E’ sicuramente un periodo importante per la gloriosa industria spaziale russa che in ambito spaziale ha avuto importanti sviluppi e questo anche grazie ai tagli del governo statunitense al programma NASA che di fatto costringe gli astronauti americani a volare con lanciatori e sonde russe (o al massimo europee). Tra i principali traguardi il lancio di un nuovo lander che atterrerà sulla superficie di Phobos, il più grande dei satelliti di Marte, con lo scopo di prelevare campioni da riportare e analizzare sulla Terra e la missione Mars 500 per l’esplorazione del pianeta rosso.
Cominciata a Mosca il 3 giugno 2010, la missione Mars 500 si è conclusa il 9 novembre scorso, con implicazioni fondamentali non solo per l’industria spaziale internazionale, ma per l’intero panorama scientifico e per tutta l’umanità. La missione prevedeva la simulazione completa di un ipotetico viaggio verso Marte, un periodo di esplorazione del pianeta e il successivo viaggio di ritorno verso la Terra. L’aspetto rivoluzionario rispetto alle simulazioni comunemente effettuate, è stato la presenza di un equipaggio: sei volontari, tre cosmonauti russi (tra cui anche il comandante della missione Alexei Sitev), un astronauta cinese, un ingegnere francese e l’italo-colombiano Diego Urbina, ventisette anni, laureatosi in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Torino e specializzatosi poi in Studi Spaziali a Strasburgo.
Sicuramente l’aspetto più interessante da analizzare è quello del comportamento assunto dal gruppo di lavoro all’interno di situazioni molto particolari, se vogliamo anche estreme e inusuali per uomini abituati a vivere in società. Innanzitutto la lunga permanenza (490 giorni tra andata e ritorno) all’interno di un modulo di esplorazione caratterizzato da spazi particolarmente ridotti (l’architettura ripropone in piccolo gli ambienti della stazione spaziale internazionale: sei camerette, bagno, ambiente di lavoro e palestra) e in secondo luogo, la convivenza tra i membri dell’equipaggio per un lungo periodo di tempo, la lontananza dalle proprie case, dai propri affetti, dalle proprie abitudini quotidiane. E ancora, le limitate comunicazioni, i ritardi nei sistemi radio (venti minuti circa per avviare la trasmissione), il possibile verificarsi di guasti tecnici o di emergenze, scorte alimentari limitate, tutto orchestrato alla perfezione per rendere la simulazione più reale possibile. Infine, la quota di lavoro giornaliera di ricerca, attraverso gli esperimenti da condurre a bordo, e di esercizio fisico; il riposo? Nel week-end, ovvio! (salvo diverse comunicazioni o esercitazioni straordinarie). Insomma, un test fisico e psicologico che ha messo a dura prova gli uomini dell’equipaggio, i quali però, dopo essere “tornati” sulla Terra, si sono sentiti ben fieri di aver contribuito a realizzare un piccolo passo verso un’esplorazione futura che fino a poco tempo fa pareva appena immaginabile.
Oltre ai viaggi di andata e ritorno, durante la missione, i tre membri dell’equipaggio hanno sperimentato anche l’“esplorazione” di una riproduzione di territorio marziano, con attività di prelievo di campioni.
L’istituto di fisiologia clinica del CNR e la Scuola Superiore Sant’Anna e Università di Pisa sono stati i principali rappresentanti del contributo italiano, fondamentale nel testare lo stress psicofisico dei cosmonauti dovuto all’isolamento prolungato, al ricircolo dell’aria e alla mancanza di luce solare.
Le implicazioni di quella che è stata la più lunga simulazione nella storia dei viaggi spaziali sono molteplici, se si ragiona nell’ottica di un’esplorazione planetaria. Dopo lo sbarco sulla Luna del 1969, l’uomo potrebbe mettere piede su Marte, un pianeta molto particolare e di grande interesse, che le sonde Odissey prima, e Phoenix poi, con i rilevamenti di presenza di acqua e lo sviluppo di forme di combustione particolarmente efficienti nei moderni motori a razzo, hanno reso un po’ più vicino a noi. Questa prova costituisce un passo importante per colmare quella distanza che divide ancora la scienza dalla fantascienza, il realizzabile dall’ipotizzabile, il viaggio dalla simulazione. La capacità di adattarsi a una condizione di continuo stress psicofisico è stato lo sforzo che i membri dell’equipaggio hanno dimostrato di poter sopportare, ridisegnando così quelli che sono i limiti dell’uomo. Se si inserisce il tutto in un contesto scientifico-tecnologico stimolante ed estremamente dinamico, ecco che questa diventa un’esperienza che apre nuove prospettive e allarga gli orizzonti della ricerca, spostando ancora un po’ più in là le colonne d’Ercole.
di Michele Mione
vedi anche:
http://mars500.imbp.ru
http://www.esa.int/SPECIALS/Mars500