Gli anni della scuola
Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 Marzo del 1922, primo figlio di un tenente di fanteria, Carlo Alberto Pasolini, discendente da un’antica nobile famiglia romagnola e di Susanna Colussi, maestra elementare discendente da una famiglia contadina friulana di Casarsa nel tempo pervenuta al ceto di piccola-borghesia.
Condizionato dalla carriera militare del padre, Pier Paolo trascorre l’infanzia in città diverse, sparse fra il Veneto e l’Emilia, tra Bologna, Parma, Cremona e Belluno, dove nasce suo fratello, il secondogenito Guido Pasolini.
Pier Paolo crescerà sotto la maggior influenza della madre, donna idealista e sognatrice, con la quale stabilirà un fortissimo legame per tutta la sua vita e alla quale dedicherà le prime ricerche di poetica dialettale friulana e gli studi di filologia romanza.
Durante le trasferte cinematografiche non dimentica mai di scrivere alla madre che chiama affettuosamente “Picinina” o anche “Cicciona”.
Durante gli anni del liceo, a Conegliano, il giovane Pasolini fonda un gruppo letterario di critica poetica al quale aderiscono Fabio Mauri, Ermes Parini, Luciano Serra e Franco Farolfi e iscrittosi all’Università di Bologna, alla facoltà di Lettere, scrive il suo primo volume di poesie, oltre che in lingua italiana anche in dialetto friuliano, intitolato Poesie a Casarsa.
Tra il ‘42 e il ’43 collabora a Il Setaccio, periodico della sezione bolognese della Gioventù Italiana del Littorio.
Nel 1943 Pasolini viene arruolato a Livorno, ma nello stesso anno fugge, dopo essersi rifiutato di consegnare le armi ai tedeschi.
Dopo essersi laureato parte alla volta del Ginnasio di Versutta, una frazione di Casarsa, dove dal ‘44 vi insegnerà stabilmente.
Per promuovere il dialetto friuliano, il 18 febbraio del 1945, fonda l’Accademiuta di Lengua furlana alla quale aderiscono molti dei suoi studenti, per lo più figli di contadini.
Ovidio Colussi, poeta e scrittore, sindaco di Casarsa negli anni settanta, e allievo alla scuola privata dove insegnava Pasolini, così lo ricorda: «Pasolini ci ha insegnato a parlare e a scrivere nella “lenga furlana di Ciasarsa”, quando a scuola il maestro ci sgridava: “Animali, parlate italiano e non friulano!”. Ed era una lingua che fino allora nessuno aveva mai usato se non in famiglia».
Nell’agosto 1945 l’Accademiuta di Lengua furlana stampa il suo primo Stroligut con i racconti e le poesie degli alunni. Così ricorda ancora Ovidio Colussi. «L’attività dell’Academiuta proseguì fino al 1947, quando uscì l’ultima pubblicazione, la quinta dopo quattro Stroligut, col titolo di Quaderno romanzo. Memorabile fu la spedizione a San Daniele il 21 settembre ‘45, al congresso della Filologica, per cercare di vendere il terzo Stroligut della serie, appena uscito. Pier Paolo, Castellani, Girardi e io partimmo in bicicletta con un pacco di quasi trecento libretti. Al congresso, che delusione!, Offrimmo, girando per ore tra i partecipanti, il nostro Stroligut. Qualcuno lo sfogliava, qualcuno chiedeva: Che roba zeela? Cosa costelo? E la conclusione era la stessa: No grassie! A un certo punto, però, uno dei delegati chiamò Pasolini vicino a sé, si alzò, fece fare silenzio e disse: “Vedete questo giovane? Farà molta strada. Tra non molto sentirete parlare di lui. Comperategli lo Stroligut”. Era Chino Ermacora, uno che – oggi lo chiameremmo talent scout – di Pier Paolo aveva capito tutto. Ma, nonostante la spinta del noto giornalista, il bilancio… economico della giornata fu comunque negativo: vendemmo appena una trentina di copie».
Nel 1945 Guido, il fratello più piccolo di Pier Paolo, che aveva scelto la lotta partigiana nella divisione di Osoppo, viene ucciso nelle malghe di Porzus, mentre fugge da un gruppo di garibaldini che vuole costringere il suo comparto a passare alle armi.
Quell’anno Pierpaolo dedicherà al fratello alcuni versi, che pubblicherà sullo Stroligut, Corus in morte di Guido: La livertat, l’Itaia e quissa diu cual distin disperat a ti volevin dopu tant vivut e patit ta quistu silensiu Cuant qe i traditours ta li Baitis a bagnavin di sanc zenerous la neif, “Sçampa – a ti an dita – no sta torna’ lassu'” I ti podevis salvati, ma tu i no ti às lassat bessòi i tu cumpains a muri’. “Sçampa, torna indavour” I te podevis salvati ma tu i ti soso tornat lassu’, çaminant. To mari, to pari, to fradi lontans cun dut il to passat e la to vita infinida, in qel di’ a no savevin qe alc di pi’ grant di lour al ti clamava cu’l to cour innosent.
Il disonore
In quegli anni inizia anche a scrivere per Lotta e Lavoro, il settimanale del Partito Comunista Italiano, di cui diventa segretario per la sezione di SanGiovanni a Casarsa.
Il Partito non nutre molta simpatia per quel giovane intellettuale borghese che con le sue poesie dialettali distrae le masse dai veri soggetti politici di quel tempo, tra i quali anche quello di persuaderle a sposare una lingua uguale per tutti: l’italiano.
Alla fine del 1949 Pasolini viene investito una sequela giudiziaria, che a partire da una denuncia per corruzione di minorenne lo fa espellere dal PCI e nel giro di pochi giorni gli fa perdere il lavoro, ancor prima che si svolga un processo e si accertino le sue reali responsabilità. Non potendo più vivere in un clima di ostilità politica e sociale decide di lasciare Casarsa e di trasferirsi con la madre a Roma, e affrontare l’improvvisa povertà e l’emarginazione sociale da un’altra parte. Si ritrova così nelle borgate romane a correggere bozze e fare la comparsa a Cinecittà. Lui stesso racconterà così quel periodo: «Nei primi mesi del ’50 ero a Roma, con mia madre. Mio padre sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da Piazza Costaguti saremmo andati ad abitare a Ponte Mammolo. Già nel ’50 avevo cominciato a scrivere le prime pagine di Ragazzi di vita. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morirne. Poi con l’aiuto del poeta in dialetto abruzzese Vittori Clemente trovai un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino, a venticinque mila lire al mese».
Il riscatto
Durante la collaborazione sulla rivista Paragone, di Anna Banti e Roberto Longhi, pubblica il primo capitolo del suo primo romanzo Ragazzi di Vita e insieme a Mario dell’Arco, nel 1952, cura un’Antologia letteraria, che comprende per la prima volta, nella storia dell’editoria scolastica i più importanti rappresentanti della poesia dialettale del Novecento e grazie a loro esplora la poesia dialettale di tutto il Bel Paese: da Napoli (Di Giacomo, Galdieri, Russo, Viviani), alla Sicilia (Guglielmino, Vann’antò); dalla Sardegna (Salvatore Casu) alla Calabria (Michele Pane); da Roma (Cesare Pascarella, Trilussa, Dell’Arco) a Milano (Tessa, Gambirasio); dal Piemonte (Nino Costa, Pinin Pacot) alla Liguria (Edoardo Firpo, Acquarone); dall’Emilia Romagna (Testoni, Pezzani, Guerra) alle Venezie (Noventa, Virgilio Giotti, Biagio Marin, E. Ferdinando Palmieri) al Friuli (Argeo, Pasolini, Franco Di Gironcoli, Naldini).
Nel 1955, finalmente Garzanti pubblica Ragazzi di vita, accolto con grandissimo successo sia dalla critica sia dal pubblico.
Il PCI però definisce questo libro incline a «un gusto morboso, dello sporco, dell’abietto, dello scomposto e del torbido» e l’allora ministro degli interni Tambroni decide di ritirare il libro e di avviare un azione giudiziaria contro l’editore, Livio Garzanti e l’autore. Dopo un anno, il processo si conclude con la piena assoluzione perché “il fatto non costituisce reato” e la libera vendita del libro.
Nonostante i giornali di cronaca nera continuino a perseguitarlo, con ogni sorta di accuse, quasi sempre fantasiose, Pasolini è ormai lanciato nel firmamento del cinema, dove nel ’57 inizia a collaborare con Fellini per la stesura dei dialoghi del suo film Le notti di Cabiria, tutti rigorosamente in dialetto di borgata. Nel contempo, però, non rinuncia alla sua vocazione letteraria e pubblica uno dopo l’altro: Le Ceneri di Gramsci, L’Usignolo della Chiesa Cattolica, Passione e ideologia e La religione del mio tempo.
Nel ’60 esordisce come attore ne Il gobbo e nel ’61 dirige il suo primo film l’Accattone, basato su un suo soggetto cinematografico. Il film, vietato ai minori, viene molto discusso dalla critica al festival di Venezia.
Ormai inarrestabile, parte con una serie di produzioni cinematografiche che saranno tra le pietre migliari della storia del cinema italiano: nel ’62 Mamma Roma, nel ’64 ll Vangelo secondo Matteo, nel 1965 Uccellacci e Uccellini, nel 1967 Edipo re, nel 1968 Teorema, nel 1969 Porcile, nel 1970 Medea, fra il 1970 e il 1974 Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte e nel 1975 l’ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Pasolini giornalista scomodo
Nel 1973 Pasolini inizia a collaborare anche con il “Corriere della Sera”, scrivendo articoli sulle problematiche del Paese e dando del filo da torcere un po’ a tutti. Ecco cosa scrive sul Corriere della Sera, il 14 novembre 1974.
“Cos’è questo golpe? Io so. di Pier Paolo Pasolini”
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti.
Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.
Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere.
In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.
In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità.
È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro.
E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni?
È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti.
E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti.
Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).
Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
L’assassinio di Pier Paolo Pasolini
La mattina del 2 Novembre 1975, in un campo abbandonato in via dell’idroscalo, lungo il litorale di Ostia, una donna scopre il cadavere di Pier Paolo Pasolini.
Così, ricorda quel giorno Ninetto Davoli, chiamato a riconoscere il corpo di Pier Paolo. “Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e l’altro nascosto dal corpo. .. I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nero livide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segni dei pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un’orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato”. (Corriere della Sera, 2 novembre 1977). Pasolini è ora sepolto a Casarsa.
Il Processo
Nella notte, prima del ritrovamento del cadavere, Giuseppe Pelosi, diciassette anni, viene fermato dai carabinieri alla guida di una Giulietta 2000, di proprietà di Pasolini. Il ragazzo, sottoposto a interrogatorio confessa l’omicidio. Secondo la dichiarazione del ragazzo, i due si erano incontrati alla Stazione Termini, e dopo essersi intrattenuti a cena in un ristorante, si erano appartati, poco dopo la mezzanotte, nel campo di via dell’idroscalo sul litorale ostiense. Il Pelosi racconta che Pasolini l’avrebbe aggredito violentemente con un bastone per aver rifiutato un approccio sessuale e che lui, a quel punto, si sarebbe difeso.
Durante il processo di primo grado si ipotizza, invece, da diverse parti, il concorso nell’omicidio di altre persone e si mettono in discussione una serie di aspetti oscuri, come il fatto che la camicia del Pelosi al momento dell’arresto per il furto dell’automobile, verso l’una e trenta del mattino, era pulita e riportava solo alcune gocce di sangue sul bordo dei pantaloni. Ora il luogo in cui Pasolini viene pestato non era asfaltata ed era fangosa. Come mai la camicia del Pelosi era pulita sebbene lui stesso dichiara di essere caduto più volte a terra durante la colluttazione? Il ragazzo sostiene di essersi semplicemente fermato a un fontanella per lavarsi poco prima di essere arrestato per furto dai Carabinieri, senza contare che l’interno dell’auto al momento del fermo, meno di due ore dopo l’omicidio, non riporta ne tracce di fango ne tanto meno di sangue, ne sul sedile, ne sul volante, ne sui pedali.
Un’altra obiezione sollevata durante il processo è la diversa struttura fisica dei due. Pelosi è troppo esile per riuscire a sopraffare Pasolini, di costituzione decisamente più robusta e l’efferatezza dell’omicidio è tale da non potersi ricondurre a una semplice rissa fra due persone. Peraltro il Pasolini viene da tutti ricordato come persona mite e non violenta. Durante il processo di primo grado, lo stesso avvocato Guido Calvi, nell’arringa finale, legge una descrizione autobiografica scritta dalla stessa vittima: “In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia fanaticamente per la nonviolenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza, né fisica né morale, semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura, cioè alla mia cultura…”. Dacia Maraini, nel suo libro su Pino Pelosi, Io, angelo nero, scrive: “Pasolini non avrebbe mai fatto del male a nessuno, mai avrebbe minacciato e violentato. Lui semmai cercava qualcuno che, in un gioco erotico, lo malmenasse un poco. Era questo il suo segreto.”. Molte le testimonianze anonime che parlano invece di un pestaggio eseguito da più persone, come riportano alcuni giornali dell’epoca attraverso alcune testimonianze anonime degli abitanti di alcune baracche nelle vicinanze del campo.
Nella sentenza di primo grado, alla fine il Pelosi viene condannato per omicidio “con il concorso di ignoti”, ma le indagini su questi ignoti non avranno molto corso e la sentenza in Appello non spiegherà mai perché il pestaggio fosse stato così efferato e portato al limite estremo.
La sentenza di Cassazione del 26 Aprile del 1979, chiuderà la vicenda dichiarando Pino Pelosi, quale unico colpevole, per la morte di Pier Paolo Pasolini.
Le ragioni dell’omicidio secondo lo storico Giorgio Galli.
Lo storico Giorgio Galli nel suo libro Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo, scrive: «[..] Se si parte dall’ipotesi che Pasolini, nonostante la sua cautela, abbia potuto essere attirato in un agguato, si riduce l’importanza della presenza attiva di più persone. Qualcuno poteva essere sul luogo per aiutare Pelosi (tesi del Tribunale), oppure questi ha agito fulmineamente da solo (tesi della Corte d’Appello), magari controllato sul posto da qualcuno non attivo, ma pronto a intervenire in caso di necessità. Questa ipotesi richiede una spiegazione su chi e perché abbia contattato Pelosi a quello scopo. Sul “chi” non occorre affaticare la fantasia: le cronache di quegli anni sono gremite di poteri occulti, di servizi deviati, del crimine organizzato che fornisce strutture e operatori per azioni di finta destabilizzazione e di autentica stabilizzazione politica. Non vi è che l’imbarazzo della scelta. Pelosi è stato uno strumento. Ora può continuare la sua vita di emarginato senza gloria, perché, se volesse raccontare qualcosa, sa quel che gli costerebbe e che nessuno gli crederebbe. Quale era l’obiettivo dell’agguato? Personalmente ritengo probabile una delle “causali” suggerite dal Tribunale: si voleva “dare una lezione” a Pasolini, ma non per uno “sgarbo”, bensì per quello che egli rappresentava nel momento politico, così come, un paio d’anni prima per la stessa ragione, si era voluta dare una “lezione” all’attrice Franca Rame (Il 9 marzo del ’73, Franca Rame viene sequestrata da cinque individui dell’estrema destra che la obbligano a salire su un furgone e a turno la stuprano. Il procedimento penale, conclusosi a Febbraio del 1998, prescrisse il reato. Il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo, affermò che “un crimine del genere non nasce a livello locale”, alludendo quindi, che dietro l’avvenimento ci fosse “una volontà molto superiore” e riferendo che la notizia dello stupro fu accolta con “manifestazioni di contentezza”..). ” Ma nel “caso Pasolini” il giudizio sull’operato della magistratura purtroppo non è l’unico giudizio negativo: anche i media trattarono la vicenda in modo a dir poco deplorevole. L’attenzione dei media si indirizzò morbosamente sul contesto degradato in cui era maturato l’omicidio, più che sul fatto in sé. I riflettori furono da subito puntati sui risvolti sessuali della vicenda, che solleticarono gli istinti, a metà fra il perbenismo ed il pruriginoso, dell’opinione pubblica. A questa banalizzazione e distorsione dell’omicidio contribuì il clima dell’epoca, in cui i pregiudizi verso gli omosessuali erano ancora più radicati e violenti di quanto non siano oggi. Le cronache si interessarono più all’inclinazione sessuale di Pasolini che ad altro, e sulle pagine di molti quotidiani la prima versione di Pino Pelosi fu presto spacciata come una verità acclarata: la storia di un “povero ragazzo” vittima delle attenzioni di un “vecchio sporcaccione”; un ragazzo che per denaro inizialmente cede alle avances dello scrittore, ma poi cerca di negarsi e, di fronte all’aggressione di Pasolini, si difende innescando una colluttazione finita in tragedia. E l’atteggiamento della stampa ricalcò, come detto in precedenza, l’approccio degli investigatori, che indagarono più nel passato della vittima che in quello dell’assassino, cercando qualche elemento che consolidasse in loro le convinzioni intimamente già maturate. E’ comunque vero che non tutta la carta stampata si distinse per questo atteggiamento superficiale. Anche sul caso Pasolini vennero condotte delle “controinchieste”; come accennato in precedenza, queste trovarono la loro punta di diamante in alcuni articoli di Oriana Fallaci e di altri giornalisti su “L’Europeo”. La controinchiesta, che tende a dimostrare la teoria del complotto ai danni del regista, è oggettivamente suggestiva e solleva molte delle questioni qui trattate finora ed altre ancora, basandosi su testimonianze di persone reticenti di fronte alle Autorità, per paura di conseguenze personali, ma disposte a parlare sotto anonimato con i giornalisti. La controinchiesta purtroppo si basa, non certo per colpa degli autori, su testimonianze contraddittorie ed inaffidabili, segnate come sono a tratti dalla reticenza e dalla paura, ed in altri momenti contraddistinte da un’ansia esibizionistica che giunse anche ad autoaccuse. Ma ancora una volta è da sottolineare che la Magistratura si disinteressò di queste piste alternative, o le valutò con superficialità. E’ vero che i giornalisti de “L’Europeo” non rivelarono le proprie fonti ai Magistrati, tutelandone l’anonimato, ma già il fatto che la stampa abbia tentato di andare più in profondità della Magistratura appare a dir poco sconcertante. [..]»
La deposizione di Oriana Fallaci – 2 dicembre 1975
A domanda risponde: «Ebbi i primi accenni in ordine all’eventualità che il Pasolini non fosse stato ucciso solo dal Pelosi, ma anche da due motociclisti, e che ciò fosse stato visto da qualcuno, e che l’iniziale versione raccolta dalla S.V. non fosse quindi esatta, da una giornalista americana del Chicago Tribune, Kay Withers, che ritengo abiti a Roma e che a sua volta riferiva voci provenienti da due giornalisti dell’agenzia Reuter. All’inizio non detti peso all’accenno, ma il racconto tornò alla mia memoria allorché ebbi un incontro con una persona che mi dette la narrazione sulla morte di Pasolini da me riportata nell’articolo Ucciso da due motociclisti? su L’Europeo. Prima della pubblicazione dell’articolo, e anche per ottenere il giudizio di un collega e per approfondire i fatti, volli avere un altro colloquio con l’individuo alla presenza del dott. Libero Montesi, vice-direttore della rivista a Roma: ma alle nostre sollecitazioni per ottenere dall’informatore il nome del testimone che dalle baracche avrebbe visto, la notte dell’assassinio, lo svolgimento dei fatti, egli si dimostrò spaventatissimo e rifiutò, dichiarando che il testimone si sarebbe rifiutato di parlare con chiunque perché aveva paura e non avrebbe parlato nemmeno “coperto d’oro”. Anche l’invito rivolto all’informatore affinché anche per scritto anonimo o telefonata il giornale potesse acquisire maggiori conoscenze, non ebbe successo, né ebbero successo ulteriori tentativi di persuasione.
Noi cercammo di appurare altre notizie dal direttore della Reuter, che disse di non sapere nulla. La Withers mi riferi poi, o almeno così dedussi da una successiva conversazione con lei, che uno dei due giornalisti della Reuter, da lei interpellato, le aveva detto di aver letto le voci relative sulla stampa. [..]»
Dopo 30 anni, nel 2010, il Comune di Roma chiede di far luce sulla morte di Pasolini
Dopo 30 anni, nel 2010, l’avvocato Guido Calvi deposita l’atto al PM Francesco Minisci per conto del Comune di Roma e riapre le indagini grazie a una videointervista girata, all’Idroscalo di Ostia, da Sergio Citti, pochi giorni dopo l’assassinio, in cui lo stesso Citti racconterà l’omicidio: «Dopo circa dieci giorni girai il video perché un pescatore mi aveva raccontato cosa aveva visto quella notte, ma non voleva essere ripreso perché aveva paura – dice Citti nel filmato – Due macchine, mi ha detto il pescatore, che ha visto entrare nell’area vicino al campetto dell’idroscalo. Il pescatore stava in una casetta, non so quale, forse una dove avevo trovato un materasso. Pasolini fu preso e tirato fuori da alcune persone, quattro cinque, che l’hanno preso e portato su una rete e cominciato a picchiare». «Il pescatore diceva che lui strillava, sentiva le grida, che ad un certo punto Pasolini ha fatto finta di essere finito, e s’è tolto la camicia insanguinata e s’è asciugato, ma che poi una macchina è tornata lì, l’ha illuminato coi fari, e quegli uomini l’hanno inseguito a piedi», continua Citti e che il pescatore ha detto di aver visto «st’uomo» alzarsi e scappare, ma poi più niente. Pasolini viene bloccato forse una bastonata e poi l’altra, la macchina parte per investirlo avanti e indietro tante volte per finirlo: una «manovra assurda e volontaria per investire il corpo», insiste Citti, «una manovra strana e che ha spostato il corpo». «La macchina,» continua Citti, «poteva andare via più comodamente e invece fa una manovra strana solo per investire il corpo di Pasolini, non certo involontariamente, come sosteneva Pelosi».
Lo stesso Pino Pelosi, rimasto solo per la morte di tumore dei suoi genitori, scontati 22 anni di carcere, decide di confessare che Pasolini non l’ha ucciso lui, ma lo hanno ucciso altre persone, tre in particolare, di età compresa fra 40/45 anni, che dopo averli sorpresi e malmenato anche lui, uccisero a morte Pasolini e imposero a lui il silenzio assoluto in cambio dell’incolumità dei suoi famigliari.
Oggi del campo di via dell’Idroscalo, ne hanno fatto un Parco Letterario, dove troneggia una bella statua in memoria di Pier Paolo Pasolini. Il monumento, pulito e sobrio nelle forme, sottolinea e ricorda a tutti la fine cruenta dell’uomo, ma non dice nulla dell’intellettuale, poco valorizzato sia da vivo sia da morto e per lo più scomodo a tutti.
di Adriana Paolini
Linkografia:
https://www.youtube.com/watch?v=ZSrkByvyDBk
https://www.youtube.com/watch?v=PpB4aqNY-tE
https://www.youtube.com/watch?v=JtQ1gfZZhXc
https://www.youtube.com/watch?v=se3cyFjC-XE
http://pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/05/pasolini-e-la-poesia-dialettale-2.html
http://videotecapasolini.blogspot.it/
http://www.pasolini.net/processi_pelosi_galli02.htm
http://www.pasolini.net/processi_pelosi_deposizionefallaci.htm
http://www.pasolini.net/processi_pelosi_cronologia.htm
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/10_maggio_4/indagini-pasolini-riapertura-1602955177839.shtml