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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

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Commons, un nuovo modo di pensare ai beni comuni

Pubblicato il 20 novembre 2012 by redazione

Per gli economisti e i sociologi, che studiano i beni comuni a livello globale, i commons sono le risorse materiali o immateriali condivise, cioè quelle che non sono di qualcuno in particolare e neppure rivali (cioè il cui uso da parte di qualcuno ne impedisca l’uso da parte di qualcun’altro), e che quindi sono usate (o prodotte) genericamente dalle comunità grandi e piccole.

Elinor OstromElinor Ostrom

La gestione dei beni comuni della collettività è rimasto uno tra i nodi più antichi, non ancora sciolti, della nostra civiltà. La domanda è sempre la stessa: come utilizzare le risorse comuni evitando eccessivi sfruttamenti e costi insostenibili. La privatizzazione è stata l’unica via fin qui sperimentata, ma ne esisterebbero altre che consentirebbero di creare istituzioni di autogoverno permanenti. Questo è quanto afferma Elinor Ostrom, Premio Nobel per l’Economia nel 2009, che ha postulato che i commons possono essere governati dal basso, assicurando così equità, rispetto degli ecosistemi e pari opportunità alle generazioni che verranno. Una via alternativa dunque, che spariglia completamente il sistema secolare della privatizzazione delle risorse, che imbriglia ancora oggi le politiche ambientali, ingessate da divieti, tasse, e limitazioni di ogni sorta al consumo. Questo nuovo modello genererebbe capitale sociale per e nelle comunità coinvolte e una maggior consapevolezza e responsabilità nello sperimentare nuovi modelli di gestione per risolvere le difficili situazioni in corso.

La nuova era post-industriale

La frenetica corsa alla produttività intensiva e massiccia, all’insegna di un imperante consumo per il consumo, è costato all’ambiente e all’umanità un innegabile degrado. Culturalmente ne è anche conseguito uno stravolgimento etico e valoriale del fare, e fare bene. Ora da più parti si avverte la necessità sempre più forte di un’inversione di tendenza. Molte sono infatti le iniziative che prospettano e sperimentano una nuova frontiera industriale, orientata a un ritorno alle origini. L’idea è quella di promuovere un sistema che pur avvalendosi di alte tecnologie, per dimensione e necessità produttive, si collochi a un livello quasi artigianale. L’obiettivo finale è soddisfare il mercato locale, quello dell’immediato circondario e da questo attingere ciò che serve per produrre quel che il mercato chiede. La nuova formula a chilometro zero, in uscita e in entrata, sia per la filiera produttiva sia per quella distributiva, permetterebbe di risparmiare maggiormente il costo dell’ambiente. Nulla che i nostri nonni non sapessero già.

orti verticali_3orti verticali_2Agricoltura pret-a-porté

Orti futuristi a chilometro zero sono già una realtà di alcune città americane. Questa è la risposta della Columbia University al disastro ambientale in atto in molte zone del pianeta. Si tratta di fattorie verticali costruite sulle pareti esterne di grandi edifici urbani. Una pista meccanica corre tutta intorno alle facciate di questi grattacieli agricoli e trasporta le cassette in cui vengono coltivati diversi tipi di verdure e ortaggi. Per proteggere la filiera agricola, tutto il circuito è rivestito da pannelli di vetro, che permettono alla luce naturale di filtrare e proteggono l’intero microclima dagli sbalzi di temperatura. Il periodo di coltura dei vegetali avviene ai piani alti. L’acqua e le sostanze nutritive vengono portate direttamente alle radici delle piante da un sistema di irrigazione e trattenute dall’argilla pomice che costituisce il terriccio di coltivazione. A crescita ultimata le cassette vengono portate dai “tapis roulants” ai piani inferiori della fattoria, dove il ciclo produttivo si conclude con il raccolto. La distribuzione locale dei prodotti annulla i costi di trasporto, che sono a chilometro zero. Alcuni grattacieli serra sono già attivi a Chicago, New York, Seattle e nel New Jersey. Queste coltivazioni futuristiche rispondono alla mancanza di terra fertile, alla desertificazione che minaccia un terzo del pianeta, alla diminuzione di acqua da cui dipendono le coltivazioni di un quinto delle risorse alimentari della Terra e alla sempre maggior richiesta di cibo dell’umanità. Rimane critico l’ambientalista George Monbiot, per il quale l’energia spesa per mantenere il consumo di luce artificiale di questi edifici è ancora troppo alto rispetto ai benefici. Massimo Iannetta, direttore del laboratorio di agrobiotecnologia, dell’Enea Casaccia, è invece ottimista: “Imparare a gestire edifici con funzioni tanto articolate significa affinare le tecniche di governo dei cicli nutrienti, dell’acqua, dell’energia: tutte competenze che si riveleranno sempre più preziose nel futuro.

Massimo Banziarduino scheda

La visione di Massimo Banzi, co-fondatore del progetto Arduino

Interaction designer, educatore, promotore del movimento hardware open source e co-fondatore del progetto Arduino, Banzi è il fondatore del primo FabLab italiano, da cui è nato a Torino un FabLab/Makerspace, l’Officine Arduino. Nel suo intervento durante una giornata di dibattito svoltosi al Made in Mage, a Sesto San Giovanni, tenutosi il 16 Novembre, Banzi ha ribadito la forza del cazzeggio o meglio del tempo speso a pensare, sperimentare e creare.

Alan_Kay

The Full Alan Kay Quote. “Don’t worry about what anybody else is going to do… The best way to predict the future is to invent it. Really smart people with reasonable funding can do just about anything that doesn’t violate too many of Newton’s Laws!” — Alan Kay, in an email on Sept 17, 1998 to Peter W. Lount

Come diceva Alan Kay, “Non preoccuparti di cosa sta per fare qualcun altro. Il miglior modo per predire il futuro è inventarlo”. Un modello alternativo, dunque, per immaginare l’innovazione, definita da Tim O’Reilly, sostenitore del software libero e dei movimenti open source, come un processo a 4 cilindri. Il primo cilindro è il divertimento: fare una cosa prima di tutto perché è divertente. Il secondo cilindro è sognare in grande. Terzo cilindro è quello di essere capaci di trasformare questo sogno in un’idea, in un prodotto. E alla fine se si vuole che questo sistema funzioni, il quarto cilindro consiste nel dare valore al mondo, più di quello che da questo si prende. Questo plus è quello che genera un sistema positivo e che ha determinato il successo dell’avventura dei fratelli Write, che pur non essendo ingegnieri sognavano di volare, o di Apple che sognava di portare il computer in tutte le case, di Google che con un click aspirava a “cercare e trovare” qualsiasi cosa in tutta la rete.

Il successo di piattaforme come Arduino, che ha realizzato una scheda made in Italy a micro-controller, utilizzata da tutti i creativi del mondo, è stato quello di provare a insegnare e distribuire conoscenza a chi non ha know-how, ma che desidera creare e inventare. Impari facendo e poi scopri i tuoi errori appoggiandoti a una comunità che cazzeggia come te per il piacere di capire e provare a inventare.

E ciò che viene creato dai cazzeggiatori, i maker, diventa valore anche per gli altri che fanno parte della comunità e condividono la piattaforma. Questa condivisione open source si estende a qualsiasi cosa, anche informazione o design e permette a tutti i condivisori di scalare la filiera della creazione fino a partorire un prodotto reale e originale.

di Adriana Paolini

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