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Gli effetti del vuoto dello spazio sugli astronauti

Pubblicato il 12 marzo 2015 by redazione

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Spazio: un magnifico e pericoloso sogno

Sono ormai anni che l’uomo cerca di sviluppare tecnologie in grado di rendere la conquista dell’universo una realtà e non più un lontano sogno. Tuttavia vi siete mai chiesti se gli esseri umani sono davvero in grado di vivere nello spazio a prescindere dalla tecnologia a disposizione? Il nostro corpo riuscirebbe veramente a a sopportare un viaggio interstellare? Purtroppo a causa della limitata conoscenza che abbiamo dell’universo nessuno a tutt’oggi è in grado di rispondere con certezza a questa domanda. Tuttavia grazie a numerosi studi su questo delicato argomento e soprattutto grazie all’esperienza diretta degli astronauti che hanno avuto la possibilità di vivere nello spazio per alcuni mesi, siamo a conoscenza di numerose disturbi  e malattie più frequenti che colpiscono un uomo quando si ritrova a vivere nello spazio. Inoltre l’analisi del vuoto e delle sue caratteristiche ci permette di equipaggiare gli astronauti in modo che un possibile ‘tuffo’ nello spazio non ne causi la morte.

 

Gli effetti del vuoto                                                                                                                              

L’ambiente che caratterizza lo spazio è letale per l’uomo a meno che questo non indossi appropriate protezioni. Infatti  nel vuoto non vi è ossigeno e pressione sufficienti a garantire la nostra sopravvivenza, senza contare i pericoli che corriamo a causa della temperatura e delle radiazioni.

Il corpo umano si è adattato a vivere all’interno dell’atmosfera terrestre, infatti per respirare abbiamo bisogno di una concentrazione minima (o pressione parziale) di ossigeno pari a 16 Kpa (0.16 Bar). Al di sotto di questo valore il rischio di perdere conoscenza e morire per ipossia aumenta considerevolmente.

Infatti nel vuoto lo scambio di gas nei polmoni avviene regolarmente ma nessun gas, compreso l’ossigeno, entra nel sistema sanguigno. Perciò dopo circa 9-12 secondi nel vuoto, il sangue deossigenato raggiunge il cervello provocando la perdita di coscienza. Infine dopo circa due minuti (il limite assoluto rimane ancora incerto) sopraggiunge gradualmente la morte.

Durante questo processo il sangue e gli altri fluidi corporei cominciano a bollire a seguito dell’abbassamento della pressione sotto i  6.3 KPa (pressione di vapore dell’acqua a temperatura corporea). Questo fenomeno è chiamato ‘Ebullismo’ e consiste nella formazione di bolle di gas all’interno dei fluidi corporei a causa della riduzione di pressione. Il vapore è in grado di gonfiare il corpo fino a due volte le sue normali dimensioni, tuttavia i tessuti sono abbastanza elastici e porosi da impedirne la lacerazione. L’Ebullismo viene rallentato dai vasi sanguigni che contengono la pressione  in modo che parte del sangue rimanga liquido. Il gonfiore e l’Ebullismo si possono ridurre drasticamente indossando una tuta spaziale (Crew Altitude Protection Suit CAPS), indispensabili sopra i 19 Km. La maggior parte delle tute vengono pressurizzate a 20 kPa (150 Torr) di puro ossigeno, con una tale pressione si evitano perdite di conoscenza e si previene l’Ebullismo, ma se mal gestita  l’evaporazione del sangue o altri gas dissolti in esso possono ancora causare la malattia da decompressione ed embolie.

A seguito  di esperimenti condotti su animali, si è arrivati ad affermare che anche una breve esposizione al vuoto, fino a 30 secondi, causa danni fisici permanenti e oltre questo valore l’esposizione risulta addirittura fatale; se la respirazione non viene compromessa gli arti hanno un tempo di esposizione ammissibile superiore .

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Tuttavia l’esposizione al vuoto è sicuramente meno pericolosa di una rapida decompressione. Anche se la vittima in questione cercasse di respirare, la ventilazione attraverso la trachea risulterebbe troppo lenta con la conseguente rottura  degli alveoli polmonari. Inoltre i timpani e la cavità nasale si romperebbero, i tessuti molli verrebbero compromessi e potrebbero andare in circolo e l’aumento della richiesta di ossigeno a seguito del forte stress porterebbe a un’ipossia. Questo tipo di lesioni causate da una rapida decompressione vengono chiamati barotraumi; per chi di voi fosse appassionato di immersioni subacquee, questo tipo di lesioni caratterizza la maggior parte degli incidenti in questo ambito. Un abbassamento di pressione di circa 13 Kpa non comporterebbe alcun sintomo se effettuato gradualmente, ma risulterebbe fatale se fosse improvviso.

Purtroppo la maggior parte delle informazioni riguardanti la decompressione e il suo effetto sul corpo umano sono state raccolte a seguito di incidenti durante progetti sperimentali per il volo spaziale. Uno di questi viene descritto nel report della NASA Rapid (Explosive) Decompression Emergencies in Pressure-Suited Subjects:

“Nel 1965 presso il NASA’s Manned Spacecraft Center (oggi rinominato Johnson Space Center), durante un test all’interno di una camera a vuoto, un soggetto è stato accidentalmente esposto a un ‘quasi vuoto’ (meno di 1 psi, 7 kPa ) a causa di una tuta spaziale difettosa. E’ riuscito a rimanere cosciente per circa 14 secondi, ossia il tempo necessario al sangue, privato di O2, per passare dai polmoni al cervello. Probabilmente la tuta non ha raggiunto completamente i valori del vuoto e abbiamo repressurizzato la stanza in 15 secondi. Il soggetto è riuscito a riacquistare conoscenza alla quota equivalente di circa 15000 piedi (4600 m). In seguito il soggetto a riferito di aver sentito e udito l’aria fuoriuscire e il suo ultimo ricordo era quello dell’acqua sulla sua lingua che cominciava a bollire”.

Purtroppo si sono verificati anche incidenti fatali, come la decompressione del Soyuz 11 nel 1971 che ha causato la morte dei tre astronauti che erano a bordo.

 

Temperature Estreme

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Nel vuoto è impossibile ridurre il calore di un corpo attraverso la conduzione o la convezione, infatti la dispersione di calore avviene unicamente per irraggiamento. Il passaggio da 310 K (temperatura di una persona) a 3 K (temperatura dello spazio) è molto lento, specialmente se l’individuo è vestito, quindi non si corre il pericolo di un immediato congelamento; tuttavia è possibile che in zone come la bocca si formi del ghiaccio.

L’esposizione a intense radiazioni non filtrate e dirette come la luce solare può causare un riscaldamento locale, anche se il calore verrebbe ridistribuito grazie alla conducibilità del corpo e alla circolazione. Tuttavia altre radiazioni, come i raggi ultravioletti, possono causare gravi scottature in pochi secondi.

 

Radiazioni

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Senza la protezione dell’atmosfera e magnetosfera, gli astronauti in un anno vengono sottoposti a livelli di radiazioni anche 10 volte più grandi di quelle che normalmente subiscono sulla Terra. Un così alto livello di radiazioni può danneggiare i linfociti, cellule coinvolte nel mantenimento del sistema immunitario, provocando un abbassamento delle difese immunitarie degli astronauti. Questo comporta una maggiore vulnerabilità a nuove esposizioni e a virus già presenti nel nostro corpo che diverranno attivi. Purtroppo nello spazio le cellule T (un tipo di linfociti) non riescono a riprodursi correttamente e di conseguenza non sono più in grado di combattere le infezioni; in poco tempo i fenomeni di immunodeficienza aumenterebbero insieme con il numero di infezioni che colpirà l’equipaggio.

Recentemente si è anche scoperto che l’esposizione alle radiazioni aumenta il rischio di cataratta. Ne è un esempio l’astronauta Soviet Valentin Lebedev che nel 1982, dopo aver trascorso 221 giorni in orbita (un record assoluto), ha completamente perso la vista a seguito di progressive cataratte.

I raggi cosmici, invece, rappresentano un grande pericolo in quanto aumentano significamente le probabilità di ammalarsi di cancro per il decennio successivo all’esposizione. I brillamenti solari raramente possono anche essere fatali in pochi minuti. Tuttavia si pensa che sia possibile ridurre gli effetti di queste radiazioni  fino a livelli accettabili tramite l’utilizzo di schermature e farmaci.

Sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) l’equipaggio è parzialmente protetto dall’ambiente circostante grazie al campo magnetico terrestre che deflette il vento solare intorno alla Terra e all’ISS. Tuttavia i brillamenti rimangono un grave pericolo per l’equipaggio in quanto sono talmente potenti da deformare e penetrare il campo magnetico terrestre. Per questo motivo, future missioni interplanetarie con equipaggio saranno molto più rischiose vista l’assenza della parziale protezione data dalla  magnetosfera.

Recentemente la nuova conquista dell’uomo nello spazio sembra viaggiare dalla Terra a Marte con una navicella dotata di equipaggio. Allora mi domando siamo davvero pronti per un viaggio simile? Anche nell’ipotesi che riuscissimo ad arrivare su Marte, l’equipaggio sarà sopravvissuto alle elevate radiazioni? Lo spazio è un luogo estremamente pericoloso per l’uomo quindi l’unico modo per farne parte è confidare nello sviluppo sempre crescente di nuove tecnologie, le uniche in grado di abbattere queste barriere!

di Sara Pavesi

 

Bibliografia

http://en.wikipedia.org/wiki/Effect_of_spaceflight_on_the_human_body

http://www.nytimes.com/2014/01/28/science/bodies-not-made-for-space.html?_r=0&module=ArrowsNav&contentCollection=Science&action=keypress&region=FixedLeft&pgtype=article

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Felix Baumgartner: Missione ai confini dello spazio!

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Felix Baumgartner: Missione ai confini dello spazio!

Pubblicato il 31 ottobre 2012 by redazione

Un salto nel vuoto da 39.045 metri. Quali sono le precauzioni fisiche prese da Felix Baumgartner per sopravvivere alla missione ai confini dello spazio?

felix-baumgartner-standing-in-his-capsule-about-to-dive-640x480Dopo qualche rinvio dovuto al troppo vento alla fine ce l’ha fatta. Felix Baumgartner ha portato a termine la missione chiamata Redbull Stratos. Salito alla quota di 39.045 metri all’interno di una capsula pressurizzata appesa ad un pallone aerostatico si è lanciato in una caduta libera durata  4 minuti e 22 secondi verso il suolo prima di aprire il paracadute e atterrare sano e salvo. Completando la missione ha così stabilito diversi record: il pallone aerostatico salito alla massima quota nella storia, il salto dalla maggiore altitudine e il superamento della velocità del suono durante la fase di caduta libera.

Tuttavia le fatiche alle quali l’organismo di Felix è stato sottoposto sono state molteplici. Non solo lo sforzo dovuto al controllo del proprio corpo durante la caduta, ma anche la sopravvivenza in condizioni di atmosfera rarefatta e di bassa pressione. Per sopportare tutto ciò il paracadutista e base-jumper austriaco ha dovuto seguire un duro allenamento e fare uso di accorgimenti sia tecnologici che fisici.

Per quanto riguarda la preparazione per la caduta in sé, Felix era già ampiamente pronto: il suo primo lancio con il paracadute risale infatti all’età di 16 anni, seguito qualche anno dopo dal suo ingresso nella pattuglia acrobatica dei paracadutisti dell’aeronautica militare austriaca. Grazie a queste sue esperienze non aveva certo bisogno di altro allenamento: sapeva infatti di dover mantenere il corpo con una certa angolazione rispetto al terreno (la famosa posizione a delta) e di dover controllare l’assetto di volo mediante l’utilizzo di braccia e gambe come alettoni di un aereo. Tuttavia durante la missione ha  incontrato delle difficoltà. Infatti quando un corpo arriva in regime transonico (ovvero a velocità inferiori, ma molto vicine alla barriera del suono) le leggi dell’aerodinamica, che descrivono il moto di un corpo in un fluido, cambiano. Ed proprio questo cambiamento che ha causato la perdita di controllo del corpo da parte di Felix. Grazie, però, al successivo rallentamento dovuto all’attrito generato dall’aumentare della densità dell’atmosfera, e grazie alla sua abilità di paracadutista, Baumgartner ha saputo sapientemente ristabilizzarsi.

Felix+Baumgartner+infographicPer esporsi alle condizioni atmosferiche che ci sono nella stratosfera (priva di ossigeno e a bassa pressione) l’austriaco ha dovuto indossare una tuta particolare, pressurizzata. Simile a quelle indossate dagli astronauti per le loro passeggiate spaziali, il prototipo della protezione del paracadutista austriaco presenta qualche differenza. Progettata dalla David Clark Company, un’istituzione nel campo delle tute spaziali e anti-G, quella indossata da Felix doveva essere molto meno ingombrante e molto più leggera, per consentire una maggior scioltezza nel movimento di ogni parte del corpo. La divisa è stata predisposta per mantenere all’interno una pressione pari a quella presente a 10.000 metri dal suolo. Infatti se il corpo umano viene esposto a pressioni inferiori (presenti a quote più alte) i liquidi corporei vaporizzano e iniziano a espandersi portando al collasso dei tessuti interni, fino al decesso. Per ovviare a questo problema, all’interno della divisa già indossata, viene soffiata dell’aria fino a quando questa non inizia a comprimersi nello spazio di intercapedine tra il tessuto e il corpo, formando una sorta di cuscinetto pressurizzato. La tuta assolve anche altri due funzioni: mantenere il corpo in un certo range di  temperature e ridurre gli effetti dovuti alle forze di inerzia alle quali verrà sottoposto. Grazie al materiale di cui e composta, la tuta garantisce una protezione da temperature che vanno da -67° C a 37°C. Si tratta di una speciale fibra, sia ignifuga sia isolante da freddi estremi. Per ridurre, invece, gli effetti delle forze di inerzia, si sono usati gli stessi accorgimenti delle tute anti-G, in dotazione ai piloti di velivoli militari. Quando, infatti, si è soggetti a forti accelerazioni, il sangue all’interno di un corpo si comporta esattamente come i passeggeri di un autobus che accelera improvvisamente: tutto si sposta da una parte. Questo comporta che arrivi troppo o troppo poco sangue al cervello, fino al coma in entrambi i casi. Il sistema più diffuso, e lo stesso applicato sulla divisa di Felix, è quello che stringe uniformemente ogni parte del corpo, mantenendo il sangue concentrato in parti uguali in ogni punto. Questa seconda pelle dell’austriaco, tuttavia non era in grado di proteggerlo dalle forze d’inerzia rotazionali che si sarebbero venute a creare in caso di perdita di controllo e successivo avvitamento. A quelle velocità, infatti, queste forze possono assumere valori talmente elevati da portare al distaccamento degli arti dal corpo. E’ per questo che nel computer situato all’interno della tuta di Felix, un software monitorava costantemente queste forze e, al superamento di una certa soglia massima, prevedeva un sistema di sicurezza basato sull’apertura automatica di un mini-paracadute capace di ristabilizzare la caduta.

images (1)Un’altra fase della preparazione al lancio di Felix riguarda la particolare dieta seguita per le due settimane precedenti l’inizio della missione. Doveva, infatti, espellere tutto l’azoto presente nel suo corpo, mangiando solo ed esclusivamente fibre vegetali. L’azoto gassoso si espande molto  facilmente ed è quindi un pericoloso nemico di chi si espone a grandi sbalzi di pressione, come sub e astronauti. Se per qualche avaria la capsula o la tuta di Felix si fossero depressurizzate, una bollicina di azoto di pochi millimetri di diametro, una volta esposta a una pressione molto inferiore a quella a cui si trovava, avrebbe potuto espandersi fino a raggiungere  il diametro di qualche decina di centimetri, causando nell’intestino del jumper forti dolori e perfino la morte.

Infine una simpatica curiosità. Tutti noi abbiamo visto Felix Baumgartner, un uomo senza paura e sprezzante del pericolo, ma nessuno è perfetto, e ognuno di noi teme qualcosa. L’austriaco, durante gli anni di preparazione alla missione ha infatti, avuto bisogno del un sostegno di uno psicologo, perché all’interno della capsula soffriva di claustrofobia. D’altronde il recordman in questione sognava fin da bambino di librarsi nell’aria e qualunque spazio è troppo piccolo rispetto all’infinito del cielo, figuriamoci un paio di metri cubi.

di Camillo Molino

Fonti:

www.redbullstratos.com

 

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