzialmente capaci di sviluppare un programma , che però per motivi storici e politici si erano finora tenuti a distanza dall’arma nucleare.

Tra l’altro le tecnologie di calcolo attuali permettono di evitare la fase più eclatante dello sviluppo di un’arma, ovvero i test di prova.

La situazione se possibile è diventata ancora più incontrollabile con la crescita del terrorismo fondamentalista islamico, che sta tentando di scatenare una nuova guerra fra Oriente e Occidente.

Anche le organizzazioni estremiste mirano ora più che mai a mettere le mani sul materiale fissile per acquisire una terribile capacità di distruzione di massa.

In questo panorama internazionale sempre più inquietante, manca la volontà di collaborare tra molti governi potenzialmente coinvolti, anzi c’è chi sostiene che i trattati internazionali, disegnati sul modello di un mondo che non c’è più, siano superati e non valga la pena tenerli in vita.

In poche parole, si è tornati a parlare di un uso limitato e locale dell’arma nucleare, come se si trattasse di un’arma convenzionale qualsiasi: già nel 2003, durante la seconda Guerra del Golfo e l’invasione dell’Iraq, per la prima volta esponenti del governo statunitense ipotizzarono apertamente il ricorso a ordigni tattici nucleari, sotto la minaccia che il dittatore iracheno Saddam Hussein potesse utilizzare quelle armi di distruzione di massa, la cui eliminazione era stata uno dei motivi principali per giustificare la guerra.

In realtà, nulla di nuovo sotto al sole: il Nuovo Concetto Strategico adottato dal Pentagono nel 1999 già chiaramente indicava l’attualità dello strumento militare nucleare, la necessità di rivedere le regole del suo impiego nel nuovo scenario internazionale e di rilanciare lo sviluppo tecnologico di queste armi.

I vertici politico militari degli altri Paesi non è che avessero posizioni molto diverse, nonostante le molte polemiche sollevate verso la nuova dottrina sul nucleare…

Anzi, con tutta probabilità a rendere di nuovo appetibile l’opzione militare nucleare sui campi di battaglia pare essere proprio lo sviluppo scientifico e tecnologico raggiunto in questo campo.

 

L’evoluzione dell’arma atomica

Il 16 luglio 1945 a Alamogordo, nel deserto del New Mexico, la prima esplosione nucleare provocata dall’uomo (in codice Trinity test), inaugurò l’era atomica.

Furono finalmente chiare due cose: Albert Einstein aveva ragione, la sua teoria della relatività funzionava e l’uomo era finalmente in grado di dominare o, meglio, di scatenare la più grande potenza che si sia mai vista, contenuta nella struttura più piccola che si conoscesse, l’atomo.

Immagine 1

Questo fotogramma scattato 25 millisecondi dopo l’innesco della prima reazione a catena indotta dall’uomo, ci mostra l’attimo in cui è iniziata l’era atomica. Il Trinity test a Alamogordo, deserto del New Mexico.

Come le sue dirette discendenti che esplosero il mese dopo su Hiroshima e Nagasaky, si trattava di un ordigno che sfruttava il fenomeno della fissione nucleare.

Ovvero, la proprietà dell’Uranio 235 o del Plutonio 239 di emettere una straordinaria quantità di energia, in quanto elementi caratterizzati da una altissima densità e peso atomico.

L’Uranio 235 è un isotopo fortemente arricchito dell’U92 e il Plutonio239, non esistente in natura, si genera sottoponendo l’Uranio 238 a un bombardamento di neutroni.

La pesantezza dei nuclei li rende elementi altamente instabili e già naturalmente radioattivi, cioè capaci di emettere energia sotto forma di radiazioni, per arrivare all’equilibrio: il funzionamento dei reattori atomici e degli ordigni bellici sfrutta questo fenomeno per utilizzare l’energia contenuta nei nuclei.

Quando si colpisce con un neutrone un nucleo di U235, il nucleo dell’uranio si spezza, provocando la creazione di due nuclei di elementi diversi e l’emissione di altri due o tre neutroni.

Se la massa di materiale instabile e abbastanza concentrata, i neutroni usciti dalla prima fissione atomica non si disperderanno, ma andranno a colpire il nucleo di un atomo vicino, che subirà a sua volta fissione, emettendo altri neutroni, che colpiranno a loro volta i nuclei di atomi vicini.

E’ il principio della reazione a catena.

Circa 1% della massa atomica si converte in energia, sotto forma di radiazioni e energia cinetica dei neutroni.

La massa di materiale instabile adatta a generare questa reazione è detta massa critica e può variare in base all’elemento atomico scelto per armare la bomba, dalla sua purezza e concentrazione come isotopo fissile, dalla forma geometrica, così come da eventuali schermature inserite per contenere al massimo la fuga di neutroni.

In una testata atomica, come quelle Little Boy che venne sganciata su Hiroshima o Fat Man lanciata su Nagasaky, la massa critica è divisa in due o più sub masse, generalmente sferico-concave, che vengono fatte collidere a alta velocità, usando esplosivo convenzionale per spararle letteralmente l’una contro l’altra.

Le sub masse così unite costituiscono il nocciolo dell’arma: la compressione provoca il distacco di neutroni da alcuni atomi e la scissione di altri, causando l’innesco della reazione a catena incontrollata.

Al centro della massa fissile normalmente viene inserita una piccola quantità di un elemento potenziatore, come il Polonio 239, forte emettitore di neutroni.

E’ il modello usato per Little Boy, in cui sono stati bruciati circa 65 chilogrammi di Uranio 235.

La massa critica necessaria a generare la reazione si riduce a circa a 7- 10 chili, se si usa lo schema più efficiente a implosione, adottato nell’ordigno Fat Man.

In questo modello le sub masse fissili sono poste attorno al nocciolo vero e proprio, a costituire una sfera, venendo fatte collidere tutte con precisione nello stesso istante, mediante un sistema di cariche di esplosivo convenzionale, azionate da un complesso sistema elettronico.

Si tratta tipicamente dello schema degli ordigni detti di prima generazione, in cui al massimo si riesce a sfruttare solo il 15% del materiale fissile, il resto viene distrutto dalla reazione termica e meccanica dell’esplosione stessa. Tuttavia la presenza nella testata di tale quantità di materiale è necessaria perché si possa innescare la reazione a catena.

Inoltre se i neutroni sono troppo veloci e non vengono contenuti nell’ambito della massa critica, rischiano di rimbalzare, invece che penetrare gli altri atomi, disperdendosi inutilmente all’esterno.

La scissione dell’atomo di Uranio o Plutonio genera altri sub elementi, fortemente radioattivi come il Cesio 137, lo Stronzio 90 e lo Iodio 131, presenti nel fall out radioattivo provocato dall’enorme quantità di materiale che la bomba ha incenerito e risucchiato nel fungo atomico. Questi elementi, assieme alle radiazioni Alfa, Beta ma sopratutto Gamma, sono i principali responsabili dei danni gravissimi alle catene del DNA degli esseri viventi, che si vanno a sommare a quelli causati dalle temperature che raggiungono nell’epicentro della deflagrazione circa 500/700mila gradi centigradi e a quelli causati dal violentissimo spostamento d’aria, che può raggiungere i 300 chilometri all’ora nell’area più vicina all’epicentro.

Quindi, chi non viene subito vaporizzato, muore tra atroci sofferenze per le ustioni e i traumi gravissimi subiti. Oppure nei giorni successivi mostra i segni dell’avvelenamento acuto da radiazioni, che hanno minato il fisico dall’interno e provocano il decesso delle vittime, con una agonia terribile. Tumori e malformazioni genetiche continueranno per decenni a colpire i sopravvissuti e le generazioni successive, come conseguenza a lungo termine dell’irradiazione o dell’assorbimento nel corpo di elementi fortemente radioattivi.

E’ il calvario che hanno dovuto subire gli abitanti delle due città giapponesi annientate alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

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Schema tipico di un ordigno atomico con innesco “a proiettile”, come quello adottato nella bomba Little Boy.

 

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Schema della fissione atomica e dell’innesco di una reazione a catena.

Per ovviare ai limiti di efficienza delle prime atomiche, venne sviluppato il progetto di una bomba che impiegasse il fenomeno fisico opposto alla fissione, cioè la fusione nucleare tra due nuclei atomici.

La bomba termonucleare all’Idrogeno o bomba H sfrutta questo fenomeno, che sta alla base del funzionamento delle stelle, come il nostro sole.

Lo schema di questa bomba, detta a fissione – fusione – fissione secondo il modello sviluppato dai fisici Edward Teller e Stanislaw Ulam, prevede una prima sezione costituita da una bomba atomica a fissione.

All’interno dell’arma è contenuta una certa quantità di un isotopo instabile dell’Idrogeno, il Deuterio (H2), allo stato solido, assieme a Litio 6. Al centro dell’ordigno, una canna vuota di Plutonio 239.

Innescata la reazione di fissione classica del primo stadio, la pressione e il calore generato dalla prima reazione di fissione surriscaldano il Deuterio e il Litio.

La seconda reazione di fissione avviene nella canna di Plutonio, generando neutroni veloci e altro calore, che provocano a loro volta la scissione del Litio6 in Trizio o H3, altro isotopo dell’Idrogeno.

A questo punto avviene la reazione di fusione fra Deuterio e Trizio, con la generazione di enorme quantità di energia, fino a 20 milioni di gradi centigradi, onde d’urto a centinaia di chilometri all’ora e potentissimi impulsi elettromagnetici, capaci di distruggere ogni apparecchio elettrico nel raggio di centinaia di chilometri.

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Schema della fusione nucleare, alla base del funzionamento della bomba termonucleare o bomba H.

L’arma termonucleare è divenuta il modello più diffuso per molti decenni negli arsenali, perché ha reso possibile raggiungere potenze teoricamente illimitate, misurabili in megatoni, ossia in milioni di tonnellate di tritolo. Successivamente, la ricerca applicata ha consentito di immagazzinare nella bomba direttamente una piccola quantità di Trizio per l’interazione col Deuterio, senza dipendere dalla fissione de Litio6.

Sono le armi definite di seconda generazione.

L’arma termonucleare sarebbe di per se più pulita dell’arma a fissione, in quanto produce molti meno isotopi radioattivi pericolosi, ma se fatta esplodere in vicinanza del suolo o della superficie marina, provoca una quantità di fall out mostruosamente più grande.

Testate termonucleari furono installate in quasi tutti i tipi di armi, dai missili intercontinentali balistici alle mine antisommergibili, dai missili antiaerei alle armi a caduta libera, in una sorta di febbre del tutto nucleare.

Già nel 1961, quando l’URSS fece esplodere la mostruosa bomba Tzar dalla potenza di 50 megatoni e dal peso ingestibile di 27 tonnellate, la corsa alla bomba più grande stava terminando.

La nuova sfida era rendere più leggere e maneggevoli le testate, specialmente quelle da installare sulle nuove e temibili generazioni di missili strategici intercontinentali a testate multiple indipendenti, i MIRV (Multiple Independently targetable Reentry Vehicles).

L’utilizzo delle testate multiple garantisce più vantaggi a livello tattico e strategico: si aumenta la capacità distruttiva dei propri sistemi, diminuendo la potenza delle testate, si ha la capacità di distruggere più obiettivi contemporaneamente, si mettono praticamente fuori gioco le difese antimissile degli avversari, che difficilmente sarebbero capaci di intercettarle tutte.

Figlie in linea diretta di queste armi furono le cosiddette armi al Neutrone, in cui gli effetti termici e cinetici venivano trascurati per concentrarsi sull’emissione di neutroni sotto forma di raggi Gamma.

Modello previsto per armi tattiche da usare sui campi di battaglia, consentiva di colpire tutte le forme di vita attorno all’esplosione, lasciando invece essenzialmente intatte le strutture e evitando in buona parte il fall out radioattivo successivo.

In questo modo le truppe sul campo di battaglia avrebbero potuto teoricamente muoversi, senza quasi temere contaminazioni da elementi radioattivi a lunga durata.

Le bombe di questa classe, definite armi di terza generazione, sono sempre state oggetto di un certo scetticismo sia da una parte degli scienziati, sia da parte dei militari stessi, non solo per i dubbi sulla loro reale efficienza, ma sopratutto per la scarsa flessibilità di impiego.

La forte reazione morale dell’opinione pubblica a fronte degli effetti potenzialmente devastanti di tale bomba, ha causato il suo ritiro da buona parte degli arsenali nucleari, seppure una certezza assoluta della loro eliminazione totale non vi possa essere, a causa del segreto militare imposto da vari Paesi.

 

Smart Nuke Bomb: la quarta generazione delle armi nucleari e l’adattamento delle armi di generazione precedente.

Nel nuovo scenario internazionale dunque possedere bombe di grande potenza, costose da costruire e da mantenere efficienti, poco o nulla flessibili nel loro impiego, non è più conveniente: si sta cercando di sostituirle in tutto o in parte con ordigni molto più leggeri, compatti e economici.

Le potenze atomiche hanno già fatto molti sforzi, aggiornando le armi già in servizio negli arsenali alle nuove filosofie di impiego e alle nuove necessità strategiche del mondo di oggi.

E’ il caso della bomba termonucleare statunitense B61: introdotta nel 1966 come arma a basso potenziale, dal 1993 è presente nell’arsenale atomico statunitense (ma non solo) nella sua ultima versione B61 – 11.

Definita NEP, ovvero Nuclear Earth Penetrator, è stata pensata come arma bunker buster, ovvero per colpire fortificazioni sotterranee o edifici corazzati. Essenzialmente è un’arma termonucleare tattica, con una carica regolabile che può variare in potenza da 1 a 10 kilotoni, ma può arrivare anche a 1 megatone.

In realtà è un ottimo esempio delle armi pensate per i conflitti a bassa intensità del dopo Guerra Fredda.

Presentata come arma in grado di evitare il fall out radioattivo e preservare la vita della popolazione civile, in realtà nei test ha evidenziato grosse difficoltà a restare efficiente, una volta entrata oltre i sei metri nel terreno.

E’ chiaro che se venisse utilizzata operativamente, secondo le nuove filosofie di impiego localizzato, in ambiente urbano darebbe comunque luogo a irradiazione da raggi Gamma e contaminazione da dispersioni radioattive importanti, con ricadute potenzialmente anche lontane dal luogo di impatto.

Dopo gli ultimi studi però l’arma è stata dichiarata perfettamente aderente alle specifiche e rimessa in stoccaggio nei depositi di munizionamento nucleare.

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Bomba termonucleare tattica B61-11 su carrello da trasferimento.

Attualmente è stato previsto un ulteriore step di aggiornamento alla versione B61-12, che riguarderebbe la compatibilità con gli aviogetti di nuova generazione, come l’F35 Lightning II, in via di acquisizione da parte di molte nazioni della NATO. La spesa prevista per dotare le armi di nuovi sistemi di guida remota è di 178 milioni di dollari, al valore del 2012. Tuttavia l’opposizione di molti Paesi a ospitare tali ordigni, i dubbi circa l’opportunità di spendere tali cifre su armi a caduta di vecchia generazione, avevano messo in forse il programma, ma l’amministrazione del Presidente Barak Obama pare abbia riconfermato l’aggiornamento.

Circa una ventina di questi ordigni è conservata presso la base militare di Ghedi, secondo la politica NATO del nuclear sharing, la condivisione con le forze armate degli alleati di armamenti nucleari, formalmente di proprietà del Paese produttore, gli Stati Uniti, che continuano a gestirle e manutenerle con unità speciali di supporto logistico.

Altro esempio sono le testate da demolizione W45 SADM (Special Atomic Demolition Munition), trasportabili a spalla in uno zaino militare.

Pensata per operazioni locali, pesava però circa 45 chili, a causa dei sistemi di innesco e del materiale fissile prescelto, il Plutonio 239. Ne è stata anche prodotta una versione lanciabile attraverso un razzo terra – terra da 120 millimetri, la potenza per entrambi poteva variare tra una frazione di kilotone e i 6 kilotoni.

Dati i limiti tecnici e la facilità con cui si potevano danneggiare, questi dispositivi sono stati comunque ritirati dal servizio, così come sono stati ritirati i proietti all’Uranio 235 pensati per l’uso con l’obice da 155 millimetri modello M 109.

Tuttavia, molto probabilmente sia Israele che la ex Unione Sovietica hanno continuato lo sviluppo di ordigni da valigia, ulteriormente miniaturizzati e facilmente occultabili su aerei o altri mezzi di trasporto, per uso di sabotaggio.

Queste armi sarebbero ideali per i gruppi terroristici, quindi vengono considerate tra le più pericolose. Infatti resta il dubbio che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le forze armate e lo spionaggio russo abbiano perso le tracce di molti di questi ordigni, spesso dislocati all’estero.

Si tratta comunque di dispositivi che necessitano di manutenzione e cura particolare perché possano restare efficienti.

Resta chiaro che l’adattamento di armi di vecchia generazione non può essere una soluzione al problema delle strategie moderne.

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Ordigno da demolizione portatile W 45 SADM.

Il loro uso causerebbe comunque un olocausto nucleare su vasta scala, per cui i vertici statunitensi (ma è molto probabile siano giunti alle stesse conclusioni anche quelli russi o cinesi) hanno incominciato a pensare a un concetto di arma completamente nuovo.

Vi è un’opinione diffusa secondo la quale la ricerca militare, in alcuni momenti storici abbia permesso successive applicazioni in campo civile.

E’ un giudizio però un pò superficiale e errato, specialmente per il momento attuale.

E’ indubbio che i progressi nel campo dei superconduttori, delle nanotecnologie (avvenuti specialmente negli Stati Uniti) una volta applicate al campo della ricerca militare, consentiranno lo sviluppo di una generazione di armi nucleari radicalmente nuova e diversa rispetto al passato.

Quindi siamo in presenza dell’esatto contrario, è la ricerca civile che sta trainando e rilanciando quella bellica, specie nel campo delle armi non convenzionali.

Se da un lato procurarsi Uranio arricchito o Plutonio resta non del tutto facile, dati i controlli dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), dall’altro è diventato molto più semplice procurarsi le tecnologie per farselo in casa.

Procurarsi centrifughe per l’arricchimento sul mercato internazionale è molto più semplice che in passato.

La vicenda del programma nucleare iraniano è emblematica in questo senso, dato che le centrifughe ufficialmente sono state acquistate per la produzione di energia a uso civile.

In realtà ciò che resta molto difficile per Paesi di medio sviluppo è procurarsi la tecnologia del Trizio.

Sappiamo che è un gas leggero, radioattivo, estremamente instabile, ottenuto dall’irraggiamento di atomi di Litio6 con neutroni veloci: ne bastano pochi grammi in un moderno ordigno termonucleare.

Costruire acceleratori di particelle per produrre il Trizio resta anche più difficile che procurarsi l’Uranio o le centrifughe di arricchimento.

E’ a questo punto che la ricerca civile è venuta, più o meno consapevolmente, in aiuto di quella militare contribuendo al suo rilancio.

La tecnologia del Trizio è fondamentale anche nelle ricerche civili sulla fusione nucleare controllata, applicata alla produzione di energia.

L’utilizzo di generatori laser super potenti dovrebbe consentire di comprimere e portare a fusione un pit

contenente pochi milligrammi di Deuterio e Trizio.

La fusione di un milligrammo di tali elementi consentirebbe di sprigionare un’energia di ben 340 milioni di Joule, quindi un reattore a fusione laser da un Megawatt consumerebbe solo 1,5 milligrammi di Deuterio e Trizio all’ora.

Un risultato fenomenale che potrebbe finalmente rendere la dipendenza dalle tradizionali fonti di energia non rinnovabili un ricordo del passato.

Grandi impianti come National Ignition Facility 192 americano, sviluppato dalle ricerche del Lawrence Livermore National Laboratory, o il francese Megajoule 240 realizzato nelle vicinanze di Bordeaux presto permetteranno di raggiungere questo know how.

Restano ancora da realizzare laser estremamente compatti e potenti, ma che riescano anche a limitare il consumo di energia. Anche in questo campo la ricerca sui superconduttori e le nanotecnologie sta facendo passi da gigante, per cui le ricadute in campo bellico non si faranno attendere.

Negli Stati Uniti in particolare, si lavora già con i super computers, in grado di gestire interventi di precisione su dimensioni dell’ordine di un miliardesimo di metro, quindi siamo nell’ambito di gruppi di poche decine di atomi.

Del resto, proprio il principio della libera ricerca, che metta a disposizione dell’umanità conoscenze e applicazioni, è il motore del progresso scientifico e dello sviluppo delle tecnologie: sarebbe ipocrita cercare di limitarlo ora per paura delle conseguenze nella ricerca militare.

A questo punto, una volta in possesso di laser compatti super efficienti per ottenere il Trizio e indurre la fusione Deuterio – Trizio, il passo successivo sarebbe la realizzazione di ordigni a fusione pura (eliminando il terzo stadio a fissione che abbiamo visto presente nello schema tradizionale Teller – Ulam), di potenza ridotta, fino a mille volte meno di una testata nucleare di media potenza della vecchia generazione. Un’arma di pochi chilogrammi, se non di pochi etti, sarebbe in grado di generare la potenza di alcune tonnellate di tritolo.

Tale limitazione di dimensioni e potenza potrebbe facilmente sottrarre questa nuova classe di armi nucleari al controllo delle convenzioni e dei trattati di non proliferazione attualmente in vigore, con il terrificante risultato che potrebbero essere legalmente inserite, per il diritto internazionale, tra le armi convenzionali.

Sarebbe difficile per i comandi politici e militari resistere alla tentazione di utilizzare le armi di nuova generazione nei complessi e difficili scenari del nuovo millennio: comunque queste nuove armi, sulle quali la censura militare è comprensibilmente molto stretta, sono e resteranno armi nucleari, con tutte le loro terrificanti potenzialità e conseguenze.

Per esempio, basterebbe variare la quantità di Deuterio e Trizio nella testata, regolando di conseguenza la potenza del laser di fusione, per aumentare indefinitamente la potenza di un ordigno.

In ogni caso, l’opinione pubblica internazionale dovrebbe essere attenta sulle armi nucleari di nuova generazione, perché stiamo ritornando, momenti in cui la proliferazione crescente e l’insicurezza internazionale potrebbero riavvicinare l’umanità al baratro del conflitto, prima di quanto si possa immaginare.

di Davide Migliore

 

Linkografia e bibliografia

https://en.wikipedia.org/wiki/Nuclear_weapon_design

https://en.wikipedia.org/wiki/Nuclear_weapon_yield

http://www.spiegel.de/international/world/us-modernizing-its-nuclear-arsenal-despite-criticism-over-weapons-a-932188.html

http://www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem/nuocontri/baracca.htm

http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/nuclear2.htm

http://www.difesaonline.it/mondo-militare/difesa-nato-gli-usa-inviano-20-nuove-bombe-nucleari-germania-italia-dalle-30-alle-50

http://www.nexusedizioni.it/it/CT/la-nuova-dottrina-del-pentagono-le-mini-atomiche-sono-sicure-per-i-civili-di-michael-chossudovsky-533b2bd08a385

https://it.wikipedia.org/wiki/Bomba_atomica_da_zaino

http://www.repubblica.it/esteri/2013/06/19/news/sulle_rampe_o_in_aerei_e_sottomarini_ecco_i_numeri_del_terrore_atomico-61398604/

https://it.wikipedia.org/wiki/Accordi_START

http://it.ibtimes.com/quali-sono-gli-stati-con-armi-nucleari-1361196#

http://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Armi-Nucleari/%28desc%29/show

http://www.massacritica.eu/nel-2017-un-arco-da-32-000-tonnellate-ricoprira-il-reattore-di-chernobyl/7340/

http://www.massacritica.eu/sparse-sul-pianeta-ci-sono-20000-bombe-nucleari/10614/

http://www.massacritica.eu/una-guerra-nucleare-e-possibile/10798/

http://www.massacritica.eu/fukushima-tutto-il-non-detto-troppo-non-detto/33/

http://www.massacritica.eu/cernobyl-un-disastro-annunciato/6721/

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Leoni per Agnelli

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Leoni per Agnelli

Pubblicato il 22 luglio 2015 by redazione

Immagine di apertura

Quando esce nel 2007, il film Lions for lambs, Leoni per agnelli nella traduzione italiana, provoca numerose discussioni sia nella critica cinematografica, sia nella società americana.

L’attore e regista Robert Redford, uno dei volti più importanti del cinema americano, riesce a mettere davanti agli occhi di tutta l’opinione pubblica le contraddizioni della società statunitense, che dopo l’attacco alle torri gemelle di New York, sente minacciati i valori fondanti della democrazia. Lo scollamento fra la società e la classe politica è ormai evidente, la prima troppo distratta e impaurita e la seconda fortemente cinica e detentrice di un potere così grande, che nemmeno il presidente Roosevelt, durante i drammatici anni della seconda guerra mondiale, aveva mai neppure immaginato di poter esercitare.

Il pesantissimo prezzo di questa paradossale situazione viene pagato dalle giovani generazioni americane, che credendo patrioticamente alle parole d’ordine dei loro leader politici, sulla necessità della guerra al terrore e agli Stati canaglia, si sacrificano sui campi della guerra in Iraq e in Afghanistan, dove trovano poi la morte. Si contano 21000 morti, fra civile e militari, di cui solo 2300 saranno soldati americani: il conflitto più lungo della storia americana!

Morti Afghanistan

Morti Afghanistan_2

Sicuramente Robert Redford vuole fare un film non di guerra, ma sulla guerra.

Non un film di denuncia o di sostegno aperto a una tesi politica, dunque, ma un film che mostri la situazione della società americana e in generale di quella occidentale, per stimolare ogni persona a riflettere liberamente, e prendere posizione, superando un’impasse morale che sembra, ormai, affliggere molti.

Redford, regista e attore, è affiancato da un cast di tutto rispetto, in cui figurano Meryl Streep e Tom Cruise, nell’interpretazione magistrale del giovane e arrogante politico in carriera.

Ritornato alla regia, dopo essere stato negli ultimi 7 anni solo davanti alla macchina da presa, Redford si guadagna il favore della critica più tecnica, che gli riconosce il merito di aver costruito una trama mirabilmente inanellata in cui risalta l’interpretazione degli attori, che in un solo giorno restituiscono tutto il senso del film.

Non viene, però, apprezzato il ruolo che Redford ritaglia per sé, quello del saggio professore universitario che si sforza di spronare un giovane studente talentuoso, ma disimpegnato, giudicato un pò scontato e frutto di un furbo calcolo.

È piaciuto anche poco come il film non “affondasse il colpo”, sostenendo apertamente una posizione contro la politica del’Amministrazione Bush.

Ma Robert Redford, da sempre tra i protagonisti di Hollywood più impegnati politicamente (basti pensare solo alla sua attività a favore del Sundance Festival, la festa più rappresentativa del cinema indipendente americano), accetta anche copioni non facili da digerire per l’opinione pubblica del suo Paese: il film I tre giorni del condor, è un’aperta denuncia del potere occulto dei servizi segreti ed è diventato uno tra i film più importanti della cinematografia moderna.

Matthew Michael Carnahan.

Matthew Michael Carnahan.

La costruzione del film e la sua trama

L’idea alla base del film viene allo sceneggiatore Matthew Michael Carnahan, durante una sera a casa, mentre distrattamente vaga tra i canali televisivi.

Colpito da come si possa passare da un servizio sulla guerra in Iraq alle notizie di gossip o di sport, senza alcuna differenza, come se le notizie avessero tutte lo stesso peso, Carnahan si pone delle domande, quelle che saranno poi alla base della sceneggiatura del film: se nessuno può negare che la sicurezza nazionale non sia importante, si può sostenere senza ombra di dubbio che le vite dei soldati siano davvero sacrificabili per salvarne delle altre?

La difesa della libertà può veramente passare attraverso una sua limitazione?

Che Robert Redford, così come Tom Cruise o Meryl Streep, fossero contrari alla strategia militare e alla visione politica del governo repubblicano lo si sa per certo, ma le domande che stanno dietro a questo film, la sete di risposte e di riflessione sono ben più importanti e vanno sicuramente al di là di facili conclusioni.

Probabilmente è questo che convince Redford, così come Tom Cruise, oggi uno degli azionisti di riferimento della compagnia che ha prodotto il film, la United Artists, tra le più antiche degli Stati Uniti (fondata nel 1919 da un gruppo di attori, tra i quali Charlie Chaplin e Douglas Fairbanks) e oggi parte del potente gruppo Metro Goldwin Mayer.

Il film si svolge, come dicevamo, in tre luoghi diversi, ma nella stessa giornata.

Unico filo conduttore la guerra, che ha conseguenze sulla vita di chiunque, che lo si voglia o meno.

Ognuna delle scene, in continua alternanza fra loro, ruota attorno alla vicenda di due ex studenti della facoltà di scienze politiche, Ernest Rodriguez (interpretato da Michael Peña) e Arian Finch (impersonato da Derek Luke) che, convinti della necessità di fare qualcosa per il proprio Paese, lasciano l’università e si arruolano volontari.

Lions For Lambs

Ernest Rodriguez ( Michael Peña) e Arian Finch (Derek Luke) sull’elicottero che li sta portando nella missione fatale.

Sono loro i leoni coraggiosi e speranzosi del titolo del film, inviati in una tragica missione pianificata e gestita secondo le strategie supponenti del Governo americano e del Pentagono.

I due ragazzi cadranno in Afghanistan e la loro morte rappresenterà il tradimento del loro idealismo entusiasta e sincero, lo spreco dei loro talenti e delle loro giovani vite.

Lungo tutto il film si assiste al fallimento della missione e alla tragica morte dei due ragazzi, feriti e circondati dai mujaheddin nella neve delle montagne afghane, dove la superiorità tecnologica statunitense servirà a rendere i responsabili della missione solamente testimoni impotenti della loro morte.

Ma la scena centrale del film è il faccia faccia fra la giornalista d’assalto Janine Roth (Meryl Streep), ormai prossima ai sessant’anni e il giovane senatore Jasper Irving (Tom Cruise), lanciato nella carriera politica.

E sarà attraverso l’intervista della giornalista veterana al giovane politico rampante, che Redford mostrerà i diversi punti di vista sull’opportunità della guerra e sulle strategie per condurla.

Metaforicamente, in questo modo, Robert Reford mette anche a nudo la decadenza della classe giornalistica americana, baluardo durante gli anni Sessanta del diritto d’informazione contro gli abusi e le brutture del potere, di cui ne fu un esempio lo scandalo del Watergate, che portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon.

Curiosamente, nel film del 1976 di Alan J. Pakula, Tutti gli uomini del presidente, proprio Redford interpreta il ruolo del giornalista Bob Woodward, a fianco di uno strepitoso Dustin Hoffman / Carl Bernstein.

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Janine Roth (Meryl Streep) intervista il senatore Jasper Irving (Tom Cruise).

 

Nella scena del film Janine Roth sembra esitare: con la sua esperienza potrebbe facilmente mettere in difficoltà il senatore Irving e invece si fa affascinare, quasi condurre dalla sua eloquenza.

Mentre ritorna in taxi al giornale per cui scrive, la giornalista riflette sulle cose che non la convincono e vorrebbe scrivere un pezzo sui quei lati oscuri dell’intervista che proprio non le tornano.

Litiga pesantemente con il caporedattore, il quale cinicamente e realisticamente sottolinea che oggi a dettare la linea del giornale non è la ricerca della verità, ma gli interessi degli azionisti.

Per cui un articolo critico verso il governo, se potenzialmente può allontanare lettori o sponsor, non verrà mai pubblicato.

È la sconfitta della libertà del giornalismo (e di conseguenza, della libertà di parola), ridotto ad altoparlante del potere politico ed economico.

L’amara presa di coscienza, che Redford persegue nel film, viene rappresentata dalla giornalista Janine Roth, che lascia la professione proprio mentre al telegiornale della sera passa la versione delle notizie che lei non voleva dare nel suo articolo.

Dall’altro lato, il senatore Irving incarna in pieno la figura del politico moderno, intelligente e volitivo, ma anche privo di scrupoli morali e di vero talento.

Di questo ruolo Tom Cruise ne da una grande interpretazione, l’incarnazione esatta che Robert Redford voleva far emergere del potere politico.

Cruise / Irving risulta credibile nel sostenere le sue argomentazioni, addirittura quando chiede scusa per gli errori compiuti in passato dal governo, illustrando alla giornalista la nuova strategia per la guerra in corso, ispirata a quanto fece l’Impero Romano nella sua opera di conquista: occupare le alture nel territorio nemico con piccole unità specializzate.

Ma l’impero romano è lontano nel tempo e l’Afghanistan non è la Gallia dei tempi di Giulio Cesare…

Che Irving rappresenti il solito politico moralmente corrotto e interessato solo alla carriera non appare in maniera diretta, ma traspare quasi, come una sensazione, qualcosa che fa nascere il sospetto nella giornalista.

Difatti, la frase che il senatore dice al termine dell’intervista, cioè che non ha alcuna intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali, in una delle scene iniziali del film viene indicata dagli studenti proprio come la frase più tipica del politico bugiardo e corrotto… Jasper Irving è la personificazione degli agnelli, pavidi e inetti, nelle cui mani sono le redini della nazione.

La terza scena riguarda Robert Redford, che interpreta il Professor Sthepen Malley, contrapposto nel dialogo al giovane studente di talento, Todd Hayes, interpretato da Andrew Garfield.

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Il professor Stephen Malley (Robert Redford) e lo studente Todd Hayes (Andrew Garfield).

Il professor Malley era stato l’insegnante all’università di Ernest Rodriguez e Arian Finch, i due volontari partiti per l’Afghanistan, e aveva sempre cercato di infondere nei due ragazzi l’importanza dell’impegno sociale, cercando di orientare il loro entusiasmo.

Durante una esercitazione in facoltà, i due ragazzi presentano un progetto, un sistema di volontariato sociale.

Davanti alle critiche superficiali e allo scetticismo di buona parte dei compagni, i due ragazzi dimostrano drammaticamente quanto credano veramente nella necessità di dover fare qualcosa per il loro Paese, mostrando a tutti le loro domande di arruolamento.

Malley resta profondamente sconvolto: non era quello che avrebbe voluto insegnargli.

Avrebbe voluto trasmettere loro lo spirito dell’impegno, del senso della società, rappresentato dalla famosa frase del presidente John Fitzgerald Kennedy “non pensate a cosa può fare il paese per voi, ma cosa potete fare voi per il Paese”.

Ma i due ragazzi lo travisano, conquistati dal loro stesso entusiasmo, dimentichi di quello che nel film Redford indica proprio come il grande assente nella società americana di oggi (e non solo): il senso critico necessario a interpretare la realtà.

Il professor Malley vede nel giovane e svogliato allievo Todd Hayes l’occasione per non ripetere gli errori, per evitare che un’altra intelligenza vivida venga sprecata, questa volta non sui campi di battaglia, ma sull’altare dell’egoismo e del disimpegno.

Hayes è scettico, vorrebbe lasciare l’università per seguire le sirene delle opportuinità di carriera immediata.

Il dialogo coll’anziano Professore talvolta è teso e pieno di cinismo, come quando Hayes accusa Malley in fondo di essere responsabile dell’arruolamento dei due ex compagni di facoltà, anzi che fosse stato uno dei suoi fini sin dall’inizio.

Lo scontro fra Malley e Hayes rappresenta la lotta contro il torpore che attraversa la società, la tendenza al disinteresse per la cosa pubblica, al delegare al potere politico la gestione del Paese, senza rivendicare il fondamentale diritto di conoscere e di giudicare quanto viene fatto in nome della democrazia.

Il film si conclude con Todd Hayes che ritorna al campus e davanti alla tv parla con un compagno di quel che è successo nel colloquio con Malley.

Dovrà decidere se tornare a lezione il martedì successivo oppure lasciare gli studi per la carriera.

 

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Lo studente Todd Hayes (Andrew Garfield) nella scena finale.

 

Durante il dialogo, notizie di gossip prive di importanza, sport e finanzia, che si susseguono a quelle provenienti dalle zone di guerra, che annunciano la morte in combattimento di altri militari americani, tra cui i due studenti Ernest Rodriguez e Arian Finch.

Come nella situazione che aveva ispirato lo sceneggiatore, Todd Hayes incomincia a pensare alle parole del professore, mentre ascolta la marea di inutili sciocchezze che anestetizzano il cervello del pubblico.

Nella scena finale, il compagno chiede a Todd cosa vuol fare del suo futuro, mentre la camera stringe in primo piano sul suo volto.

A questo punto si apre una quarta scena virtuale, in cui il protagonista è ogni spettatore.

La domanda, in fondo, è rivolta a ciascuno di noi, perché valida ancora oggi: cosa intendiamo farne del nostro futuro?

di Davide Migliore

 

Linkografia

https://it.wikipedia.org/wiki/Leoni_per_agnelli

http://www.filmtv.it/film/37407/leoni-per-agnelli/

http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=interview&id=7496

http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=film&id=7165

http://filmup.leonardo.it/lionsforlambs.htm

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

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La guerra dei droni: un affare da 130 miliardi di dollari

Pubblicato il 20 novembre 2013 by redazione

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Piloti da terra, si preparano a guidare in remoto il caccia X-47B.

Su wikipedia si legge che un Drone è un aeromobile a pilotaggio remoto o APR Il suo volo è, quindi, controllato dal computer a bordo del velivolo, sotto il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo.

Il loro utilizzo è molto diffuso in tutti i casi in cui tali sistemi possono consentire l’esecuzione di missioni “noiose, sporche e pericolose” (dull, dirty and dangerous) spesso con costi minori rispetto ai velivoli tradizionali.

Noiose, sporche e pericolose, dunque una vera manna dal cielo …

La velocità di diffusione di questi velivoli negli ultimi tempi ha visto schizzare le ordinazioni delle industrie militari, al punto che in alcune aziende si lavora giorno e notte per soddisfare le richieste. Un vero boom economico per il mercato aeromobile, civile e militare, soprattutto americano, cinese e israeliano. Ma la vera novità non è la nascita di un nuovo businnes, quanto piuttosto le implicazioni che un velivolo di questo tipo innescano.

X-47B è un drone americano, costruito per poter decollare e atterrare direttamente su una portaerei, quindi senza alcun vincolo di atterraggio o decollo subordinati alle autorizzazioni di altri Paesi per l’eventuale uso delle loro basi.

Questo drone è un aeromobile grande come un caccia, che viaggia senza pilota e, che grazie all’uso delle portaerei potrà dirigersi ovunque nel mondo, incrementando di molto il suo potenziale spazio aereo, oltre alle aumentate possibilità operative militari, soprattutto negli attacchi missilistici contro obiettivi terroristici in Iraq, Afghanistan, Pakistan e Yemen. Lo stesso ammiraglio Ted Branch, a capo delle forze navali nell’Atlantico, subito dopo il primo decollo di prova, dalle coste della Virginia, ha esclamato “Oggi è una giornata storica”.

L’unico vero problema è che un drone di questo tipo, al momento di un raid militare, anche se supportato da un pilota remoto, potrebbe mietere numerose vittime tra i civili, come è già stato ormai ribadito da più parti nel mondo e negli stessi Stati Uniti.

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Le industrie americane premono per facilitare l’esportazione di droni oltremare.

Le industrie americane costruttrici di guerra cercano, come è ovvio, di influenzare se possibile le scelte politiche del proprio Paese, contribuendo con fiumi di dollari alle diverse campagne elettorali.

Alcuni diplomatici hanno rivelato a WikiLeaks che ci sono regimi, come quelli degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, che hanno già chiesto di poter acquistare droni armati da fornitori americani, anche se finora pare non ci siano riusciti.

In realtà sia la General Atomics sia la Northrop Grumman e altre aziende costruttrici starebbero spingendo le lobby del Congresso a facilitare le attuali restrizioni che regolano l’esportazione di droni.

Attualmente, infatti, le leggi sono molto rigide e servono ad evitare che i droni venduti ad altri Paesi vengano poi utilizzati contro gli interessi americani, come ad esempio dall’Iran.

Queste nuove tecnologie belliche, in effetti, stanno già cambiando il modo di fare la guerra. Chi le possiede, grazie a loro, potrà risparmiare denaro, capitale umano, pattugliare meglio i confini dei propri territori e avere più garanzie di successo nelle azioni militari.

Nessuna meraviglia, quindi che i costruttori di droni militari premano per riuscire a facilitare le vendite oltremare, soprattutto se all’orizzonte intravedono un giro d’affari mondiale, che dagli attuali 7 miliardi di dollari è destinato a crescere entro il 2021 fino 130 miliardi di dollari.

Va sottolineato, infatti, che mentre il prezzo di un caccia F35 si aggira sui 130 milioni di euro, il prezzo di un drone militare oscilla al massimo fra 3,7 e 10 milioni di euro, in particolare per i Reaper di ultima generazione.
Va anche ricordato che negli Stati Uniti, solo negli ultimi 10 anni, il Pentagono è passato da un impiego di droni iniziale di poche decine di unità a un flotta di 7 mila Uav (Unmanned aerial vehicle). Senza contare tutto il mercato indotto delle semplici manutenzioni.

L’Unione Europea pensa a droni Made in Europe: nasce un nuovo consorzio a sostegno del progetto Dassault.

Entro il 2016 Bruxelles dovrebbe aprire lo spazio aereo civile ai droni e la stessa Frontex, l’agenzia militare che controlla i confini europei, sta pensando di impiegare molto presto i velivoli a controllo remoto.

In un documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea, l’UE invita le imprese a investire in questo nuovo mercato che promette miliardi di euro e molteplici applicazioni, non solo in ambito militare, ma anche civile, come ad esempio per il monitoraggio degli eventi di massa, delle calamità naturali o più semplicemente per la supervisione degli spostamenti di migranti in mare in direzione di Lampedusa.

Cassidian, del gruppo franco-tedesco-spagnolo Eads, la francese Dassault Aviation e l’italiana Alenia Aermacchi (Finmeccanica), hanno lanciato un’iniziativa congiunta, con cui chiedono ai rispettivi Paesi di partire nella produzione di un drone di sorveglianza (eventualmente armato) di classe MALE (Medium-Altitude Long-Endurance). Nella lettera comune si legge «Un programma europeo sarebbe in grado di rispondere ai nuovi requisiti delle forze armate e di ottimizzare nel contempo la difficile situazione dei budget della difesa». Assente in questa iniziativa, l’importante colosso inglesi Bae Systems.

In ogni caso l’Europa intende seriamente recuperare un gap di quasi 10 anni di ritardo sulle industrie americane e israeliane. Si tratta in parte di una scelta scontata, perché per poter armare questi nuovi velivoli occorre sempre richiedere l’autorizzazione ai loro produttori statunitensi. E’ già successo all’Italia, che dopo aver acquistato due Reaper americani, che intendeva usare in Afghanistan, attende da più di due anni l’autorizzazione Usa per poterli armare. Anche la Germania ha dovuto abbandonare il programma Euro Hawk perché si è accorta che per armare i vecchi Global Hawk americani e poterli usare in Europa, avrebbe dovuto spendere un sacco di soldi aggiuntivi a quelli già investiti per acquistarli. La Francia, infine, dopo aver comperato alcuni droni, sempre di fabbricazione statunitense, da impiegare in Mali, si è resa conto di poterli usare solo in condizioni di libertà operatività ridotta.

Guardare, perciò, a una produzione di droni europei non è poi così fuori luogo. L’argomento potrebbe già essere discusso questo dicembre, tra i temi dell’ultimo Consiglio Europeo del 2013.

Anche l’Italia si lancia nella progettazione e fabbricazione di droni.

Dopo la Gran Bretagna, l’Italia è stato il primo Paese europeo ad attrezzarsi con droni americani, non armati, a scopo ricognitivo e d’intelligence.

Questa nuova tecnologia, già testata nella guerra in Iraq, ha posto il nostro Paese al primo posto in Europa per competenza e capacità di impiego e anche per lo sviluppo di nuovi velivoli a controllo remoto.

Sono già molte le giovani aziende italiane, specializzate in robotica, che si sono attivate per progettare droni terrestri, aerei e marini, capeggiate dalle big company europee per la Difesa, tra cui Alenia Aermacchi.

L’Italia, quest’anno con Piaggio Aero Industries ha presentato il nuovo aereo Uav P.1HH Hammerhead, sempre per le missioni di sorveglianza, intelligence e ricognizione. Si sta progettando anche il drone killer Male – Medium Altitude Long Endurance – per bombardamenti a lunga gittata. Il progetto, ancora molto riservato, sembra essere già stato avviato da Finmeccanica.

Sigonella

L’Italia è candidata a diventare tra i più grandi Hub mondiali di droni.

Entro il 2017, faranno il loro ingresso, nel “parco macchine” Nato di Sigonella, i primi cinque droni dei 20 previsti, per potenziare il piano Nato Smart Defence (difesa satellitare intelligente), per un investimento di diverse centinaia di milioni di dollari.

Sigonella si prepara così a diventare un grande hub mondiale per i droni.
Da qui Eurosur dell’Ue, proteggerà le frontiere europee, anche usando le moderne tecnologie Uav.
Tra la Puglia, la Sardegna, le basi di Sigonella e Trapani in Sicilia e l’isola di Pantelleria, il nostro ministero della Difesa ha anche creato speciali «corridoi di volo» per gestire al meglio la zona del Mediterraneo.

Dal 18 Ottobre, anche nel Canale di Sicilia, gli UAV sono già al lavoro e affiancano la nave anfibia San Marco, sorvegliando le rotte dei migranti, e la Frontex, deputata a gestire le frontiere esterne dell’UE.

Al momento il parco droni italiani include 6 Reaper (falciatori) e 6 Predator, assegnati al 32esimo stormo della Base di Amendola in Puglia. I 12 aerei teleguidati sono stati acquistati fra il 2001 e il 2008, per un importo complessivo di circa 380 milioni di dollari.

Mentre i Predator sono destinati a operazioni di pattugliamento dei territori, attraverso lo scatto di immagini fotografiche, i Reaper sono in grado anche di sganciare ordigni. Considerando che in Afghanistan ci sono circa 4 mila nostri uomini, oltre a mezzi aerei e terrestri da proteggere, i 6 Predator servono appunto per le ricognizioni e d’appoggio ai militari.

I droni d’attacco Reaper, sono invece impiegati dagli americani nei raid anti-qaedisti in Pakistan e Yemen – dove avrebbero intercettato jihadisti e sventato attacchi terroristici. In occasione della campagna Nato in Libia, del 2011, i Predator italiani sono partiti per aiutare gli analisti americani a identificare i targhet sensibili.

All’inizio di quest’anno, infine, l’Italia ha fornito il supporto logistico ai francesi per il loro intervento in Mali, contribuendo, poi, con i propri droni a rifornimenti e osservazione in volo.

Disposition Matrix e la guerra dei droni.

Da un’inchiesta del Washington Post del 2012, sembra che gli Stati Uniti abbiano creato un sistema, il disposition matrix, che in ogni angolo del mondo individua, cattura e uccide le persone sospettate di terrorismo, attraverso l’impiego anche di droni. Secondo il documento del Washington Post, si calcola che a partire da un primo drone usato per uccidere alcuni presunti membri di Al-Qaeda nello Yemen, le vittime degli ultimi 10 anni siano già più di 3000.

Da un punto di vista strettamente giuridico non esiste una legge specifica per casi come questi, salvo l’autorizzazione del Congresso, successiva ai fatti dell’11 settembre 2001, che consente l’uso della forza militare per fini antiterroristici e più in generale il diritto all’autodifesa. Così è lo stesso Presidente Obama, che sotto la sua personale responsabilità, esamina la lista dei presunti terroristi e ne autorizza l’attacco.

Giuristi di varie parti del mondo non ritengono sia legittimo autorizzare l’attacco a individui di identità ignota, le famose signature strikes, semplicemente sulla base di alcune attività, che siano assimilabili a 14 casi di riferimento specificati dal programma e analizzati da Kevin J. Heller dell’Universitá di Melbourne. Tra le attività indicate vi sono per esempio quelle di: pianificare un attacco; trasportare armi; maneggiare esplosivi; essere in un compound o in un campo di addestramento di Al-Qaeda, essere un uomo ‘in età militare’ in territori in cui sono in corso attività terroristiche, essere in compagnia di militari o muoversi armati nelle zone controllate da Al-Quaeda.

Secondo uno studio pubblicato dall’Università di Staford, il diritto internazionale umanitario (quello applicato in tempo di guerra) che permette l’uso intenzionale di forze letali, unicamente se assolutamente necessario e in proporzione alla situazione, non concorda con questi “omicidi intenzionali e premeditati”.

Anche nello Special Rapporteur dell’Onu, sulle esecuzioni extragiudiziali, si legge: “In base al diritto dei diritti umani, un omicidio mirato, nel senso di un omicidio intenzionale, premeditato e deliberato, eseguito da forze di polizia non può mai essere legale perché, a differenza che in un conflitto armato, non è mai permesso che il solo obiettivo dell’operazione sia l’uccisione”.

La questione è stata, recentemente, di nuovo sollevata alle Nazioni Unite dalla Francia, attraverso un’interpellanza scritta in cui si chiede di aprire un formale dibattito. Jean-Hugues Simon-Michel, durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra, ha sottolineato la questione dell’arbitrio degli uomini nel decidere se utilizzare la forza letale. Anche il rappresentante egiziano si è mostrato preoccupato e ha fatto un’altra interpellanza scritta per la messa al bando a priori di questo tipo di armi.

Amnesty International a Human Rights Watch, hanno già dato il via a una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale,  la Campagna “Stop Killer Robots”.

Nel sito della campagna si legge: “Diverse nazioni con eserciti hi-tech, tra cui Cina, Israele, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti si stanno muovendo verso sistemi che danno sempre più autonomia alle macchine nei combattimenti. Se uno o più di loro decidesse di impiegare armi pienamente autonome, un passo ancora più in là rispetto ai droni armati e controllati da remoto, altri potrebbero sentirsi obbligati ad abbandonare le loro politiche restrittive in materia, e tutto ciò porterebbe a una corsa alle armi robotiche. Per cui è necessario ora un accordo per stabilire dei controlli prima che gli investimenti, la spinta tecnologica e nuove dottrine militari rendano difficile cambiare il corso delle cose”.

Nel documento Will I be next? US drone strikes in Pakistan, “Sarò io il prossimo? Gli attacchi con i droni USA in Pakistan”, preparato da Amnesty International negli ultimi mesi, sugli omicidi eseguiti dagli Stati Uniti attraverso i droni nel nord-ovest del Pakistan, Amnesty accusa gli americani di assassinio di civili, terrore, mancata trasparenza e crimini contro l’umanità.

Di recente il segretario di Stato John Kerry ha reso noto che gli attacchi negli ultimi tempi sono diminuiti e che la Casa Bianca starebbe anche pensando di chiudere il programma.

Il terzo millennio sarà quello della guerra dei droni

Secondo un rapporto del Governo di Washington i paesi dotati di droni sono 76. Più di 50 Paesi stanno progettando e costruendo almeno un centinaio di tipi di droni. Di tutti questi Paesi, però, solo Israele, Gran Bretagna e Stati Uniti utilizzano droni armati. I modelli più noti sono i Reaper e i Predator.

Americani e israeliani sono anche i più grandi esportatori di droni. Tra il 2005 e il 2010 gli americani hanno autorizzato il trasferimento di tecnologia a quindici Paesi alleati, tra cui anche Italia, Danimarca, Lituania, Australia, Colombia e Singapore. A maggio del 2012 sul Wall Street Journal si leggeva che gli USA avevano accettato di armare i droni dell’aeronautica militare italiana, ma a Roma l’autorizzazione del Congresso non è ancora arrivata.

Il mercato israeliano delle Elbit Systems e della Israel Aerospace Industries, promuove l’80% delle sue esportazioni verso Gran Bretagna, Asia, America Latina (Colombia, Ecuador, Brasile, Cile, Perù, Venezuela) e recentemente anche India.

Gli americani di General Atomics, invece, con l’autorizzazione governativa firmata, hanno già concluso un accordo con gli Emirati Arabi Uniti per una fornitura non armata di Predator, per un totale di circa 200 milioni di dollari. L’Arabia Saudita ha poi chiesto al Governo di Washington, di poter acquistare droni armati, ma naturalmente la risposta è stata negativa.

Resta l’esercito britannico, la Royal Air Force, con al suo attivo 500 droni, ma l’obiettivo di avere, entro il 2030, un terzo della flotta aerea completamente comandata a distanza. Per questo progetto è anche già stato stabilito il punto di raccolta nella città di Waddington, nel Lincolnshire.

E arriviamo infine alla Cina. Pechino in ritardo, come tutti, rispetto a Stati Uniti e Israele, sta sviluppando i suoi droni, molto simili ai Reaper americani, e che intende utilizzare per sorvegliare i confini con Giappone, India, Vietnam e Filippine e le zone del Pacifico di influenza americana.

A una certa distanza sembra lo scacchiere di un banale Risiko. Di certo l”economia americana ha trovato una via per un suo nuovo e redditizio sviluppo economico, ma anche un modo per mantenere attivo e onnipresente il suo ruolo e la sua supremazia militare nel mondo.

La Guerra dei Mondi, racconta da Herbert George Wells sembra proprio dispiegarsi sopra le nostre teste.

di Adriana Paolini

Linkografia:

– Articolo apparso su Daily Mail “Killer Robot”:

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2324571/U-S-Navys-X-47B-stealth-drone-launches-aircraft-carrier-time–critics-warn-heralds-rise-killer-robots.html

– Articolo apparso su The New American:

http://thenewamerican.com/

– Documento redatto a Settembre del 2012, dalla Commissione europea:

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CDEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fdronewarsuk.files.wordpress.com%2F2012%2F09%2Fec-swd_civilrpas.pdf&ei=a0mJUuj6M4i47Qam9oCYBA&usg=AFQjCNGGv-ftxKARiYjA_6cMyHsJPwgONg&sig2=2s0cfLiU947rIZ39FJBMuw&bvm=bv.56643336,d.bGE&cad=rja

Piano Nato Smart Defence:

http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_84268.htm?

http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_87594.htm

– Inchiesta Washington Post:

http://www.washingtonpost.com/world/national-security/plan-for-hunting-terrorists-signals-us-intends-to-keep-adding-names-to-kill-lists/2012/10/23/4789b2ae-18b3-11e2-a55c-39408fbe6a4b_story.html

– Kevin J. Heller:

https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2169089

– Studio dell’Università di Stanford:

http://blogs.law.stanford.edu/newsfeed/2012/09/25/living-under-drones%E2%80%9D-new-report-issued-by-the-international-human-rights-and-conflict-resolution-clinic/

– Special Rapporteur dell’Onu:

http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/69633D6116C53C898525773D004E8C13

Interpellanza della Francia durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_France.pdf

– Interpellanza del rappresentante egiziano durante la Conferenza del Disarmo a Ginevra:

http://www.reachingcriticalwill.org/images/documents/Disarmament-fora/1com/1com13/statements/8Oct_Egypt.pdf

– Campagna “Stop Killer Robots”:

http://www.stopkillerrobots.org/

http://www.unog.ch/80256EE600585943/%28httpPages%29/4F0DEF093B4860B4C1257180004B1B30?OpenDocument

 

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La lunga lista degli orrori militari degli anni ’70….

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La lunga lista degli orrori militari degli anni ’70….

Pubblicato il 27 maggio 2012 by redazione

Nella nostra drammatica carrellata sugli incidenti nucleari che hanno coinvolto mezzi ed equipaggiamenti militari siamo arrivati agli anni ’70 : in realtà proprio gli incidenti che sono accaduti nei tempi relativamente più recenti, fino ad oggi si può dire, sono i più controversi, perché sono spesso ancora coperti da segreti militari e da ragioni di stato, perché il tempo non ha ancora fatto il suo lavoro, creando delle crepe nel muro di gomma  alzato attorno a queste vere e proprie catastrofi, mancate o avvenute che siano. Questo rende difficile avere fonti univoche ed attendibili su come si siano svolti i fatti e di quali costi il pianeta e l’umanità stiano subendo ancora le conseguenze. Talvolta la reticenza ad ammettere errori o fatalità da parte degli apparati governativi trova il suo motivo proprio dall’attenzione  delle opinioni pubbliche internazionali , che negli anni 70 con la nascita dei movimenti ecologisti, hanno dato nuova coscienza alle idee pacifiste e tenuto viva l’attenzione delle persone. Fino ai giorni nostri, quando la fine dei blocchi politico-economici della guerra fredda ha aumentato l’incertezza internazionale, ma sta anche alimentando una nuova e paradossale corsa agli armamenti nucleari, da parte di molti stati, spesso instabili politicamente e socialmente, con situazioni di tensioni croniche con altri stati vicini, nella quasi impotenza della comunità  e delle istituzioni internazionali. Una potenziale anarchia nucleare che dovrebbe far rizzare i capelli a tutti…

Intanto mettetevi comodi, prendetevi qualcosa da bere, inizia la lunga lista degli orrori degli anni 70….

1970

11 aprile. Al largo delle coste spagnole, nel golfo di Biscaglia, il sottomarino K8, classe di costruzione November nel codice NATO, sta rientrando dalle grandi manovre dell’esercitazione “Okean” in pieno oceano Atlantico. Per cause del tutto non chiarite (probabilmente corto circuiti nei quadri elettrici) l’8 aprile, mentre il sottomarino era in immersione a 120 metri, si svilupparono due incendi contemporaneamente nel terzo e nell’ottavo compartimento. Il fuoco, nonostante i tentativi disperati dell’equipaggio, si estese ed il sottomarino dovette emergere, anche perché il fumo e le fiamme si stanno espandendo attraverso l’impianto di areazione. I due reattori VM-A da 70 Megawatt vennero  spenti in quanto l’equipaggio non riuscì a mantenere sufficiente energia elettrica per controllarli, mentre i generatori ausiliari a nafta non partirono mai… Alla deriva e con l’incendio mai del tutto sotto controllo, il K8 attende l’arrivo di un battello della flotta russa per essere rimorchiato verso le proprie basi. Raggiunti da un rimorchiatore della flotta baltica, l’equipaggio si trasferì su di esso. Ma per un’errata valutazione della situazione, il comandante Vsevolod Borisovich Bessanov  assieme ad una parte dell’equipaggio ritornò sul sottomarino, per cercare di mantenerne il controllo con il mare in tempesta. Al termine della lunga agonia, alle 6,20 circa dell’11 aprile  a causa danni subiti, il sottomarino affondò improvvisamente, trascinando con se  52 uomini  sul fondale a 4.680 metri di profondità. Altri 73 si salvano. Oltre ai due reattori  il sottomarino si è portato dietro 24 missili balistici e 4 siluri nucleari… Dieci anni prima, lo stesso battello era stato vittima di uno dei primi incidenti di controllo dei reattori nucleari di propulsione, una lunga serie mieterà moltissime vittime e spargerà sofferenze atroci tra i marinai sovietici. L’incidente è stato tenuto segreto fino al 1991.

Giugno. I sottomarini nucleari USS Tautog, (della classe Sturgeon) e quello lanciamissili K 108 (classe Echo II) entrano in collisione, presumibilmente durante manovre subacquee di inseguimento reciproco. Entrambi i battelli, per quanto gravemente danneggiati, riusciranno a rientrare ai porti di partenza.

29 novembre. Mentre si trova nella base navale della Royal Navy britannica di Holy Loch in Scozia, la nave appoggio per sottomarini USS Canopus va in fiamme. Nella santabarbara sono stivate un numero non certo di siluri a testata nucleare e almeno due sottomarini nucleari statunitensi della flotta atlantica sono ormeggiati alle sue fiancate. Per quattro ore gli uomini combattono le fiamme col costante pericolo che vengano investite le stive corazzate in cui sono le testate. Tre uomini degli equipaggi perdono la vita. Ci spostiamo ora sul territorio degli Stati Uniti, più precisamente in quell’area definita Nevada Test Site (nell’omonimo stato americano) il cui territorio è stato piagato da centinaia di esplosioni nucleari sperimentali esterne e sotterranee.

18 dicembre. Nell’area n. 8 dello Yucca Flat, che un tempo era il fondale di un antico bacino marino, ci si prepara al “test Baenberry”, parte di una serie di 12 esplosioni nucleari chiamate Operation Emery. La carica installata in un pozzo sotterraneo scavato nella roccia di per sé è la meno potente della serie (10 kilotoni) ma qualcosa nella preparazione sfugge al controllo. Una serie di crepe non rilevate fanno si che la roccia non si fonde immediatamente al momento dell’esplosione, ma parte della palla di fuoco forza il condotto e sfugge all’esterno provocando una nube radioattiva alta parecchi chilometri, che depositerà radionuclidi ben lontano da questa remota area desertica. 

Yuka Flat

La nube radioattiva si eleva sull’area 8 dello Yucca Flat in Nevada il 18 dicembre 1970, in seguito a crepe nel suolo che impediscono di contenere nella camera sotterranea la forza dell’esperimento nucleare militare “Baenberry”. La rivista Times accusò il governo statunitense di minimizzare gli effetti del fallout radioattivo e le sue conseguenze a lungo termine potenzialmente su milioni di persone.

Le prime vittime sono 86 addetti al sito  investiti dalla polvere radioattiva, per quanto le autorità assicurarono che i tecnici civili e militari erano stati esposti a quantitativi di radiazioni ben inferiori a livelli pericolosi per la salute….pietosa bugia se contiamo che concentrazioni di elementi pericolosi e quantità di energia notevoli furono riscontrati in seguito nella neve su alcune catene montuose nel nord della California, nelle pianure dell’Idaho, dell’Oregon fino allo stato di Washington. La rivista Time condusse un’inchiesta indipendente sull’incidente (che ricorda molto quello di Ecker nell’Algeria francese) e accusò apertamente le autorità di aver nascosto un disastro i cui effetti a lungo termine sulla salute della popolazione statunitense non era per nulla prevedibile.

Negli anni ’70 venne raggiunto dalle potenze atomiche il massimo dispiegamento di forze nucleari sottomarine, su battelli a propulsione nucleare, e di missili balistici, vettori considerati i più efficienti (e letali) perché maggiormente al riparo dagli sviluppi delle capacità di sorveglianza ottica ed elettronica dell’avversario. E di conseguenza, andarono aumentando  in maniera esponenziale i rischi di incappare i incidenti potenzialmente gravi. Già abbiamo detto che è impossibile dotare di sistemi di sicurezza gli impianti di propulsione nucleare, specialmente sui sottomarini ma anche su di una portaerei non è poi così diverso, semplicemente perché  rispetto ad una centrale per la produzione di energia, su un battello navigante non ci sono spazi sufficienti….. ed infatti sicuramente molti  incidenti sono successi, di cui spesso per segreto militare, non è stata data notizia ufficialmente, trapelati poi per indiscrezioni di persone coinvolte o per la tenacia di giornalisti ed attivisti che tengono alta l’attenzione sul pericolo. Anche la Francia, entrata nel club delle nazioni con armamento atomico, entra parimenti in quello delle nazioni le cui forze armate soffrono anche incidenti.

1971

2 febbraio. Il sottomarino a propulsione nucleare della Marine Nationale francese Redoutable entrò in collisione con un peschereccio a largo della costa di Brest. L’equipaggio del peschereccio viene tratto in salvo da una nave scorta, mentre il sottomarino rientra in porto coi propri mezzi.

12 dicembre. A New London, nel Connecticut, il sottomarino d’attacco USS Dace, mentre sta trasferendo sulla nave appoggio USS Fulton parte del liquido dei circuiti di raffreddamento del suo reattore S5W, subisce una perdita violenta che disperde ben 1900 litri di acqua fortemente contaminata nell’estuario del fiume Thames, prima che si riesca a porvi rimedio…

1972

24 febbraio. Un pattugliatore P3C Orion della US Navy individua a circa 600 miglia da Terranova un sottomarino nucleare lanciamissili sovietico della classe Hotel II, il K19 si saprà in seguito, già protagonista di un gravissimo incidente nel 1961 (vedi articoli precedenti, ndr), mentre va alla deriva, apparentemente per un’avaria al sistema di propulsione nucleare dopo un incendio. L’incidente si valuta abbia provocato circa 28 vittime nell’equipaggio e una contaminazione dello stesso e del battello. La nave, dopo una lunga e penosa navigazione, assistita da altri 5 vascelli della flotta Russa, raggiunse la propria base nel mare di Barents solo il 5 aprile.

12 aprile. il sottomarino nucleare USS Benjamin Franklin in manovra sperona e affonda una chiatta a Groton nel Connecticut. Il sottomarino fortunatamente non risulta aver riportato danni.

Dicembre. (il giorno esatto non è stato mai indicato) Nell’impianto di produzione di Plutonio per uso militare di Pawling, nello stato di New York, un incendio e due esplosioni violente liberano in atmosfera e nel sottosuolo forti dosi di radionuclidi e gas nobili. L’incidente è talmente grave che l’impianto viene chiuso e sigillato. Alla fine di dicembre, secondo un rapporto della CIA, un sottomarino lanciamissili nucleare russo avrebbe subito un guasto grave al reattore durante la navigazione nel nord Atlantico. Altre unità di superficie sovietiche affiancarono e trainarono l’unità in avaria fino al porto di partenza di Severomorsk, nella penisola di Kola, dove giunse solo nel febbraio 1973. La cosa più agghiacciante di questo incidente, che pare abbia portato quasi alla fusione del nucleo del reattore, è che una parte dell’equipaggio è rimasta intrappolata nel comparto motori, dopo la chiusura dei compartimenti secondo le procedure di emergenza, una volta iniziata la fuga radioattiva. Nutriti prima con razioni di emergenza presenti nella sezione, questi uomini furono poi riforniti di acqua e cibo attraverso un portello sul ponte del sottomarino. Solo una volta arrivati in porto poterono essere liberati. Per tutto quel tempo  furono costretti a vivere in ambiente contaminato e morirono nei mesi successivi al rientro alla base, mentre tutto il resto dell’equipaggio pare abbia sofferto i sintomi dell’avvelenamento.

1973

27 marzo. L’USS Greenling, sottomarino da attacco della classe Tresher/Permit, durante una esercitazione di immersione profonda scende oltre la quota massima sopportabile a causa di un difetto dell’indicatore. La differenza notevole con le indicazioni di un secondo strumento mise in allarme l’equipaggio e il sottomarino interruppe la discesa poco prima di raggiungere il limite oltre il quale lo scafo sarebbe stato certamente schiacciato dalla pressione.  Una volta tornato alla base il sottomarino venne inviato in cantiere per ispezioni sullo scafo e sulla strumentazione: per una lancetta dell’indicatore che si stava bloccando 99 uomini hanno rischiato la vita e il pianeta l’ennesima catastrofe nucleare. E l’avvelenamento non è il solo rischio per l’ambiente e le sue creature: lo stesso giorno, un altra unità nucleare d’attacco della marina statunitense, l’USS Hammerhead, mentre naviga in immersione entra in collisione con un ostacolo sulla sua rotta, probabilmente una balena. L’impatto è violentissimo e il sottomarino riemerge in emergenza per rientrare in porto e controllare i danni eventuali. Il destino del povero ed ignaro animale invece è quasi certo…

aprile Torniamo in Europa, nella base scozzese di Coulport: un mezzo della Scottish Electricity Board si rovescia su un carrello che trasporta testate nucleari dei missili Polaris, che equipaggiano anche i sottomarini di Sua Maestà britannica, oltre che della flotta statunitense. I “pits” corazzati delle testate fanno il loro lavoro e non c’è contaminazione, ma l’incidente ha dell’incredibile e non si conosce altro sulla sua dinamica.

13 aprile è la NASA suo malgrado a rendersi protagonista, quando il modulo di comando della missione Apollo 13 ammara nell’Oceano pacifico alla fine di una delle più sfortunate missioni spaziale. Per un difetto  nei termostati che regolavano la temperatura dell’ossigeno, un impianto elettrico aveva fatto esplodere un serbatoio del prezioso gas ed i tre astronauti, assistiti da terra minuto per minuto, dovettero riparare con mezzi di fortuna la navicella e rientrare sulla terra quasi senza energia elettrica e privi del computer di navigazione, rischiando di rimanere per sempre dispersi nello spazio o di bruciare al rientro nell’atmosfera. La vicenda fu anche protagonista di un film di successo nel 1995. Dopo che l’operazione si concluse felicemente col salvataggio degli astronauti, qualcuno fece notare che la missione era la numero 13 e il modulo di comando era stato battezzato Odissey, per chi crede nella superstizione ce n’è di che pensare…Quella fu l’ultima missione di esplorazione lunare, ma tornando al modulo di comando, la flebile energia  che mantenne vivi i circuiti del modulo spaziale nel rientro fortunoso era stata assicurata da un piccolo reattore al Plutonio, il quale risultò disperso nell’ammaraggio. Ancora oggi, quarant’anni dopo, si ignora assolutamente dove possa essere finito il pit con il reattore…. I

21 aprile Il sottomarino nucleare USS Guardfish, mentre è in immersione a 370 miglia nautiche dal Puget Sound subì una perdita nel sistema di raffreddamento primario del reattore, che entrò in fase critica emanando calore e radiazioni in tutto il battello. L’unità emerse in emergenza operando tutte le procedure di decontaminazione, ma 5 uomini dell’equipaggio, gravemente irradiati, dovettero essere ricoverati d’urgenza.

21 maggio. L’USS Sturgeon impatta il fondale marino (probabile un altro malfunzionamento del profondimetro) a largo delle Isole Vergini, rientrando d’urgenza con lo scafo danneggiato.

6 giugno. L’USS Skipjack (altro sottomarino nucleare d’attacco della US Navy) colpisce una montagna sottomarina non segnalata sulle carte di navigazione, durante l’esercitazione “Dawn patrol” nel Mediterraneo. Il battello raggiunge il porto di Soudha Bay a Creta per controllare eventuali danni al sistema di raffreddamento del reattore nucleare.

13 giugno. Il K56, sottomarino nucleare russo armato di missili atomici da crociera, entra in collisione probabilmente con un altro battello durante prove in mare, 26 tra marinai e civili rimangono uccisi. Ufficialmente per decenni  le autorità russe hanno sostenuto che si trattò di un guasto al reattore, sottolineando il valore dell’equipaggio nell’evitare un danno maggiore, ma secondo l’intelligence occidentale non è il motivo reale dell’incidente….

1974

Si apre con un braccio di ferro fra il  Giappone e gli Stati Uniti. Il Governo di Tokyo non ammette più la presenza sul proprio territorio dei sottomarini nucleari da attacco della US Navy in quanto fonte di perdite di liquidi e materiali radioattivi, accusando apertamente le autorità militari di aver fornito dati falsificati, di avere mentito sul luogo e le date di prelievo dei campioni. Anche il mezzo aereo, nonostante i tragici avvenimenti degli anni 50 e 60 abbiano fatto crescere in maniera esponenziale l’attenzione sulla sicurezza, non riesce ancora a rimanere del tutto al sicuro dai rischi .

14 febbraio. Sulla Pittsburgh Air Force Base, un nuovissimo cacciabombardiere FB 111 in forza allo Strategic Air Command subisce un cedimento al carrello anteriore durante un decollo in esercitazione. Ai piloni alari sono agganciati due missili aria-terra e due bombe a caduta balistica, tutte con testate nucleari che potevano causare un inquinamento letale di tutta l’area se coinvolte in un incidente. Le autorità militari hanno affermato che l’incidente non ha minimamente interessato l’armamento e gli ordigni non erano attivi in quanto privi di innesco.

Sempre in febbraio. A largo di Malta, su una nave della 6 Flotta americana due siluri Mk 44 cadono dalle rastrelliere mentre vengono spostati nella santabarbara e colpiscono un ordigno termonucleare WE177, per fortuna causando solo abrasioni superficiali. Non si conosce altro dell’incidente. Nonostante la stragrande parte degli incidenti rimanesse nascosta o fosse minimizzata, a metà degli anni 70 l’attenzione sulla gestione di armi e impianti nucleari sta crescendo fortemente. L’opinione pubblica mondiale, almeno nelle nazioni dove è garantita la libertà d’informazione, chiede sempre più di sapere quando accade un incidente, di conoscere rischi e danni a persone ed ambiente, i movimenti ambientalisti aprono una nuova stagione di impegno civile. Emergono quindi dati inquietanti, specie per i luoghi in cui navi ed aerei con armamento nucleare stazionano: negli USA un’inchiesta shock rivela che dall’inizio della corsa nucleare più di 3000 persone coinvolte nella produzione di armamenti e combustibili nucleari è stata allontanata dal lavoro per decadimento intellettivo, demenza, alcolismo ed altre cause. Le fonti governative rifiutarono di riconoscere ogni valenza scientifica all’inchiesta, ma il dato statistico resta terribile di per sé. Alla base navale della Maddalena, sulla costa della Sardegna, si guarda sempre più con preoccupazione  all’intenso traffico di sottomarini nucleari, per i quali è stata creata una base di appoggio.

24 febbraio. Tutto l’equipaggio della nave appoggio USS Gilmore in servizio alla Maddalena viene  sostituito improvvisamente,  senza ulteriori spiegazioni, avvenimento in base al quale il quotidiano “Il Messaggero” parla di una fuga di radiazioni e della presenza di Cobalto 60 e Iodio 131 nei fondali dell’isola. Si parla apertamente di responsabilità dei sottomarini a propulsione nucleare delle nazioni NATO ormai presenti dai primi anni 60 nelle acque dell’arcipelago sardo, mentre vengono resi pubblici i dati di una campagna di  ricerca del CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare) che rivela l’aumento dei livelli degli isotopi di Manganese e Cobalto nell’area della base a partire dal 1972. Successivamente, mentre nel nord Atlantico sta partecipando a esercitazioni NATO, il sottomarino lanciamissili nucleare inglese HMS Renown, classe Resolution.

17 aprile. Impatta violentemente il fondale sabbioso vicino al Firth of Clyde, un’insenatura profonda nella costa della Scozia Occidentale. A giugno il comandante dovette difendersi di fronte a una corte marziale dall’accusa di comportamento negligente e danni al battello, da cui uscì assolto, ma comunque perse il comando del Renown. In ogni caso, la difficoltà di manovra di questi enormi mezzi è testimoniata da un altro incidente identico, accaduto nel Firth of Clyde nel 1978.

1 maggio. Nelle acque di fronte alla base navale russa di Petropavlovsk, nella penisola della Kamchatcha, si ebbe un altro esempio di quanto fosse realmente pericoloso il confronto fra le forze armate degli opposti schieramenti coinvolti nella ‘Guerra Fredda’. L’USS Pintado, sottomarino da attacco a propulsione atomica, stava eseguendo una missione di sorveglianza e spionaggio (previste nell’operazione “Holystone”) della flotta russa ben all’interno delle acque territoriali dell’URSS, quando entrò in collisione con un sottomarino nucleare lanciamissili russo classe Yankee. La collisione quasi frontale distrusse il sonar dell’unità americana e danneggiò i timoni di profondità. Mentre la nave russa riemerse subito, il sottomarino americano eseguì una rischiosa navigazione in immersione alla massima velocità per uscire dal territorio russo e raggiungere la base di Guam, dove  fu sottoposto a riparazione.

6 maggio. Mentre lascia la base di Guantanamo a Cuba, l’USS Jallao subisce un fenomeno di scariche elettrice nella sua sala motori che causa un principio di incendio. Il sottomarino torna immediatamente alla base, dove 16 marinai vengono ricoverati per intossicazione da fumo e un’altro per ustioni. Il reattore non risulta danneggiato dall’incidente.

3 novembre. L’incidente di Petropavlovsk si ripeté a parti invertite: il sottomarino lanciamissili nucleari USS James Madison viene speronato in immersione da un sottomarino sconosciuto, presumibilmente sovietico, nel Mare del Nord. Secondo alcune fonti, entrambi i sottomarini subiscono sicuramente pesanti danni e riescono a malapena ad evitare l’affondamento. La Marina Statunitense non commentò l’incidente, ma nemmeno lo smentì….

dicembre.  E’ l’USS Kamehameha, altro sottomarino con missili nucleari a bordo, a centrare reti da pesca nel Mediterraneo centrale, ricavandone danni allo scafo e alle apparecchiature sonar.

1975

In una data e un luogo sconosciuto, il sottomarino nucleare  d’attacco USS Guardfish, lo stesso dell’incidente del 21 aprile 1973,  mentre esegue la pulizia dei circuiti di raffreddamento del reattore attraverso l’uso di una resina, un improvviso cambio di direzione del vento rispedì le polveri residue radioattive sul sottomarino e sul suo equipaggio prima che una qualsiasi reazione di difesa possa essere tentata. Dopo l’incidente qualcuno ammise fuori dagli ambienti militari che non era un fatto così raro, la cosa fu riportata dalla stampa creando lo stupore dell’opinione pubblica. La Marina Americana negò e minimizzò tali fatti, tuttavia dall’incidente del Guardfish nessun sottomarino ha mai più effettuato la pulizia dei circuiti di raffreddamento in mare….

16 febbraio. L’USS Swordfish, durante prove di immersione ad alta profondità, urta il fondale marino e rientra  a Pearl Harbour per riparazioni.

24 marzo. Nella notte del l’USS Dace entra in collisione con un peschereccio mentre naviga in superficie a largo di Rhode Island, nello stato di New York, ma non vengono segnalati danni.

23 aprile. L’USS Snook resta incagliato nelle reti di una nave da pesca d’altura russa a largo di San Francisco. L’unità riuscirà a liberarsi da sola e a rientrare alla base.

25 maggio. Viene pubblicato dal New York Times un articolo in cui si rivelano i dettagli del programma Holystone, creato dalla marina e dalla C.I.A.: attraverso la modifica di alcuni sottomarini la US Navy ha effettuato alcune rischiose missioni di  spionaggio nelle acque territoriali sovietiche e dei suoi alleati, registrando immagini e emissioni radio/radar. Tra la metà degli anni 60 e la metà degli anni 70 i sottomarini americani furono coinvolti in almeno otto incidenti con la marina russa, che del resto conduceva missioni simili con i propri battelli seguendo le esercitazioni NATO e spiando le basi navali americane. Gran parte delle unità destinate al programma Holystone appartenevano alla classe Sturgeon, ovvero  sottomarini d’attacco nucleari capaci di grande velocità, armati normalmente anche con siluri modello Mk 45 a testata atomica.

Ottobre. Mentre è in servizio nella baia di Apra, sull’isola di Guam, la nave appoggio USS Proteus perde l’acqua di raffreddamento dei reattori, scaricata nelle sue cisterne dai sottomarini a cui offriva assistenza. Sulle spiagge pubbliche circostanti si registra una radioattività di fondo di 100 millirems per ora, cinquanta volte superiore a quella massima consentita dalle misure di sicurezza.

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La nave appoggio sottomarini USS Proteus nella delicata fase di caricamento di un missile balistico nucleare Polaris sul sottomarino USS Patrick Henry. La Proteus sarà protagonista di un incidente con materiale radioattivo nell’ottobre 1975, mentre si trova nella baia di Apra, sull’isola di Guam. La rara foto è del 1961 ed è stata scattata nella base scozzese di Holy Loch, dove alcuni anni dopo la USS Canopus fu vittima di un violento incendio, col rischio di esplosione delle testate custodite nelle stive.

22 novembre. Si sfiorò nuovamente la tragedia nucleare, ancora una volta nel teatro di operazioni del Mediterraneo: durante un’esercitazione notturna, con mare in tempesta, la portaerei a propulsione nucleare USS John F. Kennedy e l’incrociatore lanciamissili USS Bellknap entrarono in collisone nel Mar Ionio, a largo della costa siciliana. Il comandante della Kennedy inviò il messaggio in codice al comando della 6° Flotta a Napoli di una Broken Arrow in corso, ovvero, la probabile perdita di ordigni nucleari con altrettanto probabilità di esplosione delle stesse, una prospettiva terrificante a pochi chilometri da coste densamente abitate e in un mare relativamente chiuso… la situazione divenne immediatamente grave, il Bellknap in preda alle fiamme, rimase alla deriva nel mare agitato per alcune ore, con il fuoco che lambiva ormai i lanciatori dei missili antiaerei RIM2 Terrier, armati a testata nucleare, nonché i depositi di altri armamenti nucleari…solo la tenacia dell’equipaggio riuscì a fermare l’incendio a pochi metri dal Plutonio. Sei uomini sul Bellknap ed uno sulla portaerei Kennedy persero la vita,  ma l’incidente fu ammesso solo nel 1989.

6 dicembre. Il 1975 si chiude con l’incidente occorso al sottomarino USS Haddock, appartenente alla classe di sommergibili d’assalto Tresher/Permit. Mentre navigava in profondità nei pressi delle isole Hawaii subì un’infiltrazione d’acqua. L’incidente venne confermato dalla US Navy, ma l’equipaggio, sfidando la disciplina e i segreti militari, protestò pubblicamente rivelando che il sottomarino soffriva di micro fessurazioni nel sistema di raffreddamento del reattore, oltre che altri malfunzionamenti. Il comando della Marina predispose che il sottomarino fosse sottoposto a una sessione speciale del programma SUBSAFE (vedi negli articoli precedenti l’affondamento dello USS Tresher) completo prima di riprendere il mare.

1976

16 aprile. E’ su un’unità di superficie, l’incrociatore lanciamissili USS Albany, che si verifica un incidente potenzialmente pericoloso: mentre veniva smontato durante  esercitazioni, un missile antiaereo Bendix RIM8E dotato di testata atomica cadde dal suo lanciatore modello Mk12 e rimase danneggiato, durante riparazioni della nave al Norfolk naval shipyard. L’incidente non viene segnalato come pericoloso, ma il 4 maggio successivo una commissione tecnica salì a bordo per capire le dinamiche dell’incidente e studiare modifiche per aumentare la sicurezza del lanciatore Mk12.

Regulus

L’incrociatore lanciamissili USS Albany in una famosa foto ufficiale della US Navy in cui lancia simultaneamente 3 missili antiaerei (SAM, Surface to Air Missile) Talos e Tartar, equipaggiabili anche con testate nucleari tattiche. Nel 1976 fu protagonista di un incidente nella santabarbara potenzialmente pericoloso mentre veniva manovrato un missile Talos dotato di testata atomica (dal sito www.navysite.de).

1° maggio. Un peschereccio d’altura norvegese, mentre posa reti nel Mare Artico, ‘catturò’ un sottomarino nucleare sovietico a largo della base navale di Murmansk. I pescatori norvegesi assisterono esterrefatti all’emersione del sottomarino incastrato tra le reti e agli sforzi frenetici dei marinai russi, che tagliarono le reti con cesoie, accette e martelli… l’incidente, come tipologia, divenne in quegli anni ormai sempre più frequente man mano che le navi da pesca industriale ampliarono il loro raggio d’azione e si ripeté quasi in maniera identica il 1° luglio dello stesso anno, sempre nello stesso tratto di mare….

2 maggio. L’HMS Warspite, sottomarino d’attacco a propulsione nucleare in servizio con la Royal Navy inglese, soffre un incendio nella sala macchine quando una tubazione dell’olio cede e spruzza il lubrificante su un generatore Diesel in funzione, mentre il battello era ormeggiato nel porto di Crosby on the Mersey. Il Ministro della Difesa inglese negò che vi sia stato alcun pericolo per il reattore del sottomarino, ma 3 marinai restano feriti.

Agosto. Ennesimo incidente di una lunga serie nell’impianto di produzione di Plutonio militare Hanford Plutonium Finishing Plant. Mentre avviene la concentrazione del Plutonio in una soluzione di nitrati per ottenere  i lingotti di metallo, una reazione chimica provocò un’esplosione nella camera blindata, tanto potente da strappare il pesante vetro al piombo che proteggeva gli operatori. Un dipendente venne investito da frammenti di vetro e acido nitrico, inalando una dose di Americio, un isotopo radioattivo, 500 volte superiore al limite massimo. Sottoposto a cure sperimentali di decontaminazione, il lavoratore si salvò fortunosamente. Vista anche la reticenza delle autorità e delle aziende che lavorano per il Dipartimento della Difesa ad ammettere i pericoli corsi nel trattare questi materiali, aumentò la pressione dei media e la preoccupazione del pubblico (nell’aprile 1975 si è chiusa la vicenda decennale della guerra in Vietnam, che ha fortemente contribuito  a scuotere  la fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche e militari).

25 agosto. Un mese particolarmente sfortunato a quanto pare, L’USS Pollack resta impigliato nelle reti a strascico di una flottiglia da pesca Giapponese, mentre attraversa la parte occidentale dello stretto di Tsushima. Le navi abbandonano le reti nella paura di essere trascinate dal sottomarino, che riemerge e rientra in porto, ma senza aver subito danni.

28 agosto. Nel Mediterraneo orientale, la pericolosa vicinanza tra le navi del blocco sovietico e dell’alleanza atlantica sfocia nella collisione tra il sottomarino nucleare  sovietico K 22,  appartenente alla classe Echo II, armato di missili da crociera a testata atomica,  e la fregata veloce USS Voge (3)(7) nave dedicata alla caccia dei sommergibili. Il K 22  seguiva la flotta della NATO a Sud dell’Isola di Creta, tallonando la portaerei USS Kitty Hawk, in un gioco a rimpiattino con le unità “antisubmarine” che cercavano a loro volta  di individuarlo e costringerlo ad abbandonare l’inseguimento. Nel continuo e teso susseguirsi di contatti sonar tra le unità, il K 22 si portò a quota periscopica per identificare la posizione del suo ultimo bersaglio, la fregata USS Moinsture, ma non sapeva di essere seguita da vicino dall’USS Voge. Tanto da vicino che il periscopio e l’antenna radio dell’unità russa vennero fotografate da alcuni marinai sul ponte del Voge. Tuttavia l’eccesiva velocità delle unità le mise in rotta di collisione: quando il comandante russo capì la posizione del Voge ordinò l’immersione di emergenza ma troppo tardi, così come il Voge non riuscì a virare. Le navi si scontrarono alle 18.25, provocando l’immediata emersione del sottomarino, la fregata ebbe una grande falla a poppa provocata dalla torre del sottomarino, con danneggiamento di un’elica. L’unità venne trainata a Tolone in Francia, dove entrò in bacino di carenaggio per le riparazioni. Il K22 venne scortato da unità di superficie russe fuori dal Mediterraneo. Tra i governi russo e americano vi fu uno scambio di accuse circa il comportamento delle rispettive unità.

26 settembre. Il sommergibile russo K47, appartenente ancora una volta alla classe Echo II nel codice NATO, prende fuoco durante una crociera di pattugliamento nel nord Atlantico. Restano uccisi 8 marinai, mentre il battello con fatica percorre la rotta per la base di partenza.

1977

7 luglio. Il presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter annunciò l’avvio dei test sulla bomba al neutrone. Si solleva un’ondata di proteste sia interne che estere che portò l’amministrazione nel 1978 ad abbandonare ufficialmente il programma.

22 luglio. E’la volta dell’USS Henry L. Stinson, che venne ‘pescato’ dalle reti di un battello spagnolo mentre lascia le acque della base di Rota. Ad agosto, nella base navale inglese di Coulport, mentre si sta caricando un missile intercontinentale Polaris su un sottomarino, a causa del non corretto montaggio delle strutture saltano alcuni giunti di sicurezza e il missile scivola di alcune decine di centimetri , ma senza provocare danni alla testata o ad altri oggetti. Non si conosce molto di più sull’incidente.

8 settembre. L’unità russa K 171, della classe Delta, in seguito all’aumento della pressione in uno dei silos, lanciò per errore un missile mentre era in navigazione a poca distanza dalla penisola di Kamchatcha. Anche se per fortuna il missile non si innescò, fu organizzata una grande operazione per ritrovare l’arma,  una broken arrow in versione sovietica, con il coinvolgimento di navi, aerei ed elicotteri. L’ordigno venne ritrovato intatto e recuperato.

20 settembre. Un incidente  accaduto nelle nostre acque nazionali pone l’attenzione di nuovo sull’uso dell’atomo militare e sulla disinformazione che i diversi poteri hanno messo in campo: il sottomarino d’attacco USS Ray andò a sbattere pesantemente sui fondali della Serpentara e gravemente danneggiato nel sonar ed in altre strumentazioni, entrò nella base sommergibili della Maddalena per ispezioni urgenti. Già questo fu una totale violazione dei protocollo internazionali, i quali vietano assolutamente in caso d’incidente a mezzi a propulsione nucleare l’attracco nei porti, specialmente se vicini abitazioni, fino a che non siano escluse contaminazioni radioattive. E anche le dichiarazioni ufficiali del comandante americano della base, alle richieste insistenti dei giornalisti, furono palesemente contrastanti con quelle del comandante la Capitaneria di porto, appartenente alla Marina Italiana: il primo ammise l’arrivo del Ray nel pomeriggio del 21 settembre, il secondo nella giornata del 22…tra l’altro l’area della base, concessa in uso nel 1972 alla US Navy con protocolli segreti mai ratificati dal parlamento italiano, fu oggetto di una campagna intesa a rendere l’opinione pubblica favorevole alla presenza della base (propagandata all’inizio come una sorta di luogo di riposo per i marinai in servizio in Europa e le loro famiglie), salvo poi negli anni rivelarsi vane le promesse e le previsioni di sviluppo che coinvolgessero la comunità locale. E la protesta divenne di anno in anno sempre più vibrante, specie con le analisi che  riportavano l’innegabile presenza di Cobalto 60 , Iodio 131 nelle alghe della rada, a livelli maggiori della radioattività di fondo. Mentre le autorità americane rifiutavano, con varie scuse, di mettere a disposizione le analisi svolte prima dell’inizio della costruzione delle installazioni e l’arrivo dei grandi sottomarini nucleari d’attacco. Inoltre, sulle grandi navi appoggio all’ancora nella rada normalmente vengono custoditi anche i munizionamenti che equipaggiano le navi, ovvero missili Cruise e siluri, certamente anche a testata nucleare. L’importanza strategica nel teatro del Mediterraneo della base per la NATO (e per il Pentagono) fa si che le proteste delle comunità locali, che fanno i conti anche con casi di malformazioni neonatali sempre più frequenti, vengano sostanzialmente ignorate o minimizzate dal governo (sia locale,  sia nazionale) italiano, tranne la posizione presa da alcuni politici Sardi, per non parlare dagli organi dell’alleanza Atlantica. Ma il muro di gomma prosegue fino all’incidente dell’USS Ray, che costa la carriera ai comandanti della base e del sottomarino, oltre che provvedimenti disciplinari a molti altri militari… il sottomarino avrebbe impattato contro una montagna corallina: e già questa è una versione risibile, perché chiunque può constatare che i fondali dove si incagliò il Ray sono molto più bassi, e non vi sono assolutamente scogliere coralline… inoltre la motivazione della rimozione immediata dei responsabili fu negligenza ed incompetenza. Poco credibile, visto che proprio  nel 1977 l’equipaggio dell’USS Ray vinse la Navy Expeditionary Medal (conseguita in totale per ben otto volte dall’unità), un riconoscimento ricevuto per l’alto livello di efficienza e di sicurezza raggiunto. Il Ray apparteneva alla classe Sturgeon, uno dei mezzi più tecnologicamente avanzati, spesso condusse missioni segrete di spionaggio (come quelle previste nell’Operazione Holystone, di cui abbiamo parlato prima) introducendosi nelle acque territoriali avversarie o seguendo da vicino mezzi sovietici. A fine carriera risultò tra i battelli più decorati nella storia della Marina. Per cui è assolutamente poco credibile che un equipaggio inesperto fosse stato mandato a navigare su fondali così insidiosi su un mezzo che costava 800 milioni di Dollari (in valuta degli anni 60) e con un reattore nucleare a bordo…. In realtà la presenza del relitto di un cargo Russo potrebbe spiegare la missione del Ray  in quei giorni: Komsomolets Kalmykii, affondato in circostanze mai chiarite il 31 dicembre 1974,  fu cercato intensamente da Russi e, di conseguenza, anche dagli occidentali, ma solo recentemente individuato per caso da alcuni subacquei. La presenza del Ray e le sue sofisticate attrezzature  potrebbe essere stata giustificata proprio con la necessità di individuare il relitto e il suo misterioso carico. Ma anche questo è uno scenario su cui mai le autorità ammetterebbero ancora oggi alcunché, è prevedibile. Negli anni 2003/2004, a seguito dell’ennesimo incidente occorso ad un sottomarino atomico, l’USS Hartford, sugli insidiosi fondali sardi, le associazioni ambientaliste italiane e corse effettuarono prelievi indipendenti inviandoli all’estero a laboratori specializzati. I risultati furono gravi perché gli analisti belgi e francesi accertarono la presenza di Plutonio e di Torio 234, un suo radioisotopo tipico. E queste non sono presenze naturali, ma solo frutto della mano dell’uomo.

Autunno. Secondo rapporti della C.I.A. la flotta russa soffre due altri incidenti ai suoi sottomarini oceanici: 12 ufficiali e marinai dell’equipaggio di un sottomarino vengono trasbordati su un peschereccio d’altura russa e consegnati in un porto canadese a personale diplomatico russo. Da qui vengono imbarcati su un velivolo dell’Areoflot, la compagnia di bandiera dell’Unione Sovietica e riportati a Leningrado. Si sospetta un’urgenza dovuta a contaminazione radioattiva. Negli stessi giorni un’altra unità in servizio nell’Oceano Indiano riemerge in preda ad un incendio e dopo una lotta durata alcuni giorni, il sottomarino viene trainato verso Vladivostock  da vascelli sovietici.

28 novembre. E’ la volta di un elicottero Boeing CH47 Chinook, che fu vittima di un incendio ad uno dei due motori al momento del decollo, in una base statunitense nell’allora Germania Ovest. Nel vano di carico erano  custodite alcune testate tattiche appartenenti alla US Army, l’esercito U.S.A. Secondo le fonti militari il pronto intervento antincendio ha  escluso ogni danneggiamento agli ordigni, estratti integri dal velivolo. Il 4 dicembre, l’USS Pintado, mentre partecipa ad una esercitazione congiunta con la marina Sudcoreana, venne investito da una unità che aveva virato senza  considerare la posizione del sottomarino. Grazie alla prontezza di riflessi del comandante americano, si lamentano solo alcuni danni superficiali al battello. Anche lo spazio , come abbiamo visto per il caso dell’Apollo 13, non è immune dall’utilizzo dell’energia nucleare, e talvolta lo scopo è militare, come molto spesso succede.

18 settembre. Un razzo vettore mette in orbita un satellite, partendo dal territorio dell’Unione Sovietica, probabilmente dalla grande base di Baykonur. Niente di strano, ormai il lancio di un mezzo extra-atmosferico è una realtà di tutti i giorni…ma per molti Paesi l’opportunità di svolgere missioni di osservazione e studio,virtualmente intoccabile ed invisibile è importantissimo per gli equilibri geopolitici mondiali. Tornando a quel satellite, il suo nome in codice è Cosmos 954, è un satellite spia oceanico, concepito per sorvegliare le mosse delle flotte militari occidentali, in primis americane, sia con la fotografia ad alta definizione, sia attraverso l’analisi di emissioni radar e radio. Normalmente si tratta di mezzi ormai prodotti in serie, affidabili. Ma qualcosa non va: già da novembre gli occhi del sistema spaziale americano notano che l’orbita dl satellite è instabile e si dubita che i legittimi proprietari del sofisticato giocattolo nulla possano fare. Secondo le proiezioni dei tecnici, tra febbraio ed aprile il satellite sarebbe sicuramente precipitato nell’atmosfera. E fin qui, niente di eccezionale: per la tecnologia dell’epoca, già gli stadi dei razzi venivano sganciati ed andavano a disintegrarsi contro l’atmosfera, così come non era inusuale che  satelliti ormai giunti alla fine della vita operativa fossero fatti rientrare con angoli d’ingresso tali da assicurarne  lo sbriciolamento, verso le superfici oceaniche per lo più…ma per il Cosmos c’è un pericolo: fonte dell’energia operativa è un piccolo reattore ad Uranio 235, del modello “Romashka” compatto e relativamente leggero, ma pur sempre un reattore. Normalmente le procedure nei casi di satelliti alimentati ad atomo prevedevano l’espulsione del reattore dal satellite (la cui vita utile coincideva con l’esaurimento del combustibile nucleare) verso orbite più stabili e “sicure”, entrando a far parte della spazzatura spaziale che circola attorno al nostro pianeta…non potendo aspettarsi più di tanto collaborazione dai russi sulla situazione e le caratteristiche del Cosmos, i vertici militari e politici si prepararono al peggio: nacque l’operazione “Morning Light” (vedi il PDF Cosmos 954, contenente il rapporto desecretato del National Securit Council statunitense sullo svolgimento dei fatti ed interessanti riflessioni sulle emergenze di questo tipo). Innanzi tutto, vennero mobilitati arerei spia U2, satelliti, centri di osservazione per sapere in tempo reale se al momento del rientro tra i rottami del satellite vi fosse anche l’Uranio, ovviamente così sparso su superfici potenzialmente enormi: un’ipotesi a dir poco terrificante Inoltre c’è da affrontare il calcolo delle probabilità su dove la maggior parte dei detriti avrebbe potuto cadere e le probabilità di causare danni diretti alla popolazione. Non è cosa da poco, perché impone di considerare l’ipotesi di dover rivelare all’opinione pubblica internazionale cosa circoli veramente sopra le teste della gente e a quali pericoli sia esposti.

1978

24 febbraio. Seguito dagli schermi radar del NORAD, il comando aereo del Nord – America, alle 6.53 del il Cosmos 954 si polverizzava sopra il Canada. Già notizie erano trapelate e i media sia spettavano il rientro problematico di un “satellite da telecomunicazioni”, quindi l’attenzione era accesa. Nelle ore successive un’imponente  task force passava al setaccio boschi e pianure alla ricerca di rottami di una certa consistenza , soprattutto per determinare se vi fosse stata una contaminazione dell’aria e del suolo. L’area da scandagliare è compresa fra gli stati dell’Alberta, del Saskatchewan ed il Lago degli Schiavi, circa 124.000 chilometri quadrati nelle terre più selvagge del pianeta. L’operazione, durata alcune settimane determinò il recupero di appena lo 0,1% del materiale appartenente al Cosmos. In realtà il reattore del Cosmos 954 conteneva dai 45 a 50 chili di Uranio U 235, una quantità a dir poco sospetta per un satellite spia, per quanto sofisticato. La radioattività si sparse secondo concentrazioni molto casuali, costringendo a un lavoro maniacale le squadre congiunte americane e canadesi. Il Canada reclamò la violazione dei trattati internazionali sull’uso dello spazio esterno all’atmosfera, spostandosi sul piano del diritto internazionale. Al termine di un’intensa attività diplomatica, l’Unione Sovietica accetto di firmare un protocollo con il Canada e di versare 3 milioni di dollari Canadesi a titolo di risarcimento per le spese di ricerca  e decontaminazione.

Cosmos-954

Un frammento del satellite spia Cosmos 954 che il 24 gennaio 1978 rientrò in atmosfera fuori controllo assieme al suo reattore nucleare.

14 maggio. Dobbiamo tornare su un sottomarino, l’USS Darter soffre un allagamento dovuto ad una perdita del sistema snorkel durante un’ immersione.

23 maggio. Mentre veniva sottoposto a lavori di manutenzione nel bacino di carenaggio del Puget Sound Naval Shipyard, l’USS Puffer perse acqua contaminata dal sistema di raffreddamento. Secondo la versione ufficiale della Marina si trattò di una modesta quantità di liquido, circa una ventina di litri, proveniente dal sistema secondario di raffreddamento, persa per una distrazione da parte dei lavoratori del cantiere, che peraltro non ha provocato alcuna contaminazione né interna all’impianto, né delle acque marine esterne al porto. Diametralmente opposta la risposta dei lavoratori del cantiere, che hanno parlato di una perdita decisa, intorno ai 100 galloni (circa 378 litri), di una risposta lenta all’emergenza da parte dei tecnici militari e che numerosi lavoratori hanno subito contaminazione attraverso la pelle per contatto con l’acqua. Intanto, una sezione del bacino interessata dalla perdita venne demolita, infilata in bidoni a tenuta e inviata ad al centro di Hanford, nello stato di Washington, per lo stoccaggio sicuro. Solo tre giorni dopo, nello stesso bacino del Puget Sound, dall’USS Aspro si sparse un getto di acqua radioattiva che contaminò un lavoratore, i cui vestiti vennero sigillati ed inviati ad un sito per rifiuti nucleari…

8 giugno. Sul sottomarino nucleare inglese HMS Revenge (PDF Queen’s Gallantry Medal), dotato di missili balistici Polaris, una violenta perdita di vapore a pressione da una turbina nella sala motori rischia di generare un disastro incalcolabile. Solo il coraggio di un meccanico, Thomas Mc’Williams, che strisciando nell’intrico di tubi e cavi, a pochi centimetri dal getto mortale di vapore, riuscì a trovare la perdita e aiutò metterla in sicurezza, rientrando più volte e soffrendo del calore e di dolorose ustioni, meritandosi nel 1979 la Queen’s Gallantry Medal.

16 giugno. Mentre è in immersione nell’Atlantico, l’albero di trasmissione dell’USS Tullibee esce dalla sede all’altezza dell’elica, provocando una falla, fermata dall’equipaggio. Dopo la riemersione rapida, l’unità viene scortata al porto di Rota, in Spagna.

2 luglio. Mentre si trova nella Baia di Vladimir, nel Mar del Giappone, il sottomarino nucleare K 116 soffrì un incidente al reattore. Alcuni uomini rimasero contaminati, ma non se ne conosce la gravità.

19 agosto. Mentre si trova in crociera nell’Atlantico a Ovest delle coste scozzesi, un sottomarino nucleare russo non identificato ebbe un problema al reattore, per cui dovette  emergere venendo poi trainato da altre unità  di superficie, costantemente osservato da aerei pattugliatori della NATO. Le cause e le conseguenze dell’incidente non furono rivelate.

1979

Si avvia al termine il decennio, che ha visto molte cose cambiare nel mondo, dall’economia, alla politica e ai rapporti sociali.  E’ stato anche un decennio di incertezze, di turbolenze, di disillusioni allo stesso tempo. Il terrorismo politico, con tutti suoi lati oscuri, fece  la sua drammatica apparizione: anche il campo ambientalista vide degenerazioni pericolose, che si concretizzarono in sabotaggi e attentati anche ad impianti coinvolti nell’industria nucleare, sia militare che civile. In Spagna ad esempio l’ETA metterà a segno molti attentati che miravano a colpire lo sviluppo nucleare del Paese, e quello economico di conseguenza, puntando al contempo alle simpatie di quella parte di attivismo ambientalista frustrato dalla sordità del sistema ai problemi dell’impatto umano sul sistema pianeta…  Nel campo di cui ci stiamo occupando, proprio gli anni 70/80 hanno visto l’ultima fase della guerra fredda e del monopolio di pochi Stati del potere atomico militare, con una recrudescenza anche della sfida fra i blocchi, della corsa agli arsenali “non-convenzionali”, ovvero tra URSS e USA che ha fatto realmente temere di essere più che mai vicini all’uso delle armi nucleari. Un clima che ha fatto nascere un forte movimento di opinione internazionale, che avrà i suoi effetti anche sui colloqui per i trattati di disarmo bilaterale tra la fine degli anni 80 e gli anni 90 del XX° secolo.

7 marzo. Il sottomarino statunitense USS Alexander Hamilton resta impigliato nelle reti di un peschereccio a largo delle coste scozzesi, trascinando l’imbarcazione civile per almeno 45 minuti prima che le reti si rompessero e lasciassero libero il battello americano. Il 28 marzo è ricordato per l’incidente che ha causato la parziale fusione delle barre di uranio nella centrale nucleare di Three Mile Island, in Pennsylvanya : benché non fosse il primo incidente, fu tra i potenzialmente più gravi che avessero colpito l’uso dell’energia atomica, per di più per scopi civili, e il mondo comprese che essere entrato nell’era atomica comporta non solo grandi vantaggi, ma anche alti costi, probabilmente non sostenibili. L’incidente, il primo sotto i riflettori dei media internazionali, colpì molto l’opinione pubblica, perché accadde solo pochi giorni dopo l’uscita di un film di grande successo sul tema, la Sindrome Cinese (http://it.wikipedia.org/wiki/Sindrome_cinese ), che sembrò quasi profetico…

27 aprile. L’USS Pargo, altro sottomarino nucleare, mentre entrava in porto a New London andò ad arenarsi su bassi fondali a causa della nebbia…il sottomarino si disincagliò da solo e proseguì verso il bacino, dove venne sottoposto a controlli sullo scafo.

11 maggio è la volta di una grande portaerei di squadra ad esser vittima di un incidente radiologico, la CVN (Carrier Vessel Nuclear) USS Nimitz subì una perdita al sistema di raffreddamento primario di uno dei due reattori del sistema di propulsione, mentre era a largo della costa della Virginia. Fonti della Marina assicurarono che non vi è stata contaminazione esterna alla nave né l’equipaggio ha corso alcun pericolo di irradiazione…si, ma da qualche parte quell’acqua sarà pur finita e in qualche modo dovrà esser stata smaltita….

24 maggio. L’incidente si ripete nella stessa base di New London e in condizioni praticamente identiche con l’USS Andrew Jackson e il 4 giugno con l’USS Woodrow Wilson.

12 Giugno. In una base sull’Atlantico, un siluro modello Mk 48 a testata convenzionale cadde dal carrello di carico, per la rottura di una catena, e si  andò ad incastrare sulla fiancata del sommergibile nucleare. Fonti della US Navy assicurarono che il siluro era privo di innesco, secondo le norme di sicurezza, ma dovettero ammettere che in caso di esplosione accidentale il sottomarino quasi sicuramente sarebbe affondato.

20 giugno. L’USS Hawkbill, mentre è impegnato in manovre nelle vicinanze delle isole Hawaii, subisce un’avaria ed una perdita al sistema di raffreddamento primario del reattore. La perdita al momento del ritorno al porto di Pearl Harbour era stata ridotta di tre quarti e cessò entro il 23. La Marina affermò ufficialmente che l’acqua radioattiva dell’impianto non è mai uscita dal sistema del reattore e che le pompe hanno continuato a sostituire il liquido mancante. Secondo la stessa fonte, la perdita è stata causata da “normale usura delle parti interne delle valvole” e che  “queste perdite si verificano occasionalmente”. Appena il giorno dopo, la portaerei CVN USS Enterprise , mentre è  nel Puget Sound Naval Shipyard per lavori di revisione, fu vittima per oltre due ore di un incendio partito dai locali di una delle catapulte, propagatosi attraverso i corridoi. L’incendio fu classificato Class Alpha, ovvero di assoluta pericolosità.

di Davide Migliore

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http://spb.org.ru/bellona/ehome/russia/nfl/nfl8.htm

Osipenko, L., Zhiltsov, L., and Mormul, N., Atomnaya Podvodnaya Epopeya, 1994:  l’affondamento del K8

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http://www.progettohumus.it/public/forum/index.php?topic=428.0;wap2 incidenti nucleari o potenzialmente nucleari dal 1971 ad oggi

SOMMERGIBILI NUCLEARI : PROBLEMI DI SICUREZZA ED IMPATTO AMBIENTALE , Politecnico di  Torino, 2004 – F. IANNUZZELLI, V.F. POLCARO, M. ZUCCHETTI

http://home.cogeco.ca/~gchalcraft/career/71-77.html : Geoff Chalckcraft, esperienze  sull’SBLCM HMS Renown

http://www.rnsubs.co.uk/Boats/BoatDB2/index.php?BoatID=682  HMS Warspite

http://www.destroyers.org/histories/h-de-1047.htm USS Voge

http://www.lostsubs.com/Detente.htm, http://www.lostsubs.com/Soviet.htm , http://submarine.id.ru/memory/K56.htm  lista degli incidenti a sottomarini sovietici e/o russi.

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Fonti generali :

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http://alsos.wlu.edu/adv_rst.aspx?keyword=accidents*military&creator=&title=&media=all&genre=all&disc=all&level=all&sortby=relevance&results=10&period=15  elenco di pubblicazioni sugli armamenti nucleari ed i rischi di incidenti, accaduti o possibili

http://www.navsource.org ,

Michele Cosentino – Ruggero Stanglini “La Marina Sovietica” , ED.A.I., 1991

Dunmore, Spencer.  Lost Subs: From the Hunley to the Kursk, the Greatest Submarines Ever Lost – and Found. 1st ed: Toronto: Madison Press, 2002

Dunham, Roger C. Spy Sub. 10th ed. New York: Penguin Books, 1997

Waller, Douglas C. Big Red – Three Months On Board a Trident Missile Submarine. 1st ed. New York: Harper Collins, 2001

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