Il Palazzo Reale di Milano, fino al prossimo Gennaio 2016, diventa la porta di un viaggio a ritroso nel tempo, che ripercorre la storia del legame eterno tra mito e natura. Un rapporto che si sviluppa attraverso l’arte che, manifestandosi nelle sue varie forme, sottolinea l’importanza pregnante di questo tema per ricostruire i caratteri più profondi della mentalità degli antichi greci e degli antichi romani. La mostra è stata ideata in occasione di Expo 2015 e, curata da Gemma Sena Chiesa e Angela Pontrandolfo ed allestita da Francesco Venezia, si inserisce nel progetto ExpoInCittà, per l’organizzazione di iniziative in città durante il periodo dell’Esposizione Universale. Terra e Mare.
La mostra si apre dunque palesando al visitatore il primo contatto dell’uomo con la natura: la percezione spaziale delle due dimensioni primarie con cui l’umanità si trova a confrontarsi: la terra e il mare. La terra ci viene raccontata come primo elemento, simbolo di nutrimento e vita per tutti gli esseri viventi. Accanto ad essa il mare, regno di Poseidone/Nettuno che, con un solo movimento del suo tridente, è in grado di tramutare l’immensa distesa dei flutti in fruttuoso terreno di pesca e commercio o pericolosissimo campo di battaglia e di tempesta.
In questa prima tappa del viaggio, la natura rimane una scenografia sullo sfondo, un paesaggio su cui le vicende umane e divine prendono vita, canalizzando ogni attenzione. Le opere esposte in questo primo spazio sono reperti che narrano storie di dei e di eroi, i miti, tanto radicati nel patrimonio culturale degli antichi da mischiarsi costantemente con la realtà quotidiana. La maggior parte di questi piccoli tesori emersi da un mondo lontano, ma mai dimenticato, sono spesso stati ritrovati in tombe, come il Podanipter del IV secolo a.C., originariamente creato per lavacri rituali, ma inserito intonso, insieme ad altre ricchezze, in un corredo funerario. Quest’opera evoca un mito caro ai Greci, quello della forgiatura delle armi dell’eroe Achille, figlio di Teti, una delle Nereidi, divinità marine minori, che in tale raffigurazione appare insieme alle sorelle, brandendo lo scudo del figlio, forgiato da Efesto/Vulcano su sua richiesta. Nel viaggio per consegnare le armi all’eroe le Nereidi sono trainate da mostri marini; vediamo dunque come in tale contesto il mare ci sia presentato semplicemente come una tela su cui il racconto prende forma.
La terra è raffigurata più spesso come terreno delle vicende umane, oltre che mitologiche; troviamo infatti esposti una serie di crateri nei quali sono ricostruite immagini di vita quotidiana, dove la terra è mostrata come sfondo sia di momenti sereni sia tormentati. Da un lato vediamo, dunque, battaglie sanguinose, in cui il nemico, a terra, svilito, è trafitto da una lancia, dopo uno scontro la cui violenza ha atterrito persino i cavalli sul campo di battaglia, mentre dall’altro emergono fronde leggiadre, alberi docili e discreti nel fare ombra a fanciulle intente a lavarsi o ramoscelli beneauguranti, tenuti tra le mani di giovani ritratti in conversazione amorosa. Accanto a questi quadretti di quotidianità, però, non manca mai il richiamo al mito, come a scandire ancora una volta quanto sia impossibile, in riferimento alle società antiche, separare la sfera umana da quella divina. Il richiamo agli dei ed agli eroi è dunque un fil rouge in questo percorso e ci ricorda continuamente quanto il confronto con modelli ideali o con moniti divini sia un elemento caratterizzante di ogni sfera della vita terrena. La forza della rappresentazione naturalistica tuttavia, in alcuni casi, va oltre il compito che inizialmente le era stato assegnato. La continuità tra divino, terreno e naturale viene riprodotta artisticamente attraverso alcuni esempi che mostrano come, in determinate occasioni, la resa della natura a livello figurativo non si limiti a contenere le vicende raffigurate, ma ne diventi parte integrante. Esempio di questo passaggio è ravvisabile dunque in un’ Hydria – contenitore per trasportare l’acqua – datato intorno al 480 a.C., sul quale il pittore narra l’atto conclusivo della guerra di Troia, raffigurando il palazzo di Priamo durante la terribile irruzione degli Achei che ha cagionato talmente tanto scompiglio e dolore da portare persino le palme, dipinte accanto ai protagonisti della scena, a piegarsi in segno di lutto.
Natura, fonte di nutrimento e dono degli dei.
Terra e mare sono dunque, alla luce di questi reperti, dei teli profumati e variopinti su cui posizionare i personaggi delle storie, ma ora come allora la forza degli elementi non si esaurisce nella loro bellezza. Il mare è dunque il regno dei pesci, nutrimento e dono degli dei, mentre la terra è fertile e fonte continua di vita.
Questa lettura apre una serie di nuovi scenari che impreziosiscono suppellettili rinvenute lungo i secoli. Piatti e vasi ricchi di immagini di animali del mare, precisamente riprodotti in ogni dettaglio al punto da riconoscerne la specie. D’altro canto vediamo poi la celebrazione dell’agricoltura, attraverso l’onore e la venerazione riservata agli dei che la propiziano.
Molte sono infatti le raffigurazioni della dea Demetra/Cerere, protettrice dei raccolti e della fertilità della terra, la cui figlia, Persefone/Proserpina, avuta da Zeus/Giove, è stata trattenuta negli inferi da Ade/Plutone che, vedendola giocare spensierata per i prati, l’aveva rapita per farne la sua sposa. Demetra aveva cercato incessantemente la figlia per nove giorni e nove notti, ma solo quando Elios, il Sole, le rivelò la verità, lei riuscì a scoprire dove la fanciulla fosse finita. Adirata con Zeus, che non aveva fatto nulla per impedire al fratello Ade di rapire Persefone, la dea si ritirò in lutto, smettendo di occuparsi del suo compito di vegliare sulla terra e sui suoi frutti. Ci fu così una terribile carestia che mandò in rovina il raccolto e fece morire tutto il bestiame. Zeus fu così costretto ad inviare un messaggero al fratello per ottenere indietro la ragazza. Persefone però aveva già mangiato i chicchi del melograno, che la legavano indissolubilmente al regno degli inferi come regina, sposa di Ade. Zeus dunque ottenne unicamente che lei potesse emergere per almeno sei mesi all’anno, durante i quali Demetra, gioiosa, avrebbe potuto tornare a far fiorire la natura.
Un esempio della rappresentazione di tale mito è una coppa risalente al 480 a.C. nella quale vediamo Demetra su un carro trainato da serpenti, adorna dei suoi simboli tipici: la fiaccola, le spighe e i papaveri. La dea, in tale raffigurazione, si sporge su un altare, dove le è offerta in voto una melagrana. Il riferimento è chiaro all’usanza tipica di quel tempo di offrire a Demetra sacrifici per propiziare il raccolto.
Non era solo Demetra tuttavia la divinità invocata dagli uomini per auspicare un buon esito del lavoro dei campi. Dioniso/Bacco proteggeva la coltura della vite e la produzione del vino. Il mito narra infatti che sia stato proprio il dio ad offrire in dono la vite agli uomini, insegnando loro come addomesticarla per ricavarne il vino, che, bevuto in abbondanza nei convivi e nei banchetti, andava però consumato secondo regole precise, che imponevano, ad esempio, di mischiarlo con dell’acqua, in quanto bere vino puro era considerata un’usanza incivile, propria dei popoli barbari. Atena/Minerva, infine, patrona di Atene, era la divinità che proteggeva l’ulivo, simbolo della città, donato da lei stessa ai suoi abitanti. Il frontone occidentale del Partenone infatti narra proprio il mito in occasione del quale la dea, gareggiando con Poseidone, aveva ottenuto il dominio sulla città offrendo un ulivo come dono più bello. L’ulivo divenne dunque il simbolo di protezione di Atene e per questa ragione era molto spesso raffigurato. Erano, in particolare, tipiche le cosiddette Anfore panatenaiche, contenitori per l’olio, che spesso venivano date in premio ai vincitori dei giochi che si tenevano ad Atene ogni quattro anni, in onore della dea. Su tali anfore, in genere, la dea era riprodotta al centro tra due colonne, sormontate da galli, animali simbolo dello spirito agonistico.
Il giardino incantato.
Un altro passo ed ecco che lo scenario cambia nuovamente, la natura raccontata per immagini assume una nuova faccia, da dono degli dei a “locus amoenus”. Nel mondo antico, attraverso la raffigurazione di un paesaggio naturale, era infatti rappresentata la serenità dei momenti conviviali e gioviali di banchetto o simposio. Incantevole impatto per il visitatore della mostra è quello con il giardino raffigurato negli affreschi della Casa del Bracciale d’Oro, a Pompei, così denominata per il monile ritrovato al polso della padrona di casa, rimasta uccisa durante l’eruzione del vulcano. L’affresco rappresenta un ambiente rigoglioso e festoso, in cui sembra di vedere sprazzi di vita tra i colori pastello e la tenera delicatezza dei dettagli di piante, fiori e uccelli che pare quasi di sentir cinguettare. Un luogo idilliaco, che raccoglie tutte le pareti di un’intera stanza – l’oecus, adibita per i banchetti –abbracciata completamente dall’atmosfera dolce e rilassata creata dalla soavità delle immagini di una natura benigna, amica e addomesticabile.
La natura che fiorisce e si mostra ridondante era simbolo sia per i greci sia per i romani di concetti positivi: rappresentava la bellezza e la potenza degli dei. Non c’è dunque da stupirsi del richiamo ad Afrodite/Venere, che, nata dalla spuma del mare, appare in tali giardini – fiore tra i fiori – in tutta la sua rigogliosa grazia. La dea della bellezza e dell’amore è raffigurata in mezzo alla natura come personificazione della rinascita della vegetazione.
Un vaso è particolarmente emblematico del ruolo che Afrodite assume in rapporto alla magnificenza naturalistica. Ritrovato a Poestum e risalente al 340/330 a.C. ci mostra la dea che, emersa dal bocciolo di un fiore, troneggia sulla sommità della scena, quasi in stato di trance, con le mani alzate che reggono un tamburello e le gambe che accennano un passo di danza. Attorno a lei fiori e tralci prendono vita celebrando la fertilità. La natura in festa è inoltre rappresentata esaurientemente dal meraviglioso Vaso Blu, un’anfora di vetro, lavorata con cammeo, risalente al I secolo d.C. Tale finissimo esemplare di arte classica ci illustra la vendemmia in chiave allegorica. Tanti amorini, gli eroti, si dividono il lavoro con gioia, in una allegra raffigurazione di tralci e viti animati dal suono di canti e balli.
Natura e potere.
Il potere degli dei è dunque vicino all’energica forza della natura tanto che persino gli abbellimenti tipici delle divinità sono plasmati sulla base di fronde e piante care al dio rappresentato. Ci viene dunque presentata una scintillante serie di corone di foglie d’oro, alcune più modeste e alcune più maestose, ma tutte simbolo di autorità e rispetto. I primi meritevoli di adornarsi di corone erano ovviamente gli dei e tra essi alcuni avevano specifiche piante sacre tipicamente poste come ornamento tra le loro chiome. Dioniso era infatti spesso raffigurato adorno di foglie di vite, Apollo con corone d’alloro e Atena d’ulivo. Col tempo però incoronarsi il capo divenne un privilegio concesso anche agli uomini, non solo imperatori o esponenti in vista della comunità, ma anche gente comune in particolari circostanze. Era infatti tipico che il premio per le gare sportive consistesse nell’adornare il vincitore con corone di fronde e, allo stesso modo, il giorno delle nozze, era comune che gli sposi si ornassero con corone di mirto, sacro ad Afrodite, come buon augurio di fertilità e fortuna.
L’immagine soave della natura propizia e felice, in cui l’uomo vive sereno è stata usata in epoca romana anche per scopi politici. Augusto imperatore, appena salito al potere, affermatosi come portavoce di una nuova era, cercò sin da subito di instillare nei cittadini romani l’importanza dei nuovi valori del Principato: la prosperità e la pace. Venivano dunque usati spesso richiami naturalistici per diffondere la propaganda volta all’importanza della famiglia, della casa e degli antichi valori patri. Sono, infatti, ricchissimi in quest’epoca i rilievi o le raffigurazioni di animali che allattano i cuccioli, come immagine di attaccamento alla discendenza e alla trasmissione delle tradizioni.
La natura del paesaggio, tra realismo e favola.
Per concludere questo viaggio tra natura e mito, entriamo idealmente in un’ultima stanza, quella degli scorci paesaggistici, che segnano il passaggio ad un nuovo modo di rappresentare l’ambiente naturale. La prima fonte di questa nuova tecnica è rappresentata dalla tomba di Filippo II, padre di Alessandro Magno, dove è raffigurata una scena di caccia in un paesaggio ricco di particolari. Vediamo dunque come le immagini paesaggistiche siano riprodotte attraverso tre strumenti: lo scorcio, la prospettiva e i chiaroscuri. La resa è da un lato molto realistica, ma dall’altro come sospesa nell’incertezza. Vediamo infatti che è tipico di questo stile accostare il realismo figurativo di elementi naturalistici – non specifici, in modo che non si possa distinguere il luogo raffigurato – alla narrazione di scene immaginifiche ed astratte. Elemento da non tralasciare, infine, è il legame tra passato e presente. Piccolo ponticello di collegamento tra questi due mondi così lontani è infatti un piccolo spazio verde, allestito ad hoc, in cui gli architetti Marco Bay e Filippo Pezzoni hanno ricostruito un giardino con piante coltivate nell’antichità, per rendere meno impalpabile l’atmosfera evocata dalle opere presentate in questa esposizione e riportare in vita parte delle raffigurazioni incontrate lungo il percorso, in modo che un’ immagine e un profumo d’antico rimanga come un seme in un vaso, piccolo e nascosto sotto al terriccio, ma pronto a fiorire quando meno ci si aspetti.
di Mariaelena Micali