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Susanna Camusso 2012, Luciano Lama 1978: sono passati più di 60 anni, ma il diritto al lavoro è ancora là da venire

Pubblicato il 31 gennaio 2012 by redazione

“Quante differenze dagli anni di Lama: oggi la precarietà è il primo problema”

lettera a Rebubblica di SUSANNA CAMUSSO, Segretario generale della Cgil (30 gennaio 2012)

CARO DIRETTORE nel suo editoriale, del 29 gennaio 2012, cita un’intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione “programmatica” dell’accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell’Eur.

La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall’inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d’acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.

La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei “capitalisti”, a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.

Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l’idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.

Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.

Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.

Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell’intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera “assicurazione” o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.

Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.

A noi è chiara l’emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l’età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro. Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all’immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.

Il coro sull’importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l’assurdità che sarebbe per colpa dell’articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l’occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.

Per noi l’urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall’intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l’emergenza con l’idea che “qualunque cosa può essere fatta”.

Siamo i primi ad apprezzare che l’Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l’equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il ” nuovo” con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma “salvare il soldato Ryan”. Se sarà così, non si salverà l’Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie. Questa è un’ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l’abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l’orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell’industria in cinque anni.

 

STRALCIO DELL’INTERVISTA A LUCIANO LAMA DEL 1978

Stralcio di una lunga intervista a Luciano Lama, del gennaio del 1978, allora segretario generale della Cgil. Anno che ebbe il suo culmine col rapimento di Aldo Moro. Lama parlava in quell’intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti Cgil, Cisl e Uil. In quegli anni furono i sindacati e le classi operaie che difesero la democrazia del paese contro le Brigate Rosse e lo stragismo di Gladio e della P2.

* * *

Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati.

Ebbene, se vogliono esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea. La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento.

Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d’una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.

I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra. Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l’assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.

Alla base di tutto però c’è il problema dello sviluppo. Se l’economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio “particulare” in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un’alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell’avviare un’intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.

Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.

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Quale futuro per i giovani. Lo abbiamo chiesto ad Antonio Pizzinato.

Pubblicato il 15 gennaio 2012 by redazione

Una testimonianza di Antonio Pizzinato, ex segretario generale nazionale della CGIL, alla metà degli anni ’80 per fare qualche previsione sul futuro.

 Cosa ricorda degli anni ’70 a Sesto San Giovanni?
“Le grandi lotte fatte nel ’66, ’67, ‘68 fino all’autunno caldo del ’69: le 40 ore, parità tra operai e impiegati, sicurezza sul lavoro, lo statuto dei diritti dei lavoratori e la realizzazione del Servizio Sanitario. Il momento più alto fu l’elezione dei 1300 delegati sindacali, sulla base del nuovo statuto dei diritti dei lavoratori, la legge 300 del 1970 e la costituzione del SUM, Sindacato Unitario dei Metalmeccanici, che anticipava la Federazione Unitaria Nazionale e la costituzione della Federazione Lavoratori Metalmeccanici.”

Come evolve nel tempo il distretto industriale di Sesto?
“Sesto era la città delle fabbriche, a partire dalla prima colata della Falck nel 1906 e cessa nel ‘96 con l’ultima colata. Nel mezzo, negli anni ‘30, i lavoratori erano il doppio degli abitanti, più di 25.000.
Fra i ricordi, la mia prima trattativa per l’OSVA che chiudeva senza pagare gli stipendi. Ci si accordò allora con il genero di Valsecchi per una indennità straordinaria. In pratica gli operai continuarono a produrre vasche da bagno di ghisa per un altro mese, che vennero poi consegnate ad una banca per la vendita e con i proventi furono pagati gli stipendi arretrati e l’indennità di fine rapporto. Pochi mesi dopo, in viale Marelli, al posto della OSVA, sorgeva il Colosseo. La seconda importante trattativa fu quella con Intersind a Milano per la chiusura della Breda Ferroviaria senza licenziamenti.
Le battaglie degli anni successivi furono per il ‘salario garantito’, la CGI all’80%, contro i licenziamenti alla Magnetti Marelli A.”

Che destino auspica per le aree industriali dismesse a Sesto? Lussuose residenze come quelle della Campari o progetti innovativi di incubazione aziendale?
“Mi auguro che si pensi a insediamenti di unità produttive innovative, come i distretti ex Breda, Pirelli Sapsa, ex Falck Concordia e collaborazioni con l’Università, per costituire un Centro di ricerca e di proposta del nuovo.”

Quale futuro vede per i nostri giovani, laureati e non, stoppati sul nascere da anni di stage formativi gratuiti.
“Per la prima volta, dopo la Liberazione, assistiamo ad un peggioramento delle condizioni di lavoro delle nuove generazioni. E’ quindi necessario ripensare ai tipi di contratto nazionale, che da 400 vanno unificati in un massimo di 12- 15. Io facevo l’apprendista, ma ogni 6 mesi andavo avanti e dopo 3 anni ero un operaio qualificato e poi specializzato.”

Ma chi se ne deve occupare? Ho l’impressione che manchi la comunicazione, che il sindacato oggi aspetti che il lavoratore arrivi da lui invece di andare a cercarlo.
“Quando arrivai a Sesto la FIOM contava 4.000 iscritti. 10 anni dopo, grazie ai nuovi rapporti stabiliti, erano quasi 29.000. Certo il sindacato era sempre aperto, anche la domenica fino a mezzogiorno.
Ora i lavoratori, dispersi in piccole o microscopiche realtà produttive, vanno cercati e promossi incontro serali nei quartieri, per costruire le piattaforme rivendicative che, nella diversità di professioni e nella forte mobilità di oggi, riportino parità di diritti sociali e retributivi.”

Ma come costruire un paese di diritto senza un piano di sviluppo economico?
“Da un mio studio economico-industriale della Lombardia, emerge che il numero degli attuali lavoratori è pari a quello del 1951, ma negli anni ‘70 l’industria era il 70% della forza produttiva regionale, oggi è solo il 30%. Il problema degli investimenti e dello sviluppo è a monte delle condizioni di lavoro. Il cambiamento epocale a cui assistiamo, e che andrà avanti ancora,  riguarda tutto il mondo e determina un profondo mutamento nei rapporti e nelle attività lavorativi. Il sindacato deve costruire una strategia – che coinvolga, in piena autonomia, anche le forze politiche  e culturali – che porti ad assicurare, rispetto al cambiamento economico-produttivo, e dei “mondi del lavoro”, parità  ed eguaglianza di diritti contrattuali, sociali e civili e una strategia per affrontare e uscire dalla crisi con la coesione sociale  ed una effettiva capacità di governo delle trasformazioni.”

In quale modo possiamo contrapporci alla mancanza di gestione dei problemi da parte delle istituzioni?
“Quando ero ragazzo, Di Vittorio mi insegnò che per conquistare dei diritti occorreva sì una strategia generale, ma al contempo, in relazione ai propri rapporti di forza, ci si doveva dare obiettivi intermedi.
Nel ‘52 Di Vittorio propose lo statuto dei lavoratori, ma non si fermò ad aspettare. Disse ‘basta licenziamenti per maternità’ e si fece la legge e nel ‘60 disse ‘basta lincenziamenti per matrimonio’ e si fece un’altra legge e nel ‘70 si conquistò lo statuto.”

E chi porterà avanti queste battaglie?
“La CGIL al prossimo congresso dovrà affrontare questi temi.”

di Adriana Paolini

Biografia di Antonio Pizzinato
Nato a Caneva, Friuli, nel 1932, da famiglia contadina, nel 1947, a 14 anni, trasferitosi a Milano lavora come operaio alla Borletti. Attivista della CGIL, nel 1954 è eletto membro della Commissione Interna. Nel 1964 è responsabile FIOM-CGIL Sesto, nel 1975, Segretario Fiom-Cgil provinciale, poi della Camera del Lavoro di Milano e della Cgil Regionale Lombardia.
La sua carriera culmina in Segreteria nazionale dal 1984 al ’91 con l’elezione a Segretario generale della CGIL, nel 1986, fino al 1988. Nel contempo era Consigliere CNEL e Vice Presidente CES – Confederazione Europea dei Sindacati-.
Nel 1992 è eletto deputato e nel 1994 consigliere comunale di Sesto, poi  nel 1996 al Senato, Sottosegretario al Lavoro nel primo Governo Prodi. Quindi  vicepresidente della Commissione sulle “morti bianche”.
Attualmente è Presidente regionale ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – Lombardia.

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