“Quando qualcuno danza questo è considerato un atto rituale di adorazione della divinità; gli dei sono compiaciuti di tale atto più delle offerte di fiori e delle oblazioni. Colui che adora dio con nritya ottiene la realizzazione di tutti i desideri e il sentiero del moksa”.
E’ quanto recita un passo del Vishnudharmottara
Purana, il testo enciclopedico Hindu databile ai secoli VII e X d.C. che testimonia l’ancestrale e intima connessione tra danza e religione in India. Qui, infatti, tutte le forme d’arte hanno origini sacre tanto che, nella cultura Induista, signore dei danzatori è il dio Shiva Nataraja che, con la sua danza, ha il potere di creare e distruggere tutto l’universo: danzando ogni giorno con il figlio Ganesha sul monte Kailasha, Shiva Nataraja origina infatti il Tandava, stile di danza generalmente eseguita da uomini nel quale l’elemento dominante è Vira Rasa, la lotta per sconfiggere il male; al contempo Parvati, consorte del dio ballerino, danza un ruolo complementare, praticato dalle donne e composto di Lasya, la grazia, e Singara Rasa, il sentimento erotico. Gli stessi movimenti che il dio Shiva Nataraja compie durante la sua danza cosmica hanno un loro significato specifico: rappresentato spesso in statuette di bronzo databili, per lo più, al VII secolo d.C., le braccia e le gambe marcano il ritmo tanto della creazione quanto della distruzione, la mano destra assicura protezione ai devoti mentre la sinistra, posta di traverso al corpo, indica rifugio, il piede sinistro rappresenta la benedizione mentre il destro significa vittoria sul male.
Da qui la danza classica indiana, margi, è cresciuta e si è sviluppata in una rigorosa disciplina sia fisica sia intellettuale, mentre quella più popolare, deshi, è ancora oggi ampiamente diffusa negli ambienti rurali e nelle comunità agricole durante le celebrazioni festive; un tempo queste due forme di danza erano probabilmente un’unica realtà, ma nel corso dei secoli alcune divennero parte della religione e acquistarono una rigida codificazione, gettando così i semi dei successivi stili di danza classica indiana: Bharatanatyam, Kathakali, Odissi, Kuchipudi, Kathak e Manipuri.
Il Bharatanatyam è con molta probabilità uno degli stili più antichi di danza classica indiana: nato nel sud dell’India, presso lo stato di Tamil Nadu con capitale Madras, durante l’epoca Gupta (IV – VI secolo d.C.) si insinua nei templi, veri fulcri della vita religiosa, sociale, artistica ed economica indiana, dove non solo viene rappresentato sottoforma di arti figurative, ma viene soprattutto danzato dalle devadasi, serve del Dio desiderose di dedicare la loro vita danzante al servizio delle divinità installate nei templi; la vera fioritura di questa pratica avviene, tuttavia, nel XVII secolo quando, presso lo stato di Tanjore, entra a fare parte della vita (e del mecenatismo) della corte reale. Ma con l’arrivo della colonizzazione inglese, tale danza venne privata della sicurezza del tempio e del patronato della corte, degenerando così in una professione priva di senso religioso e, spesso, in prostituzione di qualche ricco o dei responsabili dei pubblici intrattenimenti: la stessa istituzione delle devadasi fu messa in pericolo, ma a seguito dell’indipendenza indiana e del nuovo spirito progressista che ne derivò, la condizione sociale di questa forma d’arte fu risollevata, tanto che la famosa devadasi Rukmini Devi riuscì a fondare due scuole per l’addestramento delle allieve nella danza del Bharatanatyam.
Ma in cosa consiste, dunque, tale arcaica usanza?
Come tutte le altre danze, anche questa è caratterizzata da tre elementi:
- Nrtta (danza pura): sono i complessi virtuosismi, a velocità ritmiche sia sostenute sia fluide sia statiche, che si richiede di eseguire al corpo. In essa, karana è la posizione del corpo, mentre adavu (combinata in alaripu) è la posizione dei piedi.
- Nrtya (danza espressiva): sono le gestualità assunte dalle mudra delle mani, dei piedi e del corpo che esprimono una particolare bhava, o emozione, in una melodia composta di rasa, o sentimento, di tala, o ritmo, e di laya, o battito.
- Natya: fusione di Nrtta e Nrtya.
Scopo della danza è di parlare della grandezza della divinità, mimarne gesti e vita, renderle grazie, ma anche mettere in guardia chiunque voglia tradirne la fiducia.
Per questo un’intera narrazione è divisa in diversi momenti: il “prologo” è costituito dall’apertura della danza attraverso l’invocazione alla divinità, eseguita con movimenti atti a “far fiorire il corpo” per prepararlo cioè al numero seguente, e dalla presentazione della ritmica attraverso il battito dei tamburi; lo “svolgimento” si apre con una danza interpretativa di sentimento religioso o erotico per svilupparsi poi nel numero più interessante, ma anche più difficile dell’intera esibizione che, dopo diverse sequenza assai impegnative, raggiunge il culmine per poi concludersi con gesti di mani ed espressioni del corpo.
La parte finale del Bharatanatyam prevede la recitazione di un breve verso da parte della danzatrice che sta in piedi e, senza musica, illustra con occhi e mani il significato del verso.
Praticare questo tipo di danza non è affatto facile come può sembrare: i movimenti angolari e simmetrici, i ritmi serrati e la coordinazione di mani, braccia e mimica facciale per descrivere scene divine implica una concentrazione e una prestanza fisica non indifferente. Ma la gratificazione che deriva dall’apprendere movimenti così diversi da quelli dei nostri balli e il senso di compenetrazione con una qualche divinità naturale per la quale si danza quasi a sua somiglianza ripagano di tutta la fatica fisica lasciata sul parquet. E se ce l’ho fatta io…
di Clara Amodeo