E’ recente la notizia relativa alla scoperta di due pianeti “sosia” (o quasi) della nostra Terra. Essi sono stati avvistati a circa 3000 anni-luce dal nostro sistema solare, orbitanti intorno a una stella chiamata Kepler-62, dal nome del telescopio spaziale della NASA che li ha osservati, nella costellazione del Cigno.
Programma Discovery: la missione Kepler
Non è la prima volta che viene annunciata una scoperta del genere, ma l’importanza scientifica e la portata mediatica restano sempre invariate, ogni volta è come se si trattasse della prima volta. Quello che si può dire è che forse faremmo bene ad abituarci a questo tipo di notizie, perché la missione Kepler del programma Discovery della NASA ha proprio questo come obiettivo principe: sondare certe particolari regioni della Via Lattea per scoprire centinaia e centinaia di pianeti dello stesso ordine di grandezza della Terra, o magari anche più grandi o più piccoli, e determinare quante e quali fra le innumerevoli stelle della nostra galassia possano avere pianeti che ruotano intorno a esse.
Scendendo più in dettaglio, la ricerca operata da Kepler mira ad analizzare quello spicchio di spazio interstellare chiamato “zona abitabile circumstellare (CHZ)”, all’interno della quale è teoricamente possibile trovare acqua allo stato liquido sulla superficie di un pianeta. Nel nostro sistema solare essa si estende circa da 0.7 a 3 UA (dove 1 UA equivale a 150 milioni di chilometri), ovvero da poco oltre l’orbita di Venere, fino a inglobare quella di Marte. È proprio all’interno di questa fascia che si pensa possano svilupparsi con maggiore probabilità forme di vita simili a quelle presenti sulla Terra.
Le tecniche e gli strumenti di Kepler
La tecnica usata, dalla missione Kepler, per rintracciare pianeti extrasolari si basa sul transito di questi ultimi davanti alla propria stella e alla variazione di luminosità che ne deriva. Quando un pianeta transita davanti alla propria stella, questo passaggio genera variazioni infinitesimali di luminosità captati dagli strumenti di Kepler: questo transito permette l’identificazione della presenza di un pianeta orbitante intorno a una stella. Una volta identificato, vengono determinate le dimensioni dell’orbita risolvendo la Terza Legge di Keplero rispetto al semiasse maggiore, essendo noti il periodo di rivoluzione del pianeta intorno alla stella e le dimensioni del corpo celeste, ricavabili dalla frequenza e dall’intensità delle variazioni di luminosità. Da queste informazioni e conoscendo la temperatura della stella è possibile determinare la temperatura del pianeta e quindi capire se questo possa ospitare acqua liquida e quindi forme di vita come noi le conosciamo.
Per osservare questi “transiti”, Kepler si avvale di un telescopio da 95 milioni di pixel chiamato “fotometro”. E’ un telescopio con un campo di osservazione vastissimo, 105 gradi quadrati necessari per scandagliare il maggior numero di stelle possibile. Esso scruta lo stesso pezzo di cielo per l’intera vita operativa della missione e monitora continuamente la luminosità di più di centomila stelle diverse.
I pianeti “sosia” e i criteri per l’abitabilità
In quattro anni di lavoro, Kepler ha già fornito una mole incredibile di dati; infatti quasi tremila pianeti sono stati individuati e sottoposti ad analisi approfondite da parte degli scienziati per capire se essi corrispondano in tutto e per tutto all’identikit di sosia della Terra. Come è stato per i due pianeti Kepler-62e e Kepler-62f, orbitanti intorno alla stella Kepler-62, più piccola e più fredda del nostro Sole, all’interno della cosiddetta “zona abitabile”. Tuttavia l’abitabilità di un pianeta potrebbe non dipendere solo dalla sua posizione all’interno del proprio sistema planetario. Marte, per esempio, non presenta acqua liquida sulla superficie pur trovandosi all’interno della zona abitabile. Mentre forme di vita diverse da quelle che conosciamo, non dipendenti dall’acqua potrebbero essere presenti su alcune lune dei giganti gassosi, come Titano ed Europa, il che porterebbe a rivedere da capo il concetto stesso di abitabilità planetaria.
E ancora: la luminosità della stella al centro del sistema planetario, l’eccentricità dell’orbita non elevata, l’inclinazione dell’asse del pianeta, la presenza di un satellite come la Luna, che regola moti naturali e mantiene stabile l’inclinazione dell’asse, il ruolo dei giganti gassosi più esterni come Giove, che influenzano i pianeti interni stabilizzandone le orbite e che li proteggono catturando corpi vaganti grazie alla loro gravità, la geochimica della formazione del sistema planetario, che deve essere ricco di metalli; e infine, su larga scala, la posizione all’interno della galassia: noi ci troviamo nel braccio di Orione, lontani dal centro della galassia, e senza “vicini”, in una condizione ritenuta ideale per la ricerca di un pianeta su cui possano svilupparsi condizioni favorevoli alla vita.
Uno sguardo al futuro
Il quadro è complesso, i canditati sono tanti, la probabilità che tutti questi fattori convergano sono da determinare. Kepler continuerà a orbitare sui nostri cieli e a scattare foto di mondi lontanissimi che assomigliano alla nostra Terra, con l’obiettivo di fornire un disegno completo della struttura e della diversità dei sistemi planetari investigati. La strada sarà sicuramente lunga e costellata di nuove scoperte, che oltre ad alimentare l’interesse scientifico e la ricerca, contribuiranno a mantenere vivo quell’interrogativo che ci sfiora ogni volta che ne sentiamo parlare: siamo realmente soli nell’Universo?
di Michele Mione
Linkografia
http://www.nasa.gov/mission_pages/kepler/overview/index.html
http://www.nasa.gov/mission_pages/kepler/spacecraft/index.html
http://www.nasa.gov/mission_pages/kepler/multimedia/index.html