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Pechino città Ecologica

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Pechino città Ecologica

Pubblicato il 12 gennaio 2020 by redazione

La Grande Muraglia Verde: il nuovo gigantesco polmone di Pechino

deserto del Gobi

Deserto del Gobi.

Pechino si è ritrovata a far fronte a due grandi problemi: il primo consiste nell’avanzamento del deserto del Gobi, con l’incalzante ritmo di 20-30 metri annui di sabbia e dune che avanzano a velocità tripla rispetto al secolo scorso (ogni anno in Cina si spendono l’equivalente di 10 miliardi di dollari per tentare di contrastare la desertificazione del territorio); il secondo problema, ormai tristemente noto a tutti, è l’inquinamento dell’aria e i conseguenti cambiamenti climatici che si fanno sentire con il clima che sembra impazzito. Catastrofiche siccità e precipitazioni annue diminuite dal 2001 ad oggi del 37%, aumento del vento e delle tempeste di sabbia, per non menzionare le polveri sottili e le emissioni inquinanti del carbone usato nell’industria e per il riscaldamento; tutti fattori che hanno causato danni economici incalcolabili. La terra ormai arida si rifiuta di produrre e ha spinto oltre 400 milioni di contadini eco-profughi a trovare lavoro altrove. Si tratta di una situazione che diventa sempre più estrema col passare degli anni, causata dall’avidità e dalla prepotenza dell’uomo a cui ora non resta altra scelta che correre ai ripari.

grande-muraglia-verde-cinese

La grande muraglia verde cinese.

Non volendo però spostare la capitale millenaria –come si farebbe normalmente fatto in una situazione simile e come è già accaduto altrove in passato- e non avendo i mezzi per contrastare i cambiamenti climatici, a Pechino hanno deciso di creare la cosiddetta “Grande Muraglia Verde”, ovvero di dar vita artificialmente alla più grande foresta asiatica con 300 milioni di alberi piantati nella regione di Hebei, a nord e ad ovest della capitale, per un totale di 250 mila kilometri quadrati. Si tratta senza alcun dubbio di un progetto ambizioso che sfida i limiti della natura e dell’uomo; un progetto senza precedenti. Come annunciato dal premier Wen Jiabao, saranno investiti circa 30 miliardi di dollari per la riforestazione di pioppi, faggi, abeti e betulle e saranno deviati ben 24 fiumi per garantire l’irrigazione dell’area. Nonostante la prudenza mostrata dagli scienziati nei confronti del progetto, i tremila membri del parlamento sono fiduciosi nella buona riuscita dell’operazione. Infatti ripongono nel progetto la speranza che la foresta possa portare umidità, respingendo così il deserto e inducendo la formazione di nuvole e lo scarico di piogge, oltreché la diminuzione dell’inquinamento. Il sindaco ha quindi chiamato tutta la popolazione ad agire: ognuno deve comprare e piantare lungo la Grande Muraglia, situata a pochi kilometri dalla periferia dalla capitale, almeno una pianta. Quest’area iniziale prenderà il nome di “Bosco del Millennio”. Il vice direttore dell’Amministrazione forestale dello Stato, Zhang Yongli, ha comunicato in una conferenza stampa che saranno mobilitate ogni anno 650 milioni di persone al fine di riuscire nell’opera di riforestazione per un totale di ben 26 miliardi di alberi nei prossimi dieci anni. Dal 2011 ad oggi 614 milioni di cinesi hanno già preso parte all’operazione di rimboschimento volontario in tutto il paese, piantando 2,51 miliardi di alberi e occupando un area di 6 milioni di ettari. Secondo le previsioni entro il 2020 si dovrà raggiungere la considerevole cifra di 50 milioni di ettari della neo area forestale, fino a coprire il 23 % della superficie totale delle foreste cinesi. Obiettivo che a questa velocità potrebbe essere raggiunto già entro il 2015. Questo dimostra che anche imprese titanicche come queste non sono poi così impossibili e che con costanza e sacrificio possiamo davvero migliorare il mondo in cui viviamo, e non solo distruggerlo.

Un nuovo sistema di misurazione delle emissioni di CO2?

Pare che il progetto non si limiti solo a rallentare l’avanzata del deserto o a ridurre l’inquinamento. Si tratta di un progetto ben più ampio in cui la foresta diventerà un vero e proprio sistema per monitorare con precisione le emissioni di gas serra, permettendo così l’ideazione e la realizzazione di progetti volti alla riduzione di queste emissioni.

Il vice-presidente dell’Accademia delle scienze della Cina, Ding Zhongli afferma inoltre che: “I ricercatori redigeranno delle liste di emissioni di gas serra per valutare quantitativamente le emissioni di anidride carbonica generate dalla natura o dalle attività umane. La Cina progetta anche di mettere in atto un sistema per sorvegliare il livello di CO2 in atmosfera attraverso l’analisi satellitare, la sorveglianza aerea e al suolo e la modellizzazione atmosferica. Questo processo di ricerca dovrebbe fornire alla Cina delle informazioni più solide per poter trattare i dossier legati al cambiamento climatico, in particolare la riduzione delle emissioni di carbonio ed i negoziati internazionali”.

Infatti grazie a questa mossa la Cina non dovrà più essere sottoposta alle stime internazionali sulle sue emissioni, ma sarà in grado di effettuarle autonomamente.

Ding ha anche comunicato all’agenzia ufficiale Xinhua che “La Comunità scientifica cinese si impegnerà sul sequestro del carbonio e gli impatti del cambiamento climatico nelle diverse regioni, al fine di preparare la Cina all’adattamento climatico ed allo sviluppo verde. A causa del riscaldamento climatico, il nord-est della Cina avrà probabilmente migliori condizioni per la coltura del riso, mentre il nord della Cina soffrirà della diminuzione delle precipitazioni e della siccità. Valuteremo gli impatti del riscaldamento climatico su un periodo più lungo in 5 regioni per fornire dei consigli per l’adattamento”.

Secondo un rapporto pubblicato a novembre del 2011 dalla seconda Assemblea nazionale cinese sul cambiamento climatico: “Aumentare i “pozzi di carbonio” del Paese, vale a dire l’utilizzo delle foreste e di altre risorse naturali e umane per catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera, è molto importante per la riduzione del carbonio”. Esattamente come già sostenuto da Ding.

Auto, bus e taxi elettrici: la rivoluzione elettrica cinese

Quindici miliardi di dollari investiti per sviluppare entro il 2020 un industria che punti sulla green economy: stiamo parlando dei veicoli elettrici.

Già da alcuni anni in Cina è in corso la sperimentazione sull’utilizzo di taxi elettrici che colleghino Pechino ad Hangzhou e Shenzhen. Pare che il progetto abbia avuto un notevole successo sia tra la popolazione che tra le varie aziende al punto che anche Warren Buffett ha concesso un finanziamento alla maggiore casa produttrice di batterie elettriche al mondo, l’azienda cinese BYD. Azienda che si occupa già della produzione dei bus e taxi elettrici circolanti in Cina oltre che dell’organizzazione dei trasporti pubblici.

E proprio sui bus elettrici sembra aver voluto scommettere la BYD: a febbraio aveva incrementato con 1500 autobus elettrici la sua “flotta” di trasporti pubblici; già allora la più numerosa al mondo. Inoltre la città di Shenzhen è stata la prima in Cina a sovvenzionare i veicoli elettrici oltre che lanciare, sempre per prima, la vendita di auto elettriche a privati. Ovunque ci si volti, in Cina si vedono predominare i motorini elettrici, neo-sostituti delle vecchie biciclette. Complice anche la spinta del governo verso la nuova green-Era, il futuro della Cina è ormai deciso: la tecnologia deve essere ecocompatibile ed ecosostenibile così da poter offrire innovazione e nuovi posti di lavoro senza però “porre nuove barriere al commercio verde”, come affermato dal presidente HuJintao al lancio del dodicesimo piano quinquennale cinese all’insegna dello sviluppo verde. “ La Cina darà priorità assoluta al settore verde per attirare investimenti stranieri” questo afferma il presidente Hu Jintao, promettendo che la produzione totale annuale dell’industria ambientale cinese raggiungerà i 2mila miliardi di yuan entro il 2015, con un investimento tra il 2011 e il 2015 di oltre 3mila miliardi di yuan.

Inoltre il presidente ha dichiarato che “La forte domanda verde e l’ambiente d’investimento solido della Cina forniranno un mercato vasto e grandi opportunità di investimento per le imprese di tutti i paesi, in particolare quelli della nostra regione”. Infatti il dodicesimo piano quinquennale prevede ben 3 trilioni di yuan di investimento per la tutela dell’ambiente tra il 2011 e il 2015, con una crescita del settore pari al 15-20%  creando così oltre 10 milioni di posti di lavoro.

Per quanto riguarda il futuro nessuna brutta sorpresa. I progetti green proseguiranno e la continuazione della trasformazione economica sarà favorita, come ha comunicato Li Keqiang, probabile prossimo primo ministro cinese: “La Cina prenderà misure generali nei prossimi cinque anni per diminuire il consumo di energia per unità del prodotto interno lordo del 16% e aumenteremo il valore aggiunto del terziario di 4 punti percentuali, che promuoveranno vigorosamente la trasformazione economica”.

Ovviamente per riuscirci sarà necessario intensificare gli sforzi al fine di migliorare l’industria, rendendola più ecocompatibile e quindi a bassa emissione di carbonio, e  ridurre l’emissione di gas inquinanti. Come già affermato da Li, in futuro il governo continuerà a favorire “una politica differenziata e graduata sui consumi energetici in grado di spingere per la crescita verde”.

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Tianjin Eco-City.

Tianjin Eco-City:di 30 kilometri quadrati e in grado di ospitare fino a 350 mila abitanti, è stata definita la prima città completamente ecologica.

Si trova a soli 150 km da Pechino e a 30 da Tianjin, in una zona precedentemente adibita a discarica. La sua costruzione è iniziata nel 2008, grazie ad un accordo tra il governo cinese e singaporiano, e se ne prevede l’inaugurazione nel 2020, anche se i primi abitanti si sono già insediati. Lo scopo della realizzazione di quest’opera è di dimostrare che qualsiasi luogo può essere rinnovato dandogli nuova vita, o come ha dichiarato Ho Tong Yen, “che è possibile ripulire un’area degradata e renderla utile e vivibile, senza privare il territorio di risorse invece utili e vivibili”.

Probabilmente grazie anche alla crescente attenzione sull’importanza dello sviluppo sostenibile questo progetto risulta efficace anche nella ricerca di soluzioni alternative alla rapida urbanizzazione e alla carenza di posti di lavoro a cui stiamo assistendo. E’ previsto inoltre, oltre alla creazione di posti di lavoro “in loco”, l’uso di trasporti ecologici e la progettazione di una pianta della città che favorisca la circolazione di pedoni e ciclisti.

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Tianjin Eco-City.

“Una città fiorente, socialmente armonica, ecologica e a basso consumo di risorse”. Questa è la definizione data dagli allora primi ministri cinese e singaporiano Wen Jiabao e Lee Hsien Loong nel giorno dell’inaugurazione dei lavori di costruzione e di bonifica. Frase esemplificativa del valore del progetto e si spera di ispirazione nella realizzazione delle nuove opere in futuro.

Ma a livello internazionale cosa succede? Pechino è solo un esempio isolato o fa tutto parte di un grande progetto a livello mondiale?

Sono passati 20 lunghi anni dall’ultima conferenza mondiale tenutasi a Rio de Janeiro. Lo scopo principale era quello di dare inizio ad una nuova politica internazionale volta al miglioramento dell’ambiente in cui viviamo. E ora con l’ incontro appena avvenuto dal 20 al 22 giugno, sempre in Brasile, dobbiamo ammettere che dei cambiamenti prospettati, i risultati sono stati ben inferiori alle aspettative. Dal 1992 ad oggi, su questo fronte almeno, nessun sostanziale passo avanti.

Come riportato sul “Corriere della Sera” il nuovo documento unitario finale sottoscritto da 193 stati “riafferma gli accordi firmati vent’anni fa su clima e biodiversità, avanza appena un po’ sul «sociale», ponendo subito la lotta alla miseria come priorità mondiale, e si impegna a lanciare non meglio definiti «obiettivi di sviluppo sostenibile». Si lascia alle future assemblee Onu la decisione se creare una vera e propria agenzia dell’ambiente, configurando un upgrade dell’attuale Unep (che è appena un programma). Non ci sono nuovi fondi per l’economia verde (come avevano chiesto i Paesi in via di sviluppo), né decisioni sulle divisioni di responsabilità tra i Paesi che più inquinano. Schiacciata tra la crisi finanziaria del Nord del mondo e le ambizioni di crescita del Sud, Rio+20 finisce per non decidere soprattutto che cosa significa lo sviluppo sostenibile. Chi lo deve finanziare e chi deve sostenere i costi di un mondo meno inquinato”.

Nonostante la penuria di risultati portati dal congresso, però, per fortuna c’è chi risulta essere più sensibile alle esigenze ambientali. Ci potrà anche stupire, ma si tratta proprio di tre paesi ex poveri che spinti probabilmente da interessi urgenti sono però in grado di tradurre in azioni concrete i loro progetti: si tratta di Brasile, India e Repubblica Popolare Cinese.

foreste mangrovie

Foreste Bangladesh.

Non si tratta di casi isolati. Anche altri Paesi in via di sviluppo stanno adottando interessanti misure di riforestazione e di miglioramento ambientale, come riportato da un recente rapporto della FAO. Tra questi spiccano i progetti per la conservazione delle mangrovie in Bangladesh, la prevenzione degli incendi boschivi a Samoa ed i programmi di rimboschimento ad Haiti, oltre alla piantumazione di verde in Bhutan, Filippine e Vietnam. Inoltre, come ha affermato Eduardo Rojas “Vorrei sottolineare quel che fa l’India che ha ancora una crescita importante della popolazione. Le foreste in India sono in crescita di 300.000 ettari l’anno”. Bisogna però ricordare che negli anni ’90 l’area Asia-Pacifico aveva una diminuzione della superficie forestale pari a 0,7 milioni di ettari l’anno – superficie totale di 740 milioni di ettari, ovvero il 18% di tutta la superficie forestale mondiale, dato risalente al 2010-. Fortunatamente questa tendenza si è invertita fino ad un picco di crescita pari a 1,4 milioni di ettari ogni dodici mesi nel periodo 2000-2010. Lo scopo dell’India è quello di raggiungere entro la fine del 2012 una superficie boschiva totale del 33% , anche se l’impresa si preannuncia impossibile visto che nel 2010 le foreste coprivano solo il 25% dell’intera India e che l’anno volge ormai al termine. Ciò non di meno si tratta di un progetto molto positivo che col tempo potrà essere sicuramente realizzato, anche se ovviamente non entro il 2012.

Anche in Brasile la popolazione si sta sensibilizzando sull’argomento. Dopo anni di brutale disboscamento i contadini hanno capito che è anche nel loro interesse proteggere la natura e gli alberi. Per questo motivo è nato un progetto che prevede la crescita di nuovi alberi proprio sui terreni coltivabili riportando così in primo piano anche la coltivazione del cacao. Ma come ha saggiamente commentato un agronomo brasiliano intervistato dal sito TMNews.it  “Non si può far rinascere una foresta dall’oggi al domani”. Per questo motivo, sono nate in contemporanea anche altre iniziative tra i contadini, come quella di ridurre, fino ad arrivare alla completa abolizione, l’uso di pesticidi riuscendo così ad eliminare le emissioni di carbone.

Questo dovrebbe dimostrarci che grazie alla collaborazione tra industria, politica e non ultima l’agricoltura –anche se tutti e tre spinti ciascuno dai propri interessi- è davvero possibile intervenire efficacemente con progetti anche a lungo termine. Inoltre grazie alle iniziative portate avanti in Cina, Brasile ed India abbiamo l’occasione di scoprire che ci sono Paesi che avvertono la forte necessità di salvare il proprio patrimonio forestale, aiutando in questo modo, anche se solo come effetto secondario probabilmente, tutto il pianeta.

di Mariacristina Carboni

Fonti:

Fonte: http://www.greenreport.it/_archivio/index.php?lang=it&page=default&id=8815

Fonte: http://www.unric.org/it/attualita/27276-fao-si-apre-lanno-internazionale-delle-foreste

Fonte: http://www.fao.org/docrep/013/i2000e/i2000e00.htm

Fonte: http://www.corriere.it/ambiente/12_giugno_20/rio-ambiente-piu-venti_a3c4c99e-baa0-11e1-9945-4e6ccb7afcb5.shtml

Fonte: http://life.wired.it/electricroad/2012/08/03/cina-auto-elettrica-byd-hu-jintao-green-economy.html?page=1#content

Fonte: http://www.mentalitasportiva.it/home/mentalita-sostenibile/brasile-cina-e-india-i-nuovi-grandi-si-incontrano-sul-rimboschimento.html?print=1&tmpl=component

Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=13676

Fonte: http://www.tianjinecocity.gov.sg/

Fonte: http://62.77.46.214/cgi-bin/ricerca/search.php?s=Non+si+pu%C3%B2+far+rinascere+una+foresta+dall%27oggi+al+domani&x=0&y=0 (l’articolo che ho utilizzato come fonte non è al momento disponibile, vi lascio comunque questo link nel caso dovesse tornare fruibile in futuro)

Per approfondire e avere qualche dato in più (non solo riguardo alla Cina):

–         http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=13436

–         http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=13405

–         http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=14630&cat=Energia (USA)

 

Commenti (1)

Corsa alla terra.. il Brasile tra “land grabbing” e sviluppo sostenibile.

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Corsa alla terra.. il Brasile tra “land grabbing” e sviluppo sostenibile.

Pubblicato il 28 febbraio 2013 by redazione

amazzoniaIl Land Grabbing è un fenomeno che ha acquisito grande rilievo negli ultimi anni. È difficile stimarne le dimensioni e la portata. Altrettanto difficile è comprenderne le possibili conseguenze. Interessante, però, è provare ad approfondire la storia socio-economica e politica di un paese che ha visto da vicino l’emergere di questo fenomeno. Il caso a cui si fa riferimento è quello del Brasile, che ha attraversato diverse fasi politiche e ha alternato decisioni opposte nel modo di approcciarsi all’intervento degli investitori esteri in relazione alla vendita dei propri terreni.

Il caso brasiliano: contesto socio-politico ed economico.

Il caso brasilianorisulta essere particolarmente interessante per diverse motivazioni. Innanzitutto il paese sudamericano è un paese emergente, destinato, insieme a pochi altri, ad aumentare il proprio peso specifico nel palcoscenico socio-politico ed economico mondiale.

Il Brasile è la sesta più grande economia mondiale e il secondo più grande produttore agricolo[1]. Tuttavia la distribuzione appare notevolmente iniqua: l’1,5 % di proprietari terrieri occupa il 52,6 % di tutte le terre agricole[2].

Oltretutto, è necessariosottolineare che la maggior parte delle terre incoltivate del globo si trova nell’Africa Subsahariana e in America Latina[3].

Ad ogni modo, il Brasile, nel corso degli anni, ha vissutole pratiche di Land Grabbing in un ruoloduplice e, sotto alcuni aspetti, ambiguo.

Infatti, da un lato, ha accolto e/o ‘subito’ (e, in seguito, limitato) l’arrivo degli investitori esteri, i quali hanno acquistato terreni brasiliani, aumentando notevolmente la propria presenza nell’economia del paese.Dall’altro, ha esportato il proprio sistema di agricoltura in diverse zone dell’Africa, soprattutto in Mozambico, ma anche del Sud America.

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Luiz Inàcio Da Silva.

Per quanto riguarda il ruolo di paese ‘ricevente’, nel giro di dieci anni, dal 1995 al 2005, il capitale internazionale nell’industria agricola del paese sudamericano è aumentato dal 16% al 57%[4]. Questo tipo di attività èfacilitato da una serie di modifiche al regolamento relativo alle terre e al rapporto con gli investitori stranieri. Anche l’AGU, Advocacia General da Uniao (Istituzione brasiliana responsabile per l’esercizio delle legge pubblica in ambito federale), ha riconosciuto che lo stato brasiliano, nel corso degli anni, ha perso il controllo sull’acquisizione e la concessione delle terre[5].

Con l’arrivo del presidente Luiz Inàcio Da Silva, conosciuto anche come ‘Lula’ e il cui mandato è durato dal 2003 al 2011, il Brasile intraprende, però, una progressiva limitazione all’acquisizione della terra da parte di investitori stranieri, attraverso la creazione di un’apposita commissione, nata nel 2007. Nell’agosto del 2010 l’approvazione di una nuova legislazione restringe le acquisizioni di appezzamenti di terra da parte di compagnie controllate per il 50 % (o più) da capitale straniero e limita l’ammontare di terra, disponibile per l’acquisto,ad un appezzamento non maggiore di un quarto della ‘municipal area’ totale. Ad ogni modo, sono ancora in corso valutazioni del governo brasiliano relative al rapporto da mantenere con gli investitori stranieri e alle modifiche legislative da effettuare.

Brasile come investitore.

Il Brasileassume, però,come detto, una duplicità di ruolo nel panorama mondiale dell’acquisizione dei terreni agricoli. Infatti, limitate le entrate di capitale straniero nella propria economia agricola, il governo brasiliano ha portato avanti politiche di ‘land deal’ in terre straniere. Emblematico come il Brasile abbia investito, ad esempio, inParaguay: su 31 milioni di ettari di terra arabile è stato concesso il 25% a investitori stranieri e il 15% ai soli brasiliani.

La duplicità del ruolo del governo brasiliano ha portato ad un concatenarsi di eventi che hanno interessato diverse regioni del Sud America. In particolare, la crescita della produzione di soia negli anni ’70-’80 è stata responsabile del dislocamento di 2,5 milioni di persone nello stato di Paranà e di 300.000 nel Rio Grande do Sol[6]. La maggior parte di queste persone, costrette a spostarsi dalle proprie abitazioni, sono poi emigrate in Paraguay, acquistando terre. Questi contadini, provenienti dal Brasile, si sono stabiliti ai confini tra Basile e Paraguay. Tuttavia, gli affaristi brasiliani hanno continuato a comprare anche queste terre paraguayane. La produzione di soia occupa ora il 29% di tutte le terre agricole paraguayane ed è causa dell’aumento di povertà di quei contadini costretti alla marginalizzazione e alla disoccupazione nelle aree urbane[7].

L’acquisizione di terre estere da parte del Brasile non si è limitata ai confini continentali, come dimostra il caso del Mozambico in Africa.

Il Mozambico èil 184esimo paese più impoverito del mondo, su 187 paesi[8]. Nel 2009, il 55% della popolazione totale vive sotto la soglia di povertà, con meno di mezzo dollaro al giorno. Gli scambi commerciali tra i due paesi si sono intensificati nell’ultimo decennio e nel 2011 sono aumentati del 101,2 % rispetto all’anno precedente, raggiungendo un ammontare di 85,3 milioni di $[9]. Questi scambi, però, appaiono del tutto asimmetrici: infatti, 81,2 milioni di $ sono relativi alle importazioni dal Brasile al Mozambico e solo 4,1 milioni di $ riguardano le esportazioni dal Mozambico al Brasile.

Il Mozambico possiede circa 36 milioni di ettari di terra arabile e l’80% della popolazione lavora nel settore agricolo[10]. Con l’intensificarsi dei rapporti tra i due paesi, diversi imprenditori brasiliani hanno avanzato proposte per poter essere produttivi in Mozambico prima del 2015, in settori come quello della soia, della canna da zucchero, dell’etanolo. Esperienze di questo tipo si sono già viste in Mozambico, ad esempio, nel 2007, quando il gruppo minerario brasiliano denominato Vale ha acquistato 23,780 ettari di terra africana, costringendo 1313 famiglie – circa 5000 persone – a riallocarsi in altre zone e lasciare le proprie abitazioni[11].

L’intenzione da parte del governo del Mozambico pare confermarsi nella volontà di concedere al Brasile sei milioni di ettari per 50 anni, con eventuale diritto di prolungare di altrettanti anni, una volta terminato il primo mezzo secolo di acquisizione[12].

DisboscamentoConseguenze ambientali.

Di certo l’accaparramento della terra, prima, e lo sfruttamento della stessa, poi, provocanoconseguenze di diversa portata. Se da una parte accresce la dimensione della protesta per la violazione dei diritti umani e per i diritti dei popoli, dall’altra, sorgono alcune riflessioni anche in relazione al degrado ambientale e al consumo del suolo.

La zona amazzonica, ad esempio, subisce da anni un processo di disboscamento.

Le politiche del governo Lula sembrano aver dato alcuni frutti nella lotta al disboscamento, tuttavia, come si è visto, sono in corso alcune valutazioni della legislazione che potrebbero portare al modificarsi dello status quo e all’evolversi di uno scenario differente. Inoltre, bisogna sottolineare che, sebbene stia diminuendo, il disboscamento è ancora in atto e, sommato alle stime degli anni precedenti, la situazione appare ancora preoccupante.

Il modello agricolo brasiliano prevede che la maggior parte dell’area forestale trasformata in zona agricola diventi area destinata al pascolo e agli allevamenti. Nel 2002, ad esempio, l’area per la produzione di soia risulta di 4,9 milioni di ettari. Per il pascolo si stimano valori che superano di 10 volte quelli della coltivazione di soia[13]. Inoltre, dal 1990 al 2010 il numero di bestiame in Brasile è quasi triplicato (da 26 milioni a 70 milioni) e, di questo, l’80% è in Amazzonia[14]. Facilmente si comprendono gli effetti legati alle esternalità degli allevamenti: inquinamento, consumo di risorse, gas nocivi, etc.

La crescita della ‘produzione’ di carne ha portato alla perdita di oltre 700.000 kmq di foresta[15],senza contare i dati relativi agli incendi illegali spesso correlati al successivo utilizzo del suolo per attività di pascolo.

Oltre all’aspetto relativo alle aree destinate al pascolo, di particolare importanza è anche l’impatto della monocoltura di soia, spesso utilizzata come cibo per il bestiame. Infatti, è stato dimostrato[16]come il disboscamento della foresta amazzonica sia correlata all’espansione di questo cereale.

Tra il 2003 e il 2008, tra l’altro, vi è stata un incremento di 39.000 km quadrati dell’area destinata alla produzione di soia. Cambiando modalità e tipo di coltura la deforestazione nell’area in considerazione si ridurrebbe di 26.000 km2(40% in meno).

Questi sono alcuni dei dati conseguenti dal modello brasiliano di agricoltura degli ultimi decenni.

9 passi dentro e fuori dal Land Grabbing

ANNO Evento – Dato
Anni ’70-‘80 Grazie a finanziamenti del Giappone e delle Banche private accresce esponenzialmente la produzione industriale estensiva di soia.
Anni ’80-‘90 Brasile diventa uno dei maggiori produttori di soia, suscitando l’interesse di corporations come ADM, Cargill, Monsanto, Dupont.
1992 2,6 milioni di ettari di terreno sono gestiti da corporations straniere.
1995 Modifiche al regolamento relativo al rapporto tra terre e investimenti stranieri (in particolare, relativamente all’articolo 171 dalla Costituzione) facilitano l’ingresso di questi ultimi negli affari legati all’agricoltura del Brasile.
1995-2005 Capitale internazionale nell’industria agricola aumenta dal 16% al 57%.
1998 L’allora Presidente brasiliano Cardoso decide di far rinunciare al governo federale ad ogni controllo effetto sull’acquisto di terra da parte di compagnie straniere in Brasile.
2007 Una commissione, controllata direttamente dal Presidente Lula, è incaricata di ristabilire limiti alle forme di Land Deal.
2010 Viene approvata una nuova legislazioneche restringe le acquisizioni di appezzamenti di terra da parte di compagnie controllate per il 50% o più da capitale straniero e limita l’ammontare di terra disponibile per l’acquisto.
Luglio ‘12 Viene approvato il Report del deputato Marcos Montes per tutelare la libertà degli investimenti stranieri. È tuttora in corso una considerazione del governo per un’eventuale modifica legislativa.

Un modello da rivedere

La domanda riguardante la vendita di terra – e cioè se essa sia da considerare una possibilità di progresso per i paesi più poveri o un disastro ecologico e sociale per le popolazioni – difficilmente porterà ad una risposta univoca.

L’intervento da parte di investitori stranieri può certamente essere visto come risorsa per i paesi interessati (soprattutto africani e sudamericani) sia a livello economico, sia per il miglioramento della produttività agricola.

Ciò che si può notare, però, è che il modello proposto dal Brasile – che lo stato federale sudamericano intende esportare anche in Mozambico – appare non privo di problematiche: risulta contraddittorio che le stesse prassi che il Brasile ha affrontato in politica interna e risolto limitando il libero accesso degli investitori stranieri, siano poi riproposte a favore del Brasile stesso nell’approccio con uno stato estero.

Poiché il paese sudamericano, con la sua abbondanza di risorse, continuerà senza dubbio adessere un importante fornitore alimentare ed implementerà il proprio ruolo nello scenario socio-politico, sarebbe necessario che il modello di sviluppo proposto – interno ed esterno – si affermi in modo maggiormente sensibile alle tematiche ambientali.

Come si è detto, rimangono, inoltre, molte perplessità circa il rispetto dei diritti umani e dei diritti dei popoli autoctoni. Di certo, questoargomento non può essere tralasciato e merita un approfondimento più accurato.

di Tomaso Cimino

 


[1]  Inman, P. (2012) Brazil’s Economy Overtakes UK to Become World’s Sixth Largest, The Guardian: 6 March 2012.

Barbosa, J. (2011), Brazil: Senate Loosens Amazon Protections, Associated Press. 7 December 2011, in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012), Land Grabbing, Agribusiness and the Peasantry in Brazil and Mozambique, Paper presented at the International Conference on Global Land Grabbing II October 17‐19, 2012, Organized by the Land Deals Politics Initiative (LDPI) and hosted by the Department of Development Sociology at Cornell University, Ithaca, NY.

[2]DATALUTA – Banco de Dados da Luta pela Terra (2011) Brasil – Relatorio DATALUTA 2011. Presidente Prudente: NERA – Núcleo de Estudos, Pesquisas e Projetos de Reforma Agrária – FCT/ UNESP. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[3] Deininger K. e Byerlee D. (2011), Rising Global Interest in Farmland. Can It Yeld Sustainable and Equitable Benefits?, The International Bank for Reconstruction and Development/The World Bank (Report).

[4]Sauer S. and S. P. Leite. 2012. Agrarian Structure, Foreign Investment in Land, and Land Prices in Brazil, Journal of Peasant Studies, 39(3-4), 873-898 in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[5] Vaz, L. (2010), Parecer determina maior controle sobre aquisições de terras por estrangeiros. Correio Braziliense: 24 August 2010.

[6] Altieri, M. A. and E. Bravo (2009), The Ecological and Social Tragedy of Crop-Based Biofuel Production in the Americas, In: Jonasse, R. (ed.) Agrofuels in the Americas. Food First Books, Oakland: CA, 15-24.

[7] Carmo, M. (2012), Brasileiros terão que provar que terras no Paraguai são legais, diz ministro, BBC Brasil: 13 February 2012, in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[8]United Nation’s Human Development Index (2011), Human Development Report 2011 Sustainability and Equity: A Better Future for All.

[9]MRE – Ministerio das Relações Exteriores do Brasil (2012) Visita ao Brasil do Primeiro-Ministro de Moçambique, Aires Bonifácio Baptista Ali – 13 a 18 de abril 2012. Press Release, n. 103, 16 April. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[10] Republic of Mozambique. 2009. Estratégia para Reflorestamento. Minísterio da Agricultura e Direcção Nacional de Terras e Florestas, Maputo, July 2009. in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012)

[11] Mosca, J and T. Selemane (2011). El dorado Tete: os mega projectos de mineração. Centro de Integridade Pública, Maputo, November 2011 in Clements E.A. e Fernandes B.M. (2012).

[12] Groppo P. (2011), T come Terra: Mozambico e i sei milioni di ettari offerti ai brasiliani, Scirocco News. Articolo del 28-08-2011 di Paolo Groppo

Riva A. (2011), Brasile – Mozambico: la soia brasiliana emigra in Africa, L’osservatore Carioca: 14 agosto 2011

[13]United States Department of Agriculture (13 Gennaio 2004), The Amazon:  Brazil’s Final Soybean Frontier, Production Estimates and Crop Assessment Division
Foreign Agricultural Service.

[14]Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica Brazilian Institute of Geography and Statistics—IBGE (dati 2010), Sistema IBGE de Recuperacao Automatica (SIDRA).

[15]Instituto Brasileiro de Geografia e Estatistica Brazilian Institute of Geography and Statistics—IBGE (dati 2010), Sistema IBGE de Recuperacao Automatica (SIDRA).

[16]Arima E., Richards P., Walker R., Caldas M. (2011), Statistical Confirmation of Indirect Land Use Change in the Brazilian Amazon, IOP Science – Environmental Research Letters.

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Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

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Land Grabbing: lo sviluppo “tossico” del mondo

Pubblicato il 31 gennaio 2013 by redazione

congoNell’ultimo decennio è emerso con decisione un fenomeno conosciuto col nome di ‘landgrabbing’. Con tale termine s’intende l’acquisto (o l’acquisizione in concessione per molti anni) di vaste aree e appezzamenti di terreno, principalmente africane e sudamericane, da parte di pochi paesi ‘sviluppati’ o poche grandi aziende, corporations o soggetti economici multinazionali.

Il termine ‘grabbing’, che letteralmente significa ‘accaparramento’, ha assunto un’accezione negativa. Infatti, se da una parte i governi degli Stati venditori affermano che la vendita di parte della propria terra è un’eccellente possibilità di sviluppo per tutti, molte sono le preoccupazioni – sollevate soprattutto dalle ONG che lavorano nelle zone toccate dal fenomeno – relative all’uso dei terreni in questione.

original_BMZgraphLand-GrabPressioni commerciali per l’acquisto della Terra

La ricerca di terreni fertili attraverso i quali i paesi occidentali e i paesi in via di sviluppo – come ad esempio, i paesi denominati BRICS e/o BASIC: Brasile, India, Cina, Russia, Sud Africa) – possano garantire una risorsa agricola per soddisfare l’alimentazione della propria popolazione ha portato alle sopra citate pressioni commerciali sull’acquisto della terra.

D’altra parte, nel 2050, secondo i dati delle Nazioni Unite, gli abitanti del pianeta Terra saranno 9 miliardi e il rischio (e la preoccupazione degli esperti) è quello di un numero sempre maggiore di persone con scarsa possibilità di accedere alle risorse alimentari.

Oltre a ciò, la volontà dei paesi acquirenti di trarre guadagno e profitto dall’accesso a terre non disponibili nel paese di provenienza e/o accessibili solo a costi estremamente più alti, ha portato all’introduzione di monocolture, all’uso del terreno per ottenere qualsiasi materia prima in quantità utili a produrre carburanti biologici e allo sfruttamento delle zone caratterizzate da una discreta presenza di acqua, elemento definito da molti ‘oro blu’, tanto preziosa, ma, altresì, non infinita.

08.09 s01 Bodenschätze Afrika Rieger 2Gli effetti dell’arrivo degli investitori stranieri in terre come quelle africane e sudamericane sono stati diversi e particolari, di caso in caso. Di certo, però, conseguenze comuni del landgrabbing sono: l’impoverimento dei terreni a causa delle monocolture, che li privano della biodiversità necessaria per restare fertili e, alla lunga, li rendono aridi; l’allontanamento dei contadini dalla loro unica risorsa di sussistenza, cioè da terreni considerati di proprietà per consuetudine e non per diritto legale, che, invece, li attribuisce agli Stati. E ancora, il landgrabbing può contribuire all’iniqua distribuzione delle risorse alimentari prodotte dalla coltivazione dei terreni acquisiti, all’inquinamento e al danno ambientale che ha visto, per esempio, un disboscamento continuo e inesorabile della foresta amazzonica a favore dei pascoli per gli animali destinati alla produzione di carne, o finalizzato alla produzione di soia e di altre risorse per i biofuel.

Certo è che, nell’ottica delle istituzioni locali che sovente hanno la proprietà di diritto sui terreni, l’arrivo di investitori stranieri può portare a diversi aspetti positivi: dall’ingresso di capitale straniero nelle casse di economie spesso in difficoltà, all’aiuto che i paesi più ‘sviluppati’ possono apportare, in termini di esperienza, tecnologia e fondi, a sistemi considerati ‘arretrati’.

viso alberoUna concezione ambigua di progresso

Tuttavia, quello che sembra emergere è uno scenario ambiguo che può derivare da una discutibile concezione di progresso. Appare necessario non giustificare azioni dannose sia per le popolazioni locali, che per l’ambiente, sotto il ‘termine ombrello’ di sviluppo, concetto legato alla parzialità dell’Occidente, come ci ricordano le riflessioni dell’antropologo Latouche. Quest’ultimo, infatti, ha più volte sottolineato come l’idea di sviluppo, impensabile per altre popolazioni e spesso non traducibile nella lingua di queste ultime, possa diventare un termine ‘tossico’, soprattutto se in nome di questa idea si portano avanti azioni contrarie alla cura dell’ambiente e al benessere degli abitanti delle zone interessate.

D’altro canto, appaiono necessarie precise politiche mirate ad evitare che le preoccupazioni e le denunce delle ONG presenti in loco abbiano ulteriori conferme e conseguenze a livello socio-politico ed ambientale.

Occorre, probabilmente, un’ulteriore riflessione circa i diritti di autodeterminazione di quei popoli che vivono una terra appartenente a Stati troppo spesso frettolosi nel concedere ad altri il diritto di usarla.

Inaridire i terreni, sfruttarne malamente le risorse, incrementare i tassi di povertà e fame nel mondo, per combattere il problema relativo alla ‘scarsità alimentare’ di alcuni, rischia di portareal circolo vizioso di uno sviluppo non sostenibile per tutti.

di Tomaso Cimino

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