I curdi in Siria sono 2 milioni di persone, quasi il 10% del totale della popolazione, la minoranza etnica più grande del Paese.
Concentrati soprattutto a nord e nord-est e ad Aleppo e Damasco, le comunità curde siriane hanno attraversato momenti storico-politici contraddittori e a volte anche tragici, che le ha viste a volte in buoni rapporti con il Partito Baath, in altre fortemente limitate nei diritti e in altre ancora a sostegno delle lotte di liberazione dei curdi del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) in Turchia.
Abdullah Öcalan, il leader storico del popolo curdo, protetto per più di 20 anni dal governo Baath, in Siria (1979-1998), ha infatti dato vita a un movimento di liberazione, il PKK, che fra gli anni 1980 e 1990 operava in Siria liberamente. Il 20% dei combattenti del PKK sono cittadini siriani.
Lo stesso regime baathista di Hafez Al Assad per quasi trent’anni (fine 1970- 1998), è stato di fatto l’alleato strategico del PKK , che nel 1986 fondò l’Accademia Mahsum Korkmaz, nella valle libanese della Bekaa, poi trasferita nel 1993 alla periferia di Damasco. Questo fino a quando la Turchia non minacciò la Siria di un conflitto armato se non avesse firmato un trattato di sicurezza, l’Accordo di Adana, che dichiarava il PKK come organizzazione terroristica. Connotazione questa che gli valse anche per tutti gli altri paesi Nato, di cui la Turchia fa parte e che ancora oggi è rimasta tale e che non gli ha permesso più, da allora, di svolgere attività militanti, di ricevere armi e denaro sul territorio della Siria e che ha costretto Ocalan a spostare le sue basi fuori dal territorio siriano fino all’estate del 2000, quando i rappresentanti delle regioni curde si sono incontrati con i funzionari del Baath per raccogliere le richieste curde che rivendicavano più diritti politici e culturali. In quella occasione l’incontro sortì una maggior distensione dei rapporti fino al 2004, quando si scatenò una dura repressione con manifestazioni di piazza e scontri nella città di Damasco, che provocarono la morte di 32 persone, centinaia di feriti e 2000 arresti, tutti poi rilasciati quando, a seguito delle indagini, si appurrò che il comandante delle forze di sicurezza della città aveva esagerato. I rapporti riprenderanno solo nel 2011, quando la Nato aprirà il fuoco sulla Siria e sarà il ramo siriano del PKK, il PYD (Partito dell’Unità Democratica), la maggior forza di difesa del lato nord del territorio siriano contro i mercenari salafiti sostenuti dalla Turchia. Tanté che il governo siriano autorizzerà il PKK a presentare i propri candidati alle elezioni politiche locali e nella città di Daerik il sindaco eletto sarà vicino al PYD.
Infatti, il Presidente siriano e i vertici baathisti, per evitare che i curdi vengano coinvolti negli scontri a nord-est, lasceranno loro il pieno controllo sia amministrativo sia militare, con fornitura di armamenti e un’intelligence contro i terroristi. Occasione questa che il PYD non si farà di certo scappare, dopo che per decenni aveva chiesto e lottato per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti e dell’autonomia, sfociata poi, il 12 luglio 2012, nella stipula di un accordo con le varie formazioni curde, in particolare tra il CNSC (Consiglio Nazionale Siriano Curdo) e il PYD con il quale le due parti si impegnano a collaborare per la difesa delle popolazioni locali.
Questo accordo indispettirà la Turchia che, temendo un possibile sodalizio fra i curdi di Damasco e quelli radicati nel suo territorio, insieme a israeliani e americani deciderà di sostenere una serie di campagne contro il PYD, volte a screditarlo alla comunità curda in Siria, ma che alla fine falliranno. A questo punto le città occidentali del Kurdistan e i quartieri di Aleppo verranno bersagliati da bande di infiltrati qaedisti, che a ottobre del 2012 provocheranno la morte di trenta curdi.
Le stesse bande, supportate dalla Turchia, attaccheranno anche la città di Efrin.
Più tardi si scoprirà che anche due partiti curdi il PDK-S/Al-Parti (Partito democratico curdo) e Azadi (Partito dell’Unione Libertà), entrambi aderenti al CNS, parteciparono agli attacchi Aleppo ed Efrin.
Un mese dopo, alcuni gruppi armati provenienti dalla Turchia, attraverseranno il confine siriano a Serêkaniyê, dichiarando di voler combattere le milizie governative, quando in realtà il loro obiettivo sono i curdi. In quel territorio, infatti le truppe governative non sono presenti. All’inizio di febbraio del 2013 alcuni gruppi armati vicini all’ESL attaccano Tiltemir, una città multietnica in cui convivono senza problemi curdi, arabi e assiri. Molte saranno le vittime, uccise o ferite, ma questa volta le forze dell’YPG, le milize del PYD, reagiranno all’attacco.
In quell’occasione, Muslim, uno leader del PYD, dichiarerà: “I curdi siriani non vogliono l’indipendenza e nemmeno una struttura federale simile a quella del Kurdistan iracheno. Vogliono solo il piu’ ampio riconoscimento dei diritti politici e culturali e vogliono governare la loro regione. Siamo parte della Siria e vogliamo vivere in buone relazioni con gli Arabi…Che cosa è questa che chiamano Opposizione? Sono a pezzi, si saltano alla gola a vicenda. Se quelli che combattono in Siria non riconoscono quelli in giacca e cravatta che siedono a Istanbul come i loro legittimi rappresentanti, perché dovremmo farlo noi?”
Il 9 ottobre 2013 Hassan Muhammad Alì, responsabile dei rapporti con l’estero per il suo partito della Siria, il PYD, durante una conferenza pubblica a Roma, ha illustrato la situazione dei curdi nelle diverse zone del Paese.
I curdi in Siria rappresentano circa il 10% dell’intera popolazione, che si concentra maggiormente nel Nord del paese, lungo la striscia di 700 Km che si svolge sulla linea di confine con la Turchia, nel Kurdistan Occidentale, chiamata dai curdi Kurdistana Rojava, mentre la zona della Turchia a maggior concentrazione di curdi è il Kurdistan Settentrionale e quella a Sud-Est, dentro l’Iraq è il Kurdistan Meridionale. Altre zone curde isolate sono quelle presenti nelle città di Aleppo e Damasco.
A seguito dello scoppio della guerra civile in Siria e del ritiro delle milizie nazionali dalla Siria settentrionale, a partire dalla metà del 2011 i gruppi curdi autonomi prendono il controllo su tre aree: Cizre ad Est, ricca di petrolio e crocivia delle frontiere con Turchia, Iraq e Siria; Kobanè, al centro del fiume Eufrate ed Efrin a Ovest.
In passato, nel 2004 e all’inizio del 2011 vi erano stati diversi scontri tra autonomisti curdi ed esercito siriano, ma alla fine quest’ultimo si era ritirato senza combattere, lasciando ai curdi la libera gestione del territorio secondo un sistema democratico autonomo del quale fanno parte anche le minoranze etniche arabe, assire e armene.
Viene creato anche un apparato di difesa, l’YPG , un’Assemblea Nazionale Kurda per la Siria (ENKS), alla quale appartengono oltre al PYD altri 15 partiti minori e, a livello internazionale, un Alto Consiglio Kurdo del quale fanno parte anche i curdi dell’Iraq e quelli della Turchia.
Il PYD, come l’omologo PKK in Turchia, pur essendo un partito nazionalista ha tendenze marxiste-leniniste e riconosce l’autorità di Abdullah Ocalan. Nel programma del partito vi sono l’istruzione (anche in lingua kurda), l’emancipazione delle donne e la partecipazione attiva delle stesse a tutte le istituzioni di governo, e la laicità dello stato. Quindi il PYD considera i gruppi Jahadisti e legati ad Al Queda come suoi nemici e ne vieta il passaggio sul suo territorio. Non condivide neppure la creazione di un califfato islamico in Siria, che combatte apertamente. Dietro alle bande armate che tentano di destabilizzare la Siria c’è poi la Turchia dai cui confini filtrano, infatti, liberamente questi gruppi.
Le Donne curde in guerra contro l’Isis per difendere la carta del Rojava
Che cosa muove un intero popolo di donne ad affrontare una guerra, fino all’estremo sacrificio della propria vita, o peggio il rischio di essere catturate e vendute sul mercato delle schiave, in una società in cui vige ancora un antico patriarcato che non fa sconti a nessuno ne alle donne ne ai bambini?
Le donne curde del Kurdistan siriano hanno deciso di emanciparsi e di combattere per una nuovo progetto di società che si ribella all’irruzione islamica che vorrebbe riportarle all’oscurantismo dei califfatti, ma nasce anche dalle radici del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato dall’occidente ancora come una formazione terroristica.
Sta di fatto che le signore del Rojava, in tuta mimetica e kalaschnikof sono ormai il simbolo della resistenza curda all’ISIS (Is), almeno per quanto riguardano i territori della Siria e dell’Iraq, disposte a morire pur di non finire prede dei jihadisti, come la dicianovenne Ceylan Ozal che si è sparata, per non cadere nelle loro mani.
Nel febbraio 2013, per la prima volta in Siria, a nord di Aleppo, 150 donne curde formeranno un battaglione di sole donne. Ma è nella città di Afrin che alla fine del 2012 nasce il battaglione, quando molte di loro rimarranno uccise combattendo le milizie islamiste di Al Qaeda e le forze qadiste dei ribelli.
Legate al progetto politico di Abdullah Ocalan da più di tre anni, le donne combattenti del Kurdistan stanno cercando di salvare il loro sistema regionale democratico che lega tra loro Kobane, Afrin e Cizre, attarverso la carta del Rojava che, come abbiamo visto, conferisce autonomia a queste regioni, attraverso una confederazione democratica, alla quale partecipano i consigli popolari formati da molte etnie diverse, curde, arabe, assire, caldee, turcomanne, armene, cecene, e che si autogovernano attraverso istituti partecipati alla pari da uomini e donne e i cui valori ispiratori sono la libertà, l’uguaglianza, la dignità, la giustizia e l’ecologia. Principi davvero rivoluzionari se si pensa che tutto il contesto circostante è animato da un profondo oscurantismo confessionale ed etnico.
Questo spiega meglio la furia jihadista che si sente minacciata nel cuore del suo sistema egemonico e spiega anche l’atteggiamento riluttante della vicina Turchia e degli stati del golfo come l’Arabia Saudita, che non hanno mosso un dito per la paura che i 15 milioni di curdi che vivono nel paese rivendichino, nonostante la svolta anti-nazionalista del PKK, la loro indipendenza. Ankara ha, infatti lasciato via libera ai molti jihadisti che volevano unirsi all’Is, ma non ha permesso ai volontari curdi di raggiungere Kobane per unirsi alla resistenza.
Gli stessi occidentali intimiditi da questo nuovo progetto decisamente anticapitalista non sono certo corsi in loro aiuto.
Dilar Dirik, attivista curda ricercatrice all’Università di Cambridge, ha infatti dichiarato che “La resistenza del Rojava affonda le sue radici anche nel Pkk, un’organizzazione ‘terroristica’ (il cui leader è detenuto nell’isola-prigione turca di İmralı) all’inizio marxista-leninista, e quindi comunista. Kobane potrebbe modificare il corso della storia. È una battaglia cruciale che va oltre l’Is. L’intero sistema del Rojava offre una prospettiva nuova alla popolazione e lo fa proprio nel mezzo di un conflitto orribile, che sta costando troppe vite”. Per Dirik l’alternativa proposta dai curdi sfida lo status quo, in particolare per il ruolo centrale assunto dalle donne. “Le donne curde che hanno preso le armi, simboli tradizionali del potere maschile – continua l’attivista – sfidano l’ideologia dell’Is. Non rappresentano una minaccia per la loro capacità bellica, ma per il potere trasformativo del loro progetto di emancipazione politica e sociale. Vogliono cambiare la società e vogliono essere incluse. Queste donne lottano per la propria esistenza e per il proprio futuro, e la loro lotta è una sfida all’ordine sociale e alla mentalità patriarcale. Per questa va sostenuta seriamente, è più efficace dei bombardamenti Usa contro l’Is”.
Anche Nursel Kılıç, membro della rappresentanza internazionale del movimento delle donne curde (Kjk) afferma che “Occorre precisare che il movimento delle donne curde ha una lunga esperienza di lotta, è nato attraverso la lotta del Movimento nazionale curdo e ha sempre goduto di autonomia decisionale all’interno del Movimento per la Liberazione del Kurdistan. Adesso le combattenti dell’Ypg appaiono sui giornali nella loro bellezza, ma di loro si mostra soltanto questo. Da anni combattono contro i gruppi jihadisti e contro altre fazioni armate in Siria, ma la comunità internazionale si è svegliata soltanto ora. Eppure i curdi, e le curde, stanno affrontando il gruppo terroristico più forte al mondo in questo momento”.
È dunque più comodo concentrare l’attenzione dei media sulle affascinanti guerrigliere curde che sul sistema del Rojava, che fa paura, continua Nursel Kılıç: “Lo Stato islamico, la Turchia e la comunità internazionale sono contrari al sistema chiamato autonomia democratica del Kurdistan siriano. Per loro, ostacola la dominazione della regione”.
di Adriana Paolini
Linkografia
http://www.resetdoc.org/EN/index
http://www.ossin.org/crisi-siriana-analisi/siria-la-minoranza-curda-nella-crisi-siriana.html