(Colore, digitale HD, 65’ – ITALIA 2013 )
Renata Pfeiffer, pittrice milanese nata nel 1930, opera nell’arte dal 1958, data a cui risale il suo primo dipinto, un ritratto ad olio della figlia Laura a cinque anni. Da allora ha attraversato il mondo dell’arte milanese e non solo seguendo un suo percorso personale, riconosciuto da critici e letterati, del calibro di Dino Buzzati, Raffaele Carrieri, Liana Bortolon, che è partito con un uso particolarissimo dei colori a smalto industriale, per descrivere, negli anni ’70-’80, il mondo delle periferie e dei cantieri urbani, soprattutto di Milano, con una ricerca applicata all’esaltazione grafica dei macchinari che rappresentano la costruzione della città che cresce, come le gru, gli schiacciasassi, i tralicci, contrapposti e il più delle volte integrati a segmentare il paesaggio in trame aeree. Sulla scorta delle ricerche di Mondrian, Renata si è avvicinata gradatamente ad un livello di astrazione che non prescinde mai, come lei stessa dichiara nel film, dal dato figurativo, perché per lei “l’astratto non esiste”, con risultati coloristici e compositivi preziosi. Nel corso degli anni ed in parallelo, Renata, essendo anche giornalista ed avendo collaborato con varie testate di giornali per ragazzi, ha potuto affiancare il lavoro del marito, Enrico Bagnoli, uno dei grandi illustratori italiani (per Fabbri, Mondadori, Ghisetti e Corvi, fino a Martin Mystere per Bonelli), venuto a mancare di recente, contribuendo alla stesura di soggetti e sceneggiature nel campo dei fumetti. Purtroppo negli anni ’90 l’uso protratto degli smalti industriali si è rivelato tossico per Renata, provocandole un tumore. Questo ha determinato in lei un doloroso abbandono dei materiali fino allora usati e una ricerca continua di nuovi mezzi di espressione. All’inizio di quest’anno la sua creatività si è manifestata attraverso l’uso dei metalli, dando il la ad una produzione, sorprendente per tecnica e carattere innovativo. In ottobre ha esposto alla Fondazione Luciana Matalon, in Foro Bonaparte a Milano, le sue 35 nuove opere incentrate sul mondo degli abissi marini e realizzate in metalli vari, alluminio, rame, bronzo, residui di gioielli e minuterie, pietre semipreziose, scarti di fonderia, fili e lamine, di unasorprendente bellezza, in bilico e in sintesi tra la figurazione e l’astrazione. Nella ricerca di nuovi materiali, Renata è riuscita a riciclare vecchie radiografie di famiglia, sfruttando le loro trasparenze, per rappresentare il suo fantastico mondo subacqueo, (“è stato come sprofondare negli abissi del corpo”) in un’inedita ed originalissima forma di body art, ancor più sorprendente in un’artista che ha ben 82 anni.
Il film ricostruisce, attraverso un’intervista confidenziale alla Pfeiffer, il percorso umano ed artistico dell’artista. Analizziamo con lei il mondo delle sue origini austriache, con preziose e vivide notazioni sul clima culturale e politico degli anni ’30 a Milano. Entriamo poi nello specifico pittorico, passando in rassegna con lei le sue influenze, da Mondrian a Picasso, Da Klee a Egon Schiele, di cui Renata ci racconta un episodio personale capitato alla madre, probabile modella de “La donna in rosso” del pittore, nella Trieste inizio secolo. Nella seconda parte, che coincide con la descrizione della mostrad ell’ottobre 2012, il ritmo del film cambia, contaminandosi di jazz e di rock (attraverso, anche e soprattutto, le musiche originali composte per il film da Lorenz -Lorenzo Farolfi) per coincidere con la brutalità e la fatica fisica che comporta l’impiego e la lavorazione dei nuovi materiali usati dall’artista, di cui filmiamo anche un’integrale action- (memori de “le Mystere Picasso”, di Henri George Clouzot, caposaldo del cinema sul mondo degli artisti). Il percorso umano è comm entato e contrappuntato anche da alcune immagini amatoriali familiari dell’artista, che ricordano l’omaggio alla madre, fatto da Alina Marrazzi in”Un’ora sola ti vorrei” (la co regista del film è la figlia di Renata, Laura Bagnoli) .
Altro fondamentale contrappunto all’intervista sono i sei cortometraggi di animazione, volutamente artigianali, realizzati appositamente per il film, in cuielementi dei quadri di Renata, una bicicletta, un aquilone, una tessera di mosaico, prendono vita staccandosi dalla tela e passano in rassegna, trasvolando o percorrendo altri quadri, uniti stilisticamente tra loro, creando un trait-d’union, un fil rouge tra le tele e la loro fonte di ispirazione, urbana od industriale. Questi corti finiscono per individuare, con l’utilizzo di uno strumento “artistico” come l’animazione, l’universo espressivo della Pfeiffer, dandone una chiave interpretativa, rintracciando temi, ricorrenze stilistiche, progressione della sua ricerca personale, per culminare in una vera e propria full immersion nel corto conclusivo, “Renata degli abissi”, dove l’intera ultima produzione della pittrice si immerge letteralmente nel mare, per entrare in simbiosi o contrappunto con l’incredibile fauna sottomarina delle profondità negli abissi.
Il documentario contamina linguaggi ed immagini, creando inquadrature composite, sovraimpressioni, split-screen, morphing, stili espressivi, facendo propria la lezione di originalità di “32 piccoli film su Glenn Gould” di François Girard, punto fermo del cinema biografico, cercando di entrare nel vivo del “corpo pittorico”, del colore, dei materiali e della psiche di un’artista unica e coraggiosa, cercando nel contempo anche una nuova via personale, non asettica e illustrativa, nel documentario d’arte, l“art film”, un genere quanto mai difficile e controverso.
di Fulvio Wetzl