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Bretagna, il paese delle Bigouden

Pubblicato il 26 aprile 2018 by redazione

frejusPartenza in macchina da Milano ore 21.00, Volvo Polar, 4 persone, un cane, due tartarughe, qualche libro, poco bagaglio, due termos di caffé, biscotti, cioccolata, acqua, mele, panini imbottiti di ogni meraviglia, atlante stradale dell’Europa, navigatore con mappa dei rilevatori di velocità, chiavetta USB per la musica, due cuscini e copertina per qualche ora di sonno.

Prendiamo la via per il traforo del Frejus. Dazio di passo 45 euro (un furto). Fuori dal tunnel si punta verso la Francia e non ci si ferma più fino a destinazione: Grenoble, Lyon, Clemont Ferrand, Bourges, Tours, Nantes, Quimper: 1400 kilometri. Arrivo nel pomeriggio del giorno dopo verso le quattro.

mappa_bretagnaNella piccola piazza di Plobannalec ci aspetta Marielouise, una signora ruvida, ma al tempo stesso cordiale, di quasi settant’anni, che sale sulla sua macchina e ci guida fino alla vecchia casa di sua madre – un casolare tradizionale del secolo scorso, disposto su due piani, immerso nella campagna bretone, a 1 kilometro dall’Oceano Atlantico. Siamo nella zona di Pont l’Abbé, Loctudy e Penmarc, nella regione del Finistère. Regoliamo subito il pagamento dell’affitto, meno di 700 euro per tre settimane, e ritiriamo le chiavi. Scaricati i bagagli all’ingresso scappiamo alla spiaggia, per non perdere il tramonto. Ci restiamo un paio d’ore, a goderci un bel vento frizzante, che spazza via tutta la stanchezza. Temperatura 25-26 gradi. 16 in meno che alla partenza. Finalmente rallentiamo, con lo sguardo allungato sull’orizzonte, di un cielo quasi bianco che si specchia nel delicato azzurrino dell’Oceano. Poi il sole scende, grandissimo, e inonda di rosso questa distesa incredibile di spazio. Il cemento è definitivamente alle nostre spalle.

Lo stomaco reclama, ora si va al porto in pescheria. Il menù per questa sera è già deciso: ostriche come entrée, zuppa fumante ai gamberetti con pezzetti di pane abbrustoliti al forno, pesce al barbecue e chardonnay fresco (tre litri, in cartone con spinetta… un lusso), tutto rigorosamente cucinato nelle mura domestiche perché c’è la crisi e bisogna risparmiare. Costo medio del pesce quattro euro al kilo. Costo della cena 15 euro: che meraviglia siamo in Bretagna.

Mattino successivo spesa al Carrefour. Per almeno una settimana siamo a posto e con ogni bene di Dio, c’è perfino la carne per gli animali, la pentola elettrica per fare le crêpes a 13,90 (presa!) e la benzina, sempre made Carrefour, a 1,50 euro al litro.

Un’altra puntatina in pescheria e poi a casa a goderci il giardino. È davvero molto grande, più di 2000 m2, con vecchissime piante da frutto di mele e fichi, che non mancheranno mai dal desco per tutta la vacanza. Un bel tavolone, ombrellone e barbecue. Dentro, al piano terra, un ampio soggiorno, con divanetti, tavoli e tavolini, un televisore piatto e una cucina luminosa ben attrezzata, un tavolo da pranzo per 8 persone una toilette e una stanza da bagno. Al primo piano, tre camere e una toilette. Da notare che in Francia la toilette è una piccola stanza con solo la ”tazza”, mentre la stanza da bagno è il luogo in cui ci si lava e basta. Nel complesso una casa molto semplice e confortevole. Solo i letti, seppur matrimoniali sono più stretti dei nostri e con lunghi cuscini rotondi.

La prima settimana la passiamo a riposare e camminare lungo la spiaggia e per la campagna, con numerose puntatine nel pub più “malfamato” della zona, pieno di marinai tatuati e qualcuno già ubriaco di birra di primo mattino, che ritorna dopo due o tre giorni di pesca in mare aperto. Questo è l’unico posto, nel raggio di 50 kilometri, dotato di rete internet e di un computer dal quale poter navigare e leggere la posta. Per il resto la zona non ha copertura. Il birraio è peraltro molto simpatico e fa un ottimo cafe lounge e gli avventori, simili a truci pirati, sono in realtà altrettanto cordiali.

AGE_1209023758.jpgUne Agrifête

In Bretagna se non fai il pescatore fai l’agricoltore. Quindi le feste, o le fanno al porto o le fanno in campagna. Un’Agrifête è il meglio che un agricoltore possa desiderare. Trenini tirati da asinelli, con decine di bambini urlanti e festosi. Gare di quod su circuiti di fango. Trattori enormi che si sfidano a chi sposta più terra o più tronchi giganteschi. E poi le trebbiatrici. Avete mai visto quanto sono grandi queste macchine? In una ruota ci potreste stare quasi in piedi. Birra, salsicce e patatine fritte fumanti a non finire. Gare di cani pastori che si cimentano a radunare e spingere decine di oche lungo circuiti complicati, su e giù per piccoli ponticelli. Rodei casalinghi, con tori infuriati che corrono liberamente nell’arena, lanciando in aria a cornate contadini temerari, che osano sfidarli, solo per un applauso. Ma anche banchetti botanici, con patate di ogni tipo e colore (anche nere) e generose spiegazioni sui diversi sistemi di coltivazione. Sembra di essere in qualche brughiera del Texas e in effetti i cappelli a larga tesa non mancano, ai piedi quasi tutti hanno stivalacci irriverenti e nel complesso si respira un’aria selvatica.

torta bretoneLe briosche di Benodet

Lo so che non si fanno quasi 3000 kilometri, fra andata e ritorno, solo per mangiare dolci, ma non conoscete i dolci bretoni, sono burro puro. Anzi, ogni morso di qualsiasi gateau vi capiti di assaggiare si scioglie in bocca, letteralmente in burro. Il sapore è delicato, leggermente salato, naturalmente dolce per l’alta concentrazione di panna con cui viene lavorato, una vera poesia. Nelle lande della Cornovaglia francese, le mucche sono nutrite al pascolo e fanno un latte spesso e ricco di panna. Potete immaginare quanto ben di Dio si ricavi da un latte del genere. Personalmente, mi sono innamorata delle briosches di Benodet e del gateau bréton alla crême de pruneaus. Le brioche sono grandi, almeno il doppio di quelle  italiane, foderate di crema di mandorle, cosparse di scagliette di zucchero e sigillate da una bella glassa. Il gateau bréton classico, invece, è una torta alta circa tre centimetri, di un impasto spesso e burroso (naturalmente…), leggermente glassato in superficie, ripieno di crema di prugne aspra, con poco zucchero, che non smette di piacervi e quando finisce, la sorpresa e lo sconforto sono immediati. Tornando dalla Francia confesso di averne fatto una scorta di 10 forme. Tutto costa un prezzo ragionevole. Una torta 6 euro e una brioche 0,70 euro: I love butter.

Kitesurf a paletta

Vicino alle coste del Finistère le barche a vela naturalmente si sprecano, ma i kitesurfisti sono davvero ovunque. Immaginate una grande tavola da surf, mettetela in una sacca e ora infilatevela a tracolla e, con aria assolutamente serafica e disinvolta, fate l’autostop. Che macchina ci vuole per tirar su questi ragazzi? Lungo le strade provinciali, di prima mattina, queste scene si ripetono spesso. Se poi andate in spiaggia sono tutti lì. Vederli volare è uno spettacolo incredibile. Anche i gabbiani che spesso veleggiano a fianco delle loro ali, sospesi semplicemente nel vento, li osservano curiosi e forse affascinati da qualche nuova tecnica.

Anziane parigine camminano avanti e indietro nell’Oceano

Lungo il litorale, dove l’acqua dell’oceano ristagna tra gli scogli e resta un po’ più calda, potrebbe capitarvi di osservare anziane parigine (di ogni peso e taglia), camminare per ore, avanti e in dietro nel mare, che gli arriva fin sopra la vita. Fa bene alla circolazione, tonifica i muscoli e smagrisce. Passeggiano composte a coppie, o gruppi di tre, conversando piacevolmente e senza scomporsi, le mani dietro la schiena, pancette e pancione esibite con orgoglio, lunghe capigliature raccolte in semplici trecce bianche, mentre l’acqua gelida lambisce le morbide pieghe dei loro anni.

Un tuffetto, comunque, prima o poi lo farete e superato lo shock iniziale scoprirete che l’acqua non è così fredda. Ma l’mpressione maggiore sarà la sua leggerezza, quasi impalpabile, per l’elevata concentrazione di sale. In questa zona il sale viene mescolato con alghe, licheni, e molte altre piante selvatiche, ed esportato in tutto il mondo.

Ty Mamm Doue (La maison de la Mère de Dieu)

È una cappella gotica del XVI secolo, collocata in aperta campagna, in una radura isolata. Intorno le fanno da cornice alcune case tradizionali con i tetti in paglia, a circa tre kilometri a nord di Quimper, sulla strada di Plogonnec. La si può visitare solo da Luglio a Settembre. Particolari sono le maestose finestre in vetro soffiato di Francois Dilasser che raccontano la Creazione del Mondo e del Firmamento.

Sul retro della cappella c’è un vecchio pozzo la cui acqua si racconta curasse i lebbrosi e più in generale tutte le malattie della pelle. Ci siamo lavati tutti, mani e faccia e, vera o no che sia la leggenda, quell’acqua lascia la pelle morbida e pulita.

Cairn di BarnenezCairn di Barnenez_2Il più grande mausoleo d’Europa: il Cairn di Barnenez

Il cairn di Barnenez è il più grande monumento in pietra rinvenuto in Europa. Edificato nel periodo Neolitico, misura 75 metri di lunghezza e 28 di larghezza. Fu costruito intorno al 4500 a.C. per proteggere 11 camere funerarie di forma circolare o poligonale, a cui si arriva passando per stretti corridoi da 5 a14 metri di lunghezza. La facciata principale è orientata verso Sud-Ovest. Due aperture minori incorniciano ai lati l’entrata centrale più grande, posta sul dolmen principale. Il dolmen, o tavola di pietra (in bretone) è una camera delimitata da pietre orizzontali. Sul lato opposto del tumulo (cairn), la facciata è leggermente concava con un sagrato rudimentale, dal quale si possono osservare tutti gli ingressi alle tombe. Il mausoleo si erge sopra una collina, isolato e incontaminato, in un silenzio assoluto rotto solo dal vento, presenza costante di tutta la Bretagna. Sedersi a una certa distanza e osservarlo, fa venire i brividi. L’ingresso al tumulo costa pochi euro e per le persone al di sotto dei 25 anni è gratuito.

 pescatoriLe sardine di Douarnenez

Due ore a piedi. Questo il tempo di percorrenza del porto per la pesca alle sardine, più vecchio del secolo scorso. Qui attraccano, ogni giorno, tutti i peschereggi specializzati nella pesca dei mitici pesci, grassi e saporiti, che tutto il mondo occidentale conosce. In questo porto numerosi sono i cantieri navali e normalmente si possono osservare i calchi in dimensione reale delle chiglie degli scafi. Ogni angolo, attracco, imbarcazione o edificio raccontano la storia di Douarnenez, prima, durante e dopo l’era industriale.

Mont SAn MicheleMont Saint Michel

“Monte San Michele” è un’isoletta della Normandia, sulla costa settentrionale francese situata nel delta del fiume Couesnon e appartenente al comune di Pontorson. Venne costruita in onore dell’Arcangelo Michele che doveva proteggerla dal pericolo del mare.

La sua nascita risale al 700 d.C. quando, secondo la leggenda, l’Arcangelo Michele chiese a sant’Auberto, vescovo di Avranches, che gli venisse edificata sulla roccia una chiesa. Il vescovo ignorò la richiesta per ben due volte. San Michele, allora, toccò con un suo dito infuocato il cranio del vescovo, lasciandogli un foro profondo e rotondo, ma senza ucciderlo. Il primo oratorio venne così costruito in una grotta chiamata inizialmente Mont Tombe, che in seguito divenne Mont Saint Michel au péril de la Mer. Il cranio forato di Sant’Auberto è conservato nella cattedrale di Avranches.

Dal 1979 Mont Saint Michel fa parte del patrimonio Unesco. Tre milioni di turisti ogni anno vengono in pellegrinaggio per visitarla. La suggestione dell’intera abbazia è indubbiamente molto forte, ma con l’arrivo della marea raggiunge il culmine. Ogni sera i visitatori, dopo una giornata di ore a piedi per i saliscendi dei vicoli della cittadella, si siedono stanchi, di fronte all’Oceano e aspettano la marea. All’inizio sembra che l’acqua salga piano, ma in meno di 30 minuti il mare si alza e arriva appena sotto il piazzale principale del Monte. Le moto d’acqua corrono in lungo e in largo a recuperare qualche turista imprudente, allontanatosi a piedi sul  fondo del mare, fino al limite della baia, oltre il piccolo isolotto che troneggia di fronte a Mont Saint Michel, assorto in quel silenzio assoluto, che in tutto quello spazio, di cielo, acqua e sabbia ti fa sentire solo un granello di terra. Si aspetta a cavalcioni di un muretto il tramonto e si va via. Se ci si muove, si passa da Cancale a mangiare le ostriche.

I mercati di paese: vôtre marché!

Le patate con il bacon che rosolano in grandi wok, le crêpes di farina scura (blé noir) ancora calde ripiene di nutella, formaggio puzzolente, o solo un po’ di zucchero, pasticci di carne di ogni tipo, salsicce con interiora di animali arrotolate strette e incamiciate con la carne di maiale, sidro di mele, cestini di paglia, pani di tutte le forme, impastati con farine pregiate e cotti nel forno a legna, gateau bréton, ostriche, formaggini di capra cremosi, bancarelle di libri vecchi in cui potreste trovare dei veri tesori, piccoli acquarelli …  la Bretagna è tutta qui.

di Adriana Paolini

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Se il petrolio finisse domani… Aftermath: World without oil

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Se il petrolio finisse domani… Aftermath: World without oil

Pubblicato il 10 novembre 2015 by redazione

Intro_petrolio

 

Quanto dipendiamo dall’oro nero lo ha ipotizzato Rob Minkoff

Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se il petrolio finisse domani, all’improvviso? Se non l’avete mai fatto (come è probabile che sia), sappiate che al posto vostro ci ha pensato Rob Minkoff, ideatore per la televisione canadese del documentario Aftermath: World without oil, in cui si ipotizzano gli effetti che avrebbe sulla nostra vita la scomparsa improvvisa di questo combustibile fossile. Il punto di partenza del documentario è sicuramente fantascientifico, in quanto (purtroppo o per fortuna) la fine del petrolio non è così imminente; tuttavia costituisce un’ottima base per andare ad analizzare quanto profonda sia la nostra dipendenza dall’oro nero. Esso, infatti, a causa della sua versatilità e del suo relativamente basso costo di estrazione, viene utilizzato per gli scopi più disparati, dalla produzione di energia (il 90% di quella utilizzata per i trasporti deriva dal petrolio), alla fabbricazione di materie plastiche, fertilizzanti, medicinali, cosmetici e molto altro.

 

Un giorno senza petrolio

AftermathWorldWithoutOil

Il primo giorno dopo la fine del petrolio viene ipotizzato come il più difficile da affrontare dal punto di vista psicologico: i Governi degli Stati, mossi dall’incertezza sul da farsi e dal panico dei cittadini, compiono mosse che cercano di diminuirne il più possibile il consumo. Le Nazioni esportatrici decidono, così, di richiamare le proprie navi cariche di greggio e, in generale, tutti i Paesi fermano i mezzi di trasporto che non ritengono di vitale importanza (compresi gli aerei).

Allo stesso tempo, l’economia e la finanza subiscono un grave tracollo: le contrattazioni in borsa vengono sospese a causa del panico (così com’è avvenuto dopo l’11 settembre) e milioni di lavoratori, legati direttamente o indirettamente al settore petrolifero, rimangono a casa disoccupati.

Uno dei Paesi a subire le conseguenze più gravi sono gli Stati Uniti, che, pur avendo a disposizione una riserva di 725 milioni di barili di greggio, ogni giorno ne importano 8 milioni e ne consumano più del doppio.

 

Cinque giorni senza petrolio

Dopo nemmeno una settimana senza petrolio, il mondo occidentale deve affrontare un numero sempre crescente di difficoltà dal punto di vista socio-economico. Le borse continuano a rimanere chiuse e la disoccupazione si attesta ormai oltre il 30%. Senza combustibile per i trasporti, inoltre, diventa impossibile rifornire di cibo le grandi città, circostanza che causa i primi disordini. Contemporaneamente, però, le persone sono costrette dalla necessità a tenere un comportamento più virtuoso: se prima della fine del petrolio il 30% del cibo veniva scartato (anche a causa di piccole imperfezioni), ora tutto ciò che è disponibile, e non pesantemente avariato, viene consumato.

Anche dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico la situazione è in continuo peggioramento e i blackout sono ormai una realtà costante: il 40% dell’energia elettrica è prodotta dalla combustione del carbone, ma le centrali non possono più essere rifornite a causa dell’assenza di carburante per i treni. Nelle città questo implica sempre maggiori difficoltà nel portare avanti i servizi essenziali, in particolare quello sanitario.

 

Trenta giorni senza petrolio

Passato un mese senza petrolio, i Governi hanno ormai razionalizzato l’utilizzo delle proprie riserve, che vengono impiegate quasi esclusivamente per muovere i mezzi di soccorso e i treni, in modo tale da rifornire le città di cibo (anche i treni passeggeri vengono riconvertiti a questo scopo) e le centrali elettriche. Nel frattempo, tuttavia, si è sviluppata la ricerca di fonti alternative: in particolare iniziano gli investimenti nelle colture di canna da zucchero e mais, per la produzione di etanolo, e in quelle di soia, che può essere trasformata in biodiesel. I Paesi che producono già etanolo in grande quantità, infatti, sono ancora in grado di far circolare le proprie auto.

 

Cinque mesi senza petrolio

La prolungata assenza dell’oro nero inizia ad avere il proprio forte impatto anche a livello igienico-sanitario: nelle grandi città la spazzatura non viene più smaltita, andando così a creare enormi accumuli di rifiuti, e, contemporaneamente, negli ospedali inizia a scarseggiare l’equipaggiamento sanitario (per la produzione di gran parte del quale viene utilizzato il petrolio), fenomeno che porta alla diffusione repentina di infezioni.

A livello internazionale, i Paesi estrattori di petrolio sono in enorme difficoltà (si pensi che l’Arabia Saudita basa il 90% della propria economia sull’estrazione del greggio), così come anche quei Paesi che dipendono in gran parte delle importazioni, come il Giappone.

La maggior parte degli Stati ha messo in campo piani per aumentare le colture di cereali e piante che permettano di produrre biodiesel ed etanolo, anche se, data la sempre maggior scarsità di cibo, risulta sempre più difficile scegliere se destinare le colture alla produzione alimentare o a quella di combustibile.

Dal canto loro, i cittadini dei Paesi più freddi cercano di affrontare l’imminente inverno in due modi: riciclando sostanze chimiche e producendo del combustibile in maniera artigianale, oppure dando vita a migrazioni di massa verso luoghi più caldi.

 

Un anno senza petrolio

Dopo 365 giorni senza petrolio, il fenomeno che salta più all’occhio è una sorta di “rivincita” della natura nei confronti dell’uomo: l’assenza di veicoli per le strade e per le città porta alcune specie animali a crescere di numero e ad avvicinarsi ai centri abitati, mentre molte persone, facendo di necessità virtù, iniziano a produrre esse stesse ciò che consumano, creando così dei piccoli orti cittadini. Allo stesso tempo, però, questa rivincita della natura sull’uomo si manifesta anche in maniera dannosa per la stessa umanità, dato che l’assenza di petrolio favorisce maggiormente la diffusione di carestie ed epidemie.

 

Dieci anni senza petrolio

benzina dismessa

Dopo un decennio senza oro nero, le priorità dell’umanità, e con esse la sua organizzazione, sono cambiate. I satelliti, su cui si basa gran parte della comunicazione moderna, non vengono più sostituiti, in quanto non c’è abbastanza carburante per mandarne in orbita di nuovi. Tra i mezzi di trasporto, invece, molte navi vengono smantellate e i suoi materiali riciclati. Non si ha ancora abbastanza carburante per far ripartire gli aerei; tuttavia, grazie alla produzione su vasta scala di biocombustibile ricavato dalle alghe, possono essere rimessi in moto i camion per il trasporto merci. Ogni acro di alga, infatti, produce trenta volta più energia di qualsiasi altro biocombustibile. Viene inoltre riscoperto il valore di tutte le materie plastiche e i componenti elettronici gettati nelle discariche, che vengono riutilizzati.

Contemporaneamente nuovi Paesi si affacciano sulla scena mondiale come leader economici: uno di questi è la Bolivia, che acquista un forte potere economico grazie ai propri giacimenti di litio, componente fondamentale per la produzione di batterie, strumento ormai indispensabile per un’umanità alla continua ricerca di energia da immagazzinare.

 

Quarant’anni senza petrolio

Trascorso quasi mezzo secolo, l’umanità è riuscita a risollevarsi dalla scomparsa del petrolio. La maggior parte dei mezzi di trasporto è tornata a funzionare: alcuni sono alimentati grazie al biocombustibile derivato dalle alghe, altri grazie all’energia elettrica. Tra quelli del secondo tipo vi sono anche le automobili, che però hanno un costo elevato a causa della scarsa disponibilità di litio per produrre batterie. Grazie a questa svolta, comunque, l’inquinamento si è ridotto drasticamente, tanto che solo in Nord America sono venuti meno 3,5 miliardi di tonnellate di agenti inquinanti all’anno. Questa svolta ecologica ha coinvolto anche la popolazione che, dopo essere tornata in parte a ripopolare le aree del nord del pianeta, ha riqualificato i centri urbani creando degli orti cittadini che possano soddisfare i bisogni primari di un mondo ormai non più iperconnesso come quello precedente.

L’umanità ha saputo affrontare una sfida difficile come quella della fine del petrolio e uscirne in maniera vincente, dando vita a una nuova era.

 

Il petrolio finirà presto?

tipi di estrazione

Picco del petrolio e tipi di estrazione.

 

Lo scenario quasi apocalittico previsto da Aftermath: World without oil è sicuramente distante dalla realtà, in quanto la scomparsa del petrolio dalle nostre vite non è dietro l’angolo. Tuttavia è altrettanto certo che l’esaurimento delle riserve di oro nero è una questione che deve essere affrontata fin da ora, dato che probabilmente coinvolgerà già molte delle generazioni attuali. Sul tema esistono svariate ipotesi, ma quelle più accreditate stimano l’inizio del calo della produzione del petrolio in un arco temporale che va dal 2010 al 2030. Questi studi basano i loro risultati sulla teoria, in tema di fonti di energia non rinnovabili, elaborata dal geofisico americano Marion King Hubbert negli anni ’60 del secolo scorso. Hubbert, studiando quanto accaduto per altre fonti di energia non rinnovabili nei decenni precedenti, affermò che la loro produzione segue un andamento “a campana”. All’inizio, quando sono necessari pochi investimenti e vi è grande disponibilità, la sua crescita è esponenziale e i costi si mantengono bassi. Successivamente, con l’esaurimento dei giacimenti più facilmente raggiungibili, si rendono necessari investimenti più costosi che determinano una riduzione dell’estrazione rispetto alla fase precedente, diminuzione che si stabilizza in un preciso momento, chiamato “picco”. Passata questa seconda fase, divengono indispensabili investimenti ancora più onerosi rispetto a quelli iniziali e, quindi, la produzione della risorsa viene progressivamente abbandonata (in quanto non più conveniente) e diminuisce a un ritmo molto veloce.

Hubbert elaborò questa teoria in relazione alla produzione di petrolio negli USA, prevedendo che il picco sarebbe sopraggiunto agli inizi degli anni ’70. Secondo il geofisico americano, durante questo periodo si sarebbero verificati contemporaneamente due eventi: un aumento dei prezzi del petrolio e una fase di instabilità geo-politica, ai quali si sarebbe potuto rimediare trovando altre fonti alternative al petrolio o spostando il centro della produzione in un’altra area. Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Hubbert (tant’è che, dopo la crisi energetica del 1973, il baricentro mondiale del petrolio si è spostato in Medioriente) e così in molti ritengono che, applicando i suoi studi all’estrazione globale di greggio, l’attuale fase sia quella del picco, data la compresenza dell’instabilità politica e dell’aumento dei prezzi del petrolio. A sostegno di questa tesi, peraltro, bisogna sottolineare come negli ultimi anni sia aumentata la produzione dell’oro nero non convenzionale, ossia di petrolio che non viene ottenuto mediante la comune estrazione dai pozzi, ma per mezzo di altre tecniche particolari, segno che quello convenzionale probabilmente inizia a non essere più sufficiente per soddisfare il fabbisogno mondiale.

 

Il passaggio alle fonti di energia sostitutive

La consapevolezza che la fonte d’energia più diffusa sul nostro pianeta sia destinata a scomparire porta a prendere atto del fatto che, quando ciò accadrà, l’umanità intera vivrà un periodo di transizione più o meno lungo in dipendenza da quanto rapida ed efficace sarà la risposta dei Governi. Tuttavia non bisogna scordare come periodi di transizione di questo tipo siano già stati vissuti in passato: la già citata crisi energetica dei primi anni ’70, pur portando con sé un iniziale periodo di incertezza economica (manifestatasi in particolar modo attraverso l’aumento della disoccupazione e un’elevata crescita dell’inflazione), ha dimostrato come simili fasi siano “fisiologiche” per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico da parte dell’uomo e come, pertanto, non vi siano da temere scenari apocalittici. Ciò che è certo, però, è che nei prossimi anni non sarà più possibile compiere una semplice rivoluzione geografica, spostando cioè il centro della produzione da un’area all’altra della terra, semplicemente perché non esiste un’altra Arabia Saudita. La soluzione, allora, sarà quella di una rivoluzione tecnologica, che porti possibilmente in primo piano fonti di energia rinnovabili che, a differenza di quelle non rinnovabili (carbone, petrolio, gas naturale o uranio), vengano prodotte secondo metoologie che non seguano l’andamento “a campana” teorizzato da Hubbert, ma si stabilizzino nel tempo.

Ovviamente questo comporterà un profondo cambiamento nel sistema economico (in senso lato) del nostro pianeta, i cui effetti sono però difficilmente prevedibili.

di Alessio Bilardo

 

Linkografia:

http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2011/01/28/video/l_alba_del_giorno_dopo_-_petrolio_1-175710/1/

https://www.youtube.com/watch?v=S56y0AzwdVk

http://www.aspoitalia.it/index.php/introduzione-alla-teoria-di-hubbert-mainmenu-32

http://www.massacritica.eu/larabia-saudita-corre-verso-il-solare-2/10783/

 

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Il futuro dell’Aviazione Civile: il mondo del trasporto aereo tra 50 anni visto da Airbus

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Il futuro dell’Aviazione Civile: il mondo del trasporto aereo tra 50 anni visto da Airbus

Pubblicato il 09 maggio 2012 by redazione

airbus 380La Francia è sicuramente la nazione guida dell’aviazione civile in Europa e probabilmente nel mondo. Questo è testimoniato dalla grande quantità di investimenti nel settore che hanno avuto come risultato l’affermazione di Airbus come uno dei due grandi colossi mondiali, insieme all’americana Boeing, nello sviluppo e nella produzione di velivoli per il trasporto civile. Ultimamente dalle officine del gruppo francese con sede a Tolosa, sono usciti gli aerei più all’avanguardia del settore: uno su tutti il gigantesco Airbus A-380. Questo è il più grande aereo di linea mai venuto alla luce: lungo 73 metri, con un’apertura alare di 79,8 metri è in grado di imbarcare fino a 853 passeggeri divisi su due ponti.

Tuttavia Airbus, come ogni grande impresa nel campo della tecnologia, si interroga sui possibili sviluppi per migliorare le prestazioni dei propri velivoli (sia dal punto di vista dei costi che da quello dell’impatto ambientale) e il comfort per i passeggeri.

Sono quattro i principali filoni di ricerca: future fonti di energia, come sbloccare il congestionamento degli aeroporti, una nuova visione del volo per trasporto passeggeri e infine la creazione di un concept per un aeromobile forse realizzabile tra cinquant’anni.

http://www.airbus.com/

Future fonti di energia

Il trasporto aereo, come altri tipi di trasporto, si basa sui combustibili fossili che tuttavia si stanno esaurendo, sono costosi e hanno un elevato impatto ambientale. Infatti l’80% delle emissioni di CO2 e di gas combusti prodotti dall’uomo è dovuto proprio ai voli aerei, nonostante l’inquinamento dovuto all’aviazione sia stato ridotto del 75% negli ultimi quarant’anni. Il 90% dei fondi (2 miliardi di euro) che Airbus destina alla ricerca sono investiti nella ricerca di nuove soluzioni sui combustibili. Tra i risultati già ottenuti c’è il bassissimo consumo proprio dell’ A-380: si consumano 3 litri di carburante per passeggero ogni 100 km, proprio come una piccola auto familiare. Tuttavia c’è ancora molto da scoprire e per questo la ricerca del gruppo francese in questo campo si divide su quattro principali tipi di fonti di energia: i biocombustibili, le celle a combustibile, l’energia solare e l’accumulo di energia scambiata dal calore dei corpi dei passeggeri.

Biocombustibili

Tradizionalmente i derivati dal carbone e il cherosene sono stati i combustibili più utilizzati nel settore perché erano in grado di mantenere temperature stabili. Tuttavia oggi anche i biocombustibili permettono di ottenere gli stessi risultati e per di più possono essere utilizzati nei velivoli già in circolazione senza dover attuare alcun tipo di modifica ai motori o ai vari impianti.

I biocombustibili sono composti di materiale organico vivente, o dagli scarti prodotti da questo. Esistono alcuni tipi di queste fonti energetiche che possono essere ottenuti dalle coltivazioni o dalle risorse del territorio, ma siccome questo competerebbe con la produzione di cibo e di acqua, Airbus preferisce rivolgere la propria attenzione ai biocombustibili di seconda generazione noti come biomasse. Alcuni tipi sono le alghe, i trucioli ottenuti dalla lavorazione del legno, la camelina, le piante alofile come la salicornia (che cresce nelle acque salate), rifiuti e fermenti. Una biomassa simile al cherosene può essere ottenuta per esempio facendo essiccare al sole un impasto di alghe di mare e carbone.

Airbus cerca di identificare in ogni zona del mondo quale sia la soluzione migliore per poter mettere d’accordo agricoltori, raffinatori, governi e compagnie aeree riguardo ai biocombustibili. Infatti gli agricoltori sono spinti a utilizzare le loro terre non coltivabili nella speranza che i loro raccolti siano acquistati dalle raffinerie che dovrebbero trovarsi, secondo l’idea di Airbus, non lontano da dove le compagnie di linea ne hanno bisogno, per minimizzare le emissioni dovute al trasporto. Per rendere realmente operativo questo piano il gruppo francese ha già fatto nascere cinque progetti in Brasile, Romania, Qatar, Spagna e Messico e  altri stanno per nascere in Africa e Asia.

Molte prove di volo hanno evidenziato che i biocombustibili funzionano bene sugli aerei ed è per questo che Airbus ritiene che, a partire dal 2030, il 30% dei voli dell’aviazione civile potranno essere alimentati in questo modo.

http://www.airbus.com/innovation/eco-efficiency/operations/alternative-fuels/?contentId=%5B_TABLE%3Att_content%3B_FIELD%3Auid%5D%2C&cHash=22935adfac92fcbbd4ba4e1441d13383

Celle a combustibile

Una cella a combustibile è un sistema che trasforma l’energia dell’idrogeno in energia elettrica (combinando idrogeno e ossigeno in una combustione a freddo). Una loro peculiarità è che non hanno emissioni e sono silenziose: infatti gli unici prodotti di questa combustione sono acqua, calore e ossigeno. In più, l’acqua prodotta da processo può essere utilizzata negli altri impianti presenti a bordo evitando così di imbarcare acqua(e quindi peso) prima del decollo e riducendo di fatto i consumi.

Al momento questa tecnologia è ancora agli albori e sono passati solo tre anni da quando Airbus e alcuni suoi partners, hanno fatto i primi test per controllare alcune parti del velivolo, ma ci vorrebbe un’energia migliaia di volte superiore a quella generata in queste prove per poter controllare completamente il velivolo solo con quest’energia. E’ quindi improbabile che verrà utilizzata in futuro come fonte energetica primaria, ma potrà essere installata a bordo per il funzionamento di impianti minori come quello di condizionamento o quello per l’avviamento dei motori.

http://www.airbus.com/innovation/eco-efficiency/design/fuel-cells/?contentId=%5B_TABLE%3Att_content%3B_FIELD%3Auid%5D%2C&cHash=22935adfac92fcbbd4ba4e1441d13383

Energia solare

Per  molti motivi l’energia solare è la miglior fonte di energia rinnovabile, tuttavia non può essere utilizzata per far volare un aereo, a causa del peso dei pannelli e della scarsa energia prodotta per unità di superficie. Infatti è stato provato che, anche se l’intero velivolo fosse ricoperto di pannelli, l’energia ricavata non sarebbe sufficiente a farlo volare (eccezion fatta per piccoli aerei).

I pannelli solari posso comunque essere usati su aerei di grandi dimensioni per l’alimentazione dell’impianto elettrico, una volta che il velivolo si trovi al di sopra di una certa quota.

Accumulo di energia

Nonostante possa sembrare fantascientifico, una delle fonti di energia che Airbus spera di poter portare alla ribalta per il 2050, è quella di accumulare l’energia generata dal calore dei corpi: invece di produrre energia si potrebbe semplicemente prendere il calore e reindirizzarlo verso alcune funzionalità del velivolo.

Può veramente sembrare impossibile ma, probabilmente, è la stessa cosa che avrebbe pensato una persona quarant’anni fa se le avessero detto che un aereo composto da due ponti avrebbe trasportato 800 passeggeri con un’efficienza superiore ad una macchina familiare.

di Camillo Molino

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