Categoria | Scienza e Tecnologia

Sulla natura della luce. Storia di onde e particelle, dall’universo all’occhio

Pubblicato il 30 novembre 2015 da redazione

È il 20 dicembre 2013 quando la sessantottesima Assemblea Generale dell’ONU proclama il 2015 “International Year of Light and light-based technologies” (IYL), approvando così un’idea lanciata nel 2011 dalla European Physical Society (EPS), di cui la Società Italiana di Fisica (SIF) fa parte. Promosso da università, centri di ricerca e laboratori di tutto il mondo in collaborazione con l’UNESCO, IYL non è solo un evento atto a festeggiare ricorrenze di importanti scoperte scientifiche, ma è un vero e proprio progetto multidisciplinare con più di 100 partner di oltre 85 Paesi. Un progetto educativo e di sensibilizzazione in cui la divulgazione si accompagna alla promozione della ricerca.

 

Luce d'acqua

Credit: Giovanna Rasario, Luce d’acqua, 2009, olio su tela, http://www.rasario.it

 

Ma perché la luce? La luce è uno dei temi più trasversali del sapere. In quanto ente fondamentale della natura insieme alla materia, ma anche come presupposto di base per la vita è centrale in tutte le discipline scientifiche, dalla fisica alla biologia, come d’altronde lo è in ambito umanistico: basti pensare alla sua importanza nell’arte. E ancora: enorme è l’impatto socio-economico delle tecnologie basate sulla luce, che da cinquant’anni stanno stravolgendo la vita dell’uomo. E siamo solo agli inizi.

IYL 2015 è quindi un iniziativa globale volta a “far luce sulla luce”, a mettere in risalto l’importanza della ricerca in campo ottico e delle tecnologie che ne derivano e consiste in attività di divulgazione coordinate a livello regionale, nazionale e internazionale.

Ed è quindi l’occasione per interrogarsi su un tema fondamentale, uno di quelli che le persone intelligenti puntualmente ignorano per evitare di correre il rischio di capirci qualcosa. Che cos’è la luce? A livello intuitivo, a noi, uomini del XXI secolo, pare scontato: la luce è ciò che ci permette di vedere. Se mi trovo in una stanza buia e accendo un fiammifero, la fiamma mi permette di scorgere parte del mio corpo, lo spazio e gli oggetti nelle vicinanze. Inoltre deduco che deve trattarsi di qualcosa di fisico perché la sorgente è una ben nota reazione chimica, la combustione, e capisco che trasporta energia, dato che avvicinando la fiamma alla mano avverto del calore. E infatti nel vocabolario Treccani la prima definizione che viene data di luce dice proprio queste cose: “Ente fisico cui è dovuta l’eccitazione nell’occhio delle sensazioni visive, cioè la possibilità, da parte dell’occhio, di vedere gli oggetti.” D’altronde l’importanza dei dizionari sta proprio nel fatto che definiscono l’ovvio, ed è proprio lì, dentro l’ovvio, che si nasconde la maestosa immensità dell’ignoto.

È uno di quei problemi su cui l’uomo si interroga dagli albori della civiltà. A quanto ne sappiamo, i primi a discuterne furono i Greci, a partire dal VI secolo a.C.. Due erano le teorie dominanti sulla visione: una basata sull’ipotesi emettitiva, l’altra sull’ipotesi intromissiva. Secondo la prima, supportata da Pitagora, la luce proviene dai nostri stessi occhi, “fari dell’anima” che esplorano l’ambiente e rendono così possibile la conoscenza; la seconda invece, cui facevano capo gli atomisti, poneva le sorgenti della luce fuori dall’uomo e l’occhio come punto di arrivo anziché di partenza.

 

Sopra un busto di Pitagora e a lato quello di Democrito, cui si devono le due principali teorie sulla visione della fisica greca classica.

 

Il libro più antico giunto fino a noi sull’argomento è l’Ottica di Euclide (III secolo a.C.). Qui, postulando vera l’ipotesi dei pitagorici, il matematico ipotizzò che i raggi luminosi si propagassero in linea retta e mise così per iscritto le prime intuizioni di ottica geometrica. I principi di quest’ultima d’altronde dovevano essere ben noti all’epoca, dato che la leggenda vuole che Archimede, durante l’assedio di Siracusa del 287 a.C. da parte dei Romani, riuscisse a incendiare la flotta nemica grazie a un sistema di specchi. Ciò non gli impedì di morire poco dopo per mano di un soldato, di cui, concentrato sulla dimostrazione di un problema, non aveva considerato la spada. Quando si tratta di vita o morte, meglio occuparsi di fisica piuttosto che di matematica.

Ma fu Tolomeo nel II secolo d.C. a scrivere il primo grande trattato di ottica, in cui parlò della natura della luce, della visione e del colore. Quest’opera purtroppo è andata quasi completamente perduta, ma fu di fondamentale importanza perché nell’Alto Medioevo passò nelle mani degli Arabi che, uniti sotto l’Islam, vivevano in quel periodo la golden age ed essendo molto tolleranti verso le diverse fedi delle popolazioni conquistate, ne assimilarono facilmente le specifiche nozioni scientifiche. Furono proprio loro infatti a tramandare l’opera di Tolomeo (il cui frammento sopravvissuto è proprio in arabo), ad occuparsi di luce e, in particolare, dell’occhio e della visione. È noto che i medici arabi erano in grado di fare veri e propri interventi di cataratta. Fra tutti, ricordiamo Ibn al-Haytham (965-1040), noto in Occidente come Alhazen, scienziato geniale, filosofo niente male e soprattutto autore dell’Opticae Thesaurus. Opera questa, meglio conosciuta come Kitab al-Manazir (che significa proprio “Libro di Ottica”) o anche come De aspectibus, che in effetti è un tesoro vero e proprio: nei sette libri che la compongono Alhazen non solo risolve un gran numero di problemi ottici, ma arriva a studiare le proprietà delle lenti e la camera oscura, che usò come modello per descrivere l’occhio.

 

Schema ottico di Alhazen.

Schema ottico del processo della visione descritto da Alhazen. Dallo schema sono evidenti le profonde conoscenze mediche dello scienziato: i nervi ottici collegano cervello e bulbi oculari.

 

Alhazen.

Alhazen.

 

Analizzando il processo della visione, capisce che, fra l’emettitiva e l’intromissiva, l’ipotesi corretta è quella degli atomisti: l’occhio non invia dei “raggi visivi”, bensì riceve l’informazione dall’esterno. Ed è proprio con questo librone che incontriamo la prima ricorrenza che l’anno della luce festeggia: Alhazen lo ultimò fra il 1011 e il 1021. Dunque sono passati circa 1000 anni dalla nascita dell’opera cui si deve una prima interpretazione moderna della vista e del funzionamento dell’occhio.

Questa, insieme a molte altre del mondo arabo, lentamente passò in Europa, dove intanto, specialmente in ambito pittorico, si cominciava a studiare la prospettiva. Si pensi, per esempio, in Italia ai lavori di Giotto. Con il Rinascimento e l’avvento della stampa, la diffusione dei classici e degli scritti dei medici arabi divenne capillare e la riscoperta della fisica greca portò gli studiosi a dividersi nuovamente sul problema della visione: che relazione c’è fra gli oggetti che esistono realmente nel mondo esterno e l’immagine che di essi vediamo? Pitagora e Democrito ancora si contendevano la scena.

Fu Keplero a mettere un punto fermo sulla questione, confermando e approfondendo le teorie di Alhazen. La pubblicazione della sua Ad Vitellionem paralipomena, quibus astronomiae pars optica traditur (detto Optica) nel 1603 segna la data di nascita dell’ottica fisica e geometrica moderna. Il Vitellio del titolo è la latinizzazione di Witelo, il monaco polacco cui si deve la trascrizione dell’opera di Alhazen: partendo dal confronto con la camera oscura, Keplero conduce in dettaglio uno studio fisiologico dell’occhio, descrivendo per la prima volta la funzionalità della retina e il ruolo del cristallino. Osservazioni sperimentali confermeranno il suo lavoro. Certamente Keplero è meglio noto per i suoi lavori in campo astronomico. E infatti è soprattutto dall’osservazione del cielo che nasce il suo interesse per l’ottica. Tuttavia, al tempo della pubblicazione dell’Optica, l’astronomia era una disciplina ben distinta dalla fisica perché era una scienza tutta matematica. Le osservazioni della volta celeste venivano complessivamente fatte a occhio nudo. E non si trattava di un limite tecnologico: il cannocchiale era uno strumento ben noto all’epoca. Solo che non veniva in mente a nessuno di usarlo per studiare l’universo. Il primo a pensare di puntarlo verso il cielo fu Galileo. Un’idea che rese il suo cannocchiale il primo telescopio e la sua vita un inferno. All’epoca le lenti erano considerate una curiosità da circo, in quanto alteravano la visione della realtà, quindi non esisteva una spiegazione tecnica del funzionamento del cannocchiale, e la cosa d’altronde non interessava. Si aveva poi il vizio di trattare la Bibbia come un testo scientifico, esattamente come oggi soffriamo dell’altrettanto malsana abitudine di leggere libri di scienza come testi sacri. Erano poi tutti molto affezionati alla visione aristotelica di un universo perfetto e immutabile e così a ciò che Galileo vide e scoprì con il suo cannocchiale da strapazzo non credette quasi nessuno. Fino a che le sue osservazioni non furono confermate da Keplero, il quale, al contrario dello scienziato pisano, era Mathematicus Imperiale, il genere di carica che conferisce una certa autorevolezza. Si cominciò dunque a scrutare la luce che viene dall’universo in modo diverso e questo portò a un’interpretazione più profonda dell’universo stesso. Con gli studi teorici che Keplero condusse poi sulle lenti, si cominciò a considerarle degne di interesse e si ebbe una prima trattazione moderna del loro funzionamento.

Bene, a questo punto era chiaro che la luce non proviene da noi, ma da sorgenti esterne e l’occhio si comporta come una complessa camera oscura. Ma di che cosa è fatta questa luce? E come fa a propagarsi? È istantanea? Cartesio pensava di sì: ipotizzò che la velocità della luce fosse infinita. Ma venne presto smentito: le osservazioni delle eclissi dei satelliti di Giove del 1675 del danese Ole Rømer (1644-1710) mostrarono che questa era molto elevata, ma finita e determinabile.

Sulla sua natura fondamentale invece, Cartesio pensava che la luce fosse composta da tanti piccoli corpuscoli. O particelle, come diremmo oggi. Il filosofo francese ha in generale il merito di aver stabilito una distinzione chiara fra gli oggetti e la percezione che si ha di essi: la sua teoria si basa sul fatto che tutte le sensazioni che possiamo provare sono dovute a dei corpuscoli che colpiscono gli organi di senso, che a loro volta inviano informazioni al cervello. Quindi lo stesso doveva valere per la luce e sulla base di questo modello corpuscolare diede spiegazione di molti fenomeni, fra cui la riflessione, la rifrazione e i colori. Questa teoria ebbe un importante sostenitore, che le permise di essere per circa un secolo quella più apprezzata. Un sostenitore che sulla luce fece, nel 1672, un esperimento fondamentale. Si tratta di Newton. In quello che chiamò Experimentum crucis (Esperimento Cruciale), vide che, semplificando il risultato di un apparato sperimentale parecchio complicato, un raggio di luce solare attraversava un prisma di vetro e ne usciva scomposto in tutti i colori dell’arcobaleno. La luce bianca contiene quindi tutti i colori e ciascuno di essi subisce all’interno del prisma una deviazione con un certo angolo di rifrazione.

 

Prisma

Il celebre esperimento del prisma di Newton fu accolto molto freddamente nella comunità scientifica del tempo, soprattutto perché era molto difficile da replicare.

 

Ma, in netto contrasto con la teoria corpuscolare, Christiaan Huygens (1629-1695) pubblicando il suo Traité de la lumière (Trattato sulla luce) nel 1690 pose inizio a un dibattito fra i più avvincenti della storia della scienza. Il fisico olandese, infatti, riprendendo una teoria del 1665 di Hooke, propose che la natura della luce fosse ondulatoria, ovvero che si trattasse di oscillazioni come quelle che si propagano in uno specchio d’acqua se vi gettiamo un sasso o quelle vibrazioni dell’aria che vanno sotto il nome di suono.

Fu solo con alcune scoperte dell’Ottocento che arrivarono pesanti conferme di questa teoria. Nel 1801 il medico e fisico inglese Thomas Young (1772-1829) con l’esperimento della doppia fenditura descrisse il fenomeno dell’interferenza della luce. Si accorse cioè che nella propagazione della luce si verificano effetti di sovrapposizione tipici delle onde.

 

Doppia fenditura

L’esperimento della doppia fenditura di Young mostra che la luce è soggetta a un fenomeno caratteristico delle onde, l’interferenza, che, se costruttiva, porta ad avere sullo schermo le frange luminose, se distruttiva porta a vedere le zone d’ombra. Per luce monocromatica si intende che il fascio è selezionato a un determinata frequenza.

 

Questo risultato venne utilizzato da Augustin-Jean Fresnel (1788-1827) per interpretare un altro importante fenomeno che la teoria corpuscolare riusciva a spiegare solo parzialmente: la diffrazione, ovvero le deviazioni dei raggi luminosi non dovute né a riflessione né a rifrazione. Nel 1815 pubblica il suo Premier mémoire sur la diffraction de la lumière, di cui festeggiamo in questo anno della luce il bicentenario, e qui dà una completa descrizione matematica del fenomeno.

E proprio in questi anni viene scoperta la “luce invisibile”: nel 1800 il fisico William Herschel prende il prisma di Newton e replica l’esperimento di rifrazione della luce solare, andando poi a misurare con un termometro a mercurio la temperatura dei vari colori. Ebbene il termometro segnava che la temperatura cresceva dal viola al rosso e continuava a salire anche al di là del bordo rosso dell’arcobaleno prodotto dal prisma, dove già non si vedeva più nulla. Herschel scoprì così l’infrarosso, un tipo di luce che viene rifratta dopo il rosso e a temperatura più alta. E soprattutto, un tipo di luce che non si vede. Poco dopo vengono rilevati i raggi ultravioletti, anch’essi invisibili, ma dalla parte opposta dell’arcobaleno, oltre il blu e il viola. Secondo la definizione che abbiamo preso per buona, non possiamo chiamarli “luce”, proprio perché non li vediamo. Ma se è vera la teoria ondulatoria, se possiamo cioè interpretare la luce come un’onda, devono essere onde anche queste, con la differenza che oscillano a una frequenza minore (nel caso degli infrarossi) o maggiore (per gli ultravioletti) rispetto alla frequenza tipica dei colori. Allora possiamo ribaltare il discorso: quella che chiamiamo luce è un’onda che può assumere valori di frequenza ristretti a un determinato intervallo rispetto all’insieme di tutti i valori possibili, che viene chiamato spettro. Quindi la luce è la parte visibile dello spettro delle radiazioni. In particolare, il visibile è proprio l’intervallo di frequenze in cui si ha il picco di emissione solare, cioè noi vediamo proprio la radiazione che il Sole emette. Ma questo non è così sorprendente. Evoluzionisticamente parlando, forse non saremmo andati molto lontano da ciechi.

 

Spettro luce

Lo spettro della luce visibile è un intervallo di frequenze molto piccolo rispetto all’intero spettro delle radiazioni. Per identificare le onde che lo compongono, al posto della frequenza si può usare la lunghezza d’onda, che è la distanza fra due creste (o due ventri). Si misura in metri ed è data dal rapporto fra la velocità della luce e la frequenza.

 

Queste considerazioni ci permettono di aggiungere che i corpi in generale possono emettere, assorbire, riflettere o trasmettere la luce. In particolare, gli oggetti che non emettono, riflettono le onde che non assorbono e non trasmettono e queste onde riflesse ci restituiscono il colore dell’oggetto in questione. Se si tratta di un metallo però, esso rifletterà tutte le frequenze del visibile e si comporterà perciò da specchio. Un filamento di tungsteno percorso da corrente invece è una nota sorgente luminosa. A seconda di come è fatto il materiale che stiamo considerando quindi, la luce che su questo incide o che da esso proviene sarà in generale diversa. Cioè, capovolgendo il ragionamento, la luce ci dà informazioni sugli oggetti che la emettono, o con cui li illuminiamo. Da qui nasce a metà ottocento un ramo della fisica e della chimica: la spettroscopia. Studiando gli spettri di emissione o di assorbimento dei corpi si può capire di cosa sono fatti. Grazie alla spettroscopia, per sapere di cosa è fatta una stella non abbiamo bisogno di andare a prenderne un campione.

Il culmine dell’interpretazione ondulatoria della luce, a livello di sintesi delle conoscenze acquisite, venne dato dal lavoro di James Clerk Maxwell del 1865: A dynamical theory of electromagnetic field. Il concetto profondo che il fisico scozzese intuisce è che elettricità, magnetismo e ottica sono tutte facce della stessa medaglia: la luce è un’onda elettromagnetica, cioè è costituita da un campo elettrico e un campo magnetico che oscillano perpendicolarmente alla direzione di propagazione. Esprime quest’idea in quattro equazioni i cui protagonisti sono proprio i campi elettrico e magnetico e le loro sorgenti, rispettivamente le cariche e le correnti elettriche. Le equazioni stabiliscono come sono legate fra loro queste entità e combinandole insieme si ritrova un’equazione che caratterizza tutti i fenomeni ondulatori, nota come equazione delle onde.

 

ondaelettomagnetica

Un’onda elettromagnetica è composta da un campo elettrico e uno magnetico che si propagano perpendicolarmente l’uno rispetto all’altro e rispetto alla direzione di propagazione.

 

Questo è il capolavoro della fisica classica ed è forse la ricorrenza più importante che celebriamo con l’anno della luce.

A questo punto sembra chiaro che la luce è un’onda. Come il suono. Ma qualcosa non quadra… il suono si propaga nell’aria. Le onde del mare si propagano nella sua acqua, quelle di un terremoto nel suolo. La luce dove si propaga? Si intuiva che questo mezzo doveva essere particolarmente etereo, perché nessuno si era mai accorto della sua esistenza. Così etereo che fu chiamato etere. L’unico suo motivo di esistere per la verità doveva essere quello di servire da supporto alla propagazione della luce. Ma per quanti sforzi fecero, i fisici di fine Ottocento non riuscirono a rivelare tracce dell’etere in nessun esperimento. Non sarà che la luce si propaga nel vuoto? Impossibile. Esistono delle leggi, note come “trasformazioni di Galileo” che descrivono come cambia la posizione di un oggetto quando questo si muove di velocità costante rispetto a un altro. Leggi che sono di una ragionevolezza disarmante. Ebbene queste leggi non conservano la forma dell’equazione delle onde e questo è perfettamente coerente col fatto che il moto del mezzo di propagazione influisce sulla propagazione dell’onda. Il vento trascina le nostre voci. Ma allora un mezzo per la propagazione deve per forza esserci. A meno che le leggi di trasformazione di Galileo non siano da correggere. E ad Einstein l’idea che esistesse l’etere piaceva così poco che considerò proprio quest’ultima ipotesi. Con due postulati fondamentali, nella sua Zur Elektrodynamik bewegter Körper (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento), svuotò di significato la questione di trovare un moto relativo all’etere e assunse che la velocità della luce è indipendente dal moto della sorgente. Questo secondo assioma è il più semplice che si possa pensare, ma impone un ripensamento radicale dei concetti di spazio e tempo. Inoltre il fatto che la luce viaggi a velocità costante costringe a una riformulazione delle leggi di Galileo in un nuovo set di equazioni, note come “trasformazioni di Lorentz”, le quali lasciano invariata la forma dell’equazione delle onde. Era il 1905 e nasceva così la teoria della relatività ristretta. Essa chiarisce che le leggi di Galileo sono un caso particolare delle trasformazioni di Lorentz e sono valide a velocità molto minori della velocità della luce, che indichiamo con c. Quando ci si avvicina a c, cominciano a succedere cose strane: fra i fenomeni più immediati della teoria vi sono la contrazione delle lunghezze e la dilatazione degli intervalli temporali. La coordinata tempo in particolare acquisisce la stessa dignità della coordinata spazio. Ovvero, detto in altri termini, il tempo non è più assoluto, non rimane costante in ogni sistema di riferimento.

Possiamo quindi finalmente dire che la luce si propaga nel vuoto e dare ormai per scontato che è un’onda. Peccato che Einstein lo stesso anno decise di demolire anche l’idea di luce come onda, cui tutti si erano tanto affezionati. Postulandola composta di pacchetti di energia che chiamò “fotoni”, Einstein spiegò un fenomeno che classicamente non tornava, noto come effetto fotoelettrico. Consiste nell’emissione di corrente elettrica da parte di un materiale illuminato da una qualche sorgente luminosa. Fu considerato a lungo il primo esperimento di ottica quantistica, perché introducendo il concetto di fotone Einstein quantizzò la luce, cioè la assunse composta da un numero discreto di particelle. Ma a torto: l’effetto fotoelettrico in realtà può essere spiegato benissimo quantizzando la sola materia. Cioè, a patto di descrivere il materiale illuminato come composto da atomi (cosa all’epoca comunque non scontata), per rendere conto di questo fenomeno si può trattare la luce come un’onda.

 

effetto fotoelettrico

Per effetto fotoelettrico, un metallo fotosensibile illuminato da una certa radiazione emette corrente, cioè cariche in moto (nello specifico, elettroni).

 

Ma allora la natura della luce qual è? È ondulatoria o particellare? Le equazioni di Maxwell sono da buttare o Einstein è un folle? Risponderà a queste domande la meccanica quantistica, una nuova teoria che prende piede negli anni Venti e che nasce per spiegare fenomeni incompatibili con le leggi della meccanica classica. Come nella relatività di Einstein a velocità prossime a c succedono cose strane, così accade anche a scale piccolissime, dell’ordine delle dimensioni di un atomo. In particolare, la meccanica quantistica afferma che luce e la materia compartecipano di una doppia natura, corpuscolare e ondulatoria. Queste nature coesistono, ma a seconda dell’esperimento che decidiamo di fare metteremo in luce o la prima o la seconda. Cioè tendenzialmente non possiamo vederle entrambe contemporaneamente. Inoltre, quando le dimensioni in gioco sono quelle cui siamo abituati, le stranezze si diradano e le leggi della meccanica quantistica si riducono a quelle della fisica che conosciamo, quella di Newton e Galileo. Quindi la luce è sì composta da fotoni, ma a livello macroscopico la natura che rileviamo è quasi sempre quella di onda. Al contrario della materia, vedere la natura corpuscolare della luce non è banale, produrre singoli fotoni in modo efficiente poi è tutt’oggi un compito arduo. E infatti per l’appunto il primo vero esperimento di ottica quantistica non l’abbiamo nel 1905 con Einstein, ma nel 1977.

Poiché si è sentito, come spesso accade nel mondo scientifico, la necessità di fare qualcosa di utile, nel Novecento sono fiorite un gran numero di applicazioni legate a questi risultati teorici. Grazie alla fisica dei quanti, si sono scoperte proprietà della luce che hanno dato vita a tecnologie prima impensabili.

Se colpisco un atomo eccitato, cioè dotato di una certa energia, con un fotone, quell’atomo può emettere un altro fotone. Questo fenomeno è noto come “emissione stimolata” ed è alla base del laser (che infatti è un acronimo di Light Amplification by Stimulated Emission Radiation).

 

Emissione spontanea

Schema esemplificativo del processo di emissione stimolata: un atomo eccitato colpito da un fotone torna allo stato fondamentale ed emette un fotone (sopra). Il laser (sotto) è un fascio di luce monocromatica coerente ed è dovuto al controllo dell’emissione stimolata di un gran numero di atomi.

 

Ma se anche non agisco in nessun modo su un atomo eccitato, questo di per sé tende a portarsi nello stato di minima energia, cedendo un fotone. In questo caso l’emissione è detta spontanea e su questa si basa il funzionamento delle lucine LED (Light-Emitting Diode). L’emissione spontanea è un fenomeno profondo, legato all’esistenza di fluttuazioni dell’energia di vuoto previste dalla meccanica quantistica.

 

laser

 

Emissione spontanea 2

Schema esemplificativo del processo di emissione spontanea: un atomo in stato eccitato, anche se non viene colpito da nessun fotone, dopo un certo tempo caratteristico spontaneamente decade sullo stato fondamentale (sopra). I LED (sotto) sono particolari semiconduttori che, se percorsi da corrente sotto opportuna polarizzazione, emettono luce proprio sulla base di questo fenomeno.

 

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Olympus Digital Camera.

 

La disciplina che si occupa di generare, controllare e rilevare singoli fotoni atti a sviluppare tecnologie come queste è la fotonica e, dato l’enorme sviluppo che il mondo dell’ottica cavalca in questi anni, pare che il ventunesimo secolo starà alla fotonica come il ventesimo è stato all’elettronica. Una disciplina molto recente poiché nasce con l’avvento del laser, negli anni Sessanta.

La luce non ha quindi finito di sorprenderci, così come non ha smesso di nasconderci i suoi misteri. E per quanta fiducia possiamo avere nella scienza, ovvero nell’uomo, ci sono molti aspetti della luce che sono probabilmente destinati a rimanere nell’ombra. Meno male.

 

aurora-boreale-lapponia-4

L’aurora boreale è un fenomeno luminoso pieno di fascino e di mistero. Tuttavia ora è ben compreso: è dovuto alle violente tempeste solari cui è costantemente sottoposta la Terra. Le particelle cariche che arrivano dal Sole colpiscono gli atomi della ionosfera e li eccitano. Decadendo per emissione spontanea, questi emettono quei fotoni che prima di essere descritti in questo modo ispiravano tanta poesia.

 

di Giovanni Chesi

 

Linkografia:

http://iyl2015.inaf.it/

http://www.sif.it/attivita/iyl2015

http://blog.physicsworld.com/2015/01/19/let-the-international-year-of-light-begin/

https://www.facebook.com/groups/IYL2015.Italy/

http://www.light2015.org/Home.html

http://www.phys.uniroma1.it/IYL2015/home.html

http://www.sif.it/attivita/iyl2015/opening

http://www.anisn.it/matita_ipertesti/visione/scienza%20greca.htm https://it.wikipedia.org/wiki/Alhazen

http://amslaurea.unibo.it/815/1/Bernardi_Federico_Mattia_L’Ottica_di_Euclide_e_la_scienza_della_visione.pdf

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