Una penna. Un foglio. Un’orecchia in un libro. Quaderni a quadretti, a righe, ad anelli. Pagine, tante pagine bianche e poi un mucchio di scarabocchi. La merenda magari, un bigliettino segreto, la campanella, il banco che dondola, la compagna di classe coi vestiti sempre nuovi e quello della terza fila, che lancia palline di carta. Cosa manca? Il compito di venerdì. Il dettato, la prova del nove, le moltiplicazioni, l’ortografia, il latino, l’inglese, l’ora di ginnastica.
L’andare a scuola nell’immaginario comune è spesso legato a ricordi di questo tipo e sembra quasi che sia normale vivere in un modo simile, crescere liberi, studiare e potersi permettere il lusso di vivere la scuola come un noioso impegno cui dover ottemperare. Perché i bambini vanno a scuola, si sa. Ci vanno. Ci devono andare. Anche se strepitano, se si impigriscono, se al mattino la sveglia suona e da’ il via ai capricci.
Eppure questa è solo una favola, una bella favola che riguarda soltanto una piccolissima parte dei bambini del mondo; perché dietro ad un teatrino idilliaco fatto di edifici con le pareti chiare, di cortili alberati e di maestre sorridenti c’è la realtà di tutti coloro per cui l’istruzione è un miraggio, qualcosa da sognare e un diritto per cui lottare, anche a costo di andare incontro ad ostacoli grandissimi, più grandi degli anni che sono sulle spalle di chi deve superarli, ma qualche volta – fortunatamente – anche più grandi della paura di rinunciare prima ancora di provarci.
“Sedermi a scuola a leggere libri è un mio diritto. Vedere ogni essere umano sorridere di felicità è il mio desiderio. Io sono Malala. Il mio mondo è cambiato. Ma io no.”
Malala Yousafzai, a 15 anni, andava a scuola, come molte altre adolescenti di tutto il mondo, ma a differenza di molte adolescenti della sua età lei già sapeva quanto fosse fortunata a poter dire di andare a scuola. Era nata a Mingora, una città nella valle dello Swat, in Pakistan, e nonostante fosse giovanissima viveva conscia della responsabilità che custodiva dentro sè, non solo in quanto studentessa, ma anche in quanto donna. Nel suo paese, infatti, le sue coetanee spesso lasciavano la scuola per prendere marito e abbandonarsi ad una vita confinata tra le mura di una casa, destinate ad essere niente più che la moglie e la madre di qualcuno.
Malala però, come dirà lei stessa parlando della propria condizione, era una ragazza come tante, con due genitori fuori dal comune: il padre di Malala, infatti, aveva per la sua primogenita femmina progetti felici e immaginava per lei un futuro di opportunità e di libere scelte, diversamente da quello che era stato il destino di molte bambine prima di lei. A simbolo di questo sogno, questo giovane uomo appena diventato padre regalò a sua figlia un nome, Malala, lo stesso nome di una coraggiosa ragazza afghana che era diventata un’eroina sacrificando la vita con l’intento di guidare il proprio popolo verso la libertà. La giovane figlia di un ambizioso maestro della valle dello Swat, dunque, crebbe in forza ed intelligenza, educata dai propri genitori al valore dell’istruzione, del coraggio e dell’importanza di vivere e lottare per le proprie idee.
Ad undici anni appena, la giovane Malala diventò la curatrice di un blog per la BBC, in cui documentava la situazione delle donne in Pakistan, lamentando la progressiva limitazione dei diritti loro riservati. A causa di questo impegno sociale, il 9 Ottobre 2012, mentre si trovava a bordo dell’autobus che prendeva abitualmente per tornare a casa da scuola, è stata vittima di un attentato, venendo gravemente colpita alla testa in quanto ritenuta dai talebani pakistani il simbolo degli infedeli e dell’oscenità.
La ragazza riuscì a sopravvivere, ma subì presto la minaccia di nuovi possibili attacchi.
Nonostante questo, però, Malala ha sempre perseverato nel suo impegno, facendo sentire la propria giovane voce a difesa del diritto delle donne e dei bambini a ricevere un adeguato livello di istruzione e di scolarizzazione. Col passare del tempo, Malala diventò agli occhi di tutti un esempio di tenacia e di coraggio, capace di rappresentare, grazie alla propria forza, le esigenze di coloro che, ancora oggi, sono privati di una voce e impossibilitati a rivendicare il proprio desiderio di riscatto e di tutela dei propri diritti. Il 12 luglio 2013, giorno del suo sedicesimo compleanno, Malala parlò a New York, nel Palazzo di Vetro, lanciando un appello sull’importanza dell’istruzione per tutte le bambine e i bambini del mondo. Nello stesso anno venne insignita del Premio Sakharov per la libertà di pensiero, mentre nel 2014 ricevette il Nobel per la pace assieme all’attivista indiano Kailash Satyarthi, divenendo la più giovane vincitrice del celebre premio, ottenuto grazie all’impegno per l’affermazione dei diritti civili e del diritto all’istruzione. La motivazione della commissione è stata “ Per la loro lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione.”
Riconosciuta nella sua identità di ragazza intelligente, volitiva e consapevole del proprio posto nel mondo, Malala ha dunque deciso di raccontare attraverso un libro la propria esperienza, utilizzando la propria forza per difendere le necessità di tutti coloro che non hanno gli strumenti per farlo da sè.
Il titolo dell’opera – Io sono Malala – è semplice ed efficace nell’esprimere un concetto che sembra banale, ma non lo è affatto: la rivendicazione della propria identità di essere umano, meritevole di pensare, di scegliere e godere dei diritti essenziali per la propria vita. L’autrice, in questo modo, esprimendo se stessa, si fa portavoce di tutti coloro che nel suo paese non possono gridare al mondo la semplice ambizione di essere se stessi.
Attraverso quest’autobiografia, Malala racconta la difficile situazione delle donne del proprio paese, costrette a rinunciare al diritto all’istruzione, così da vedersi negata la possibilità di evolvere nell’unico modo che esiste – secondo l’autrice – per assicurarsi la possibilità di comprendere il mondo e di evitare di lasciarsi sopraffare, imparando l’importanza della libertà di scegliere e di essere artefici del proprio destino. Grazie alla propria esperienza personale, dunque, unita ad un grande coraggio, Malala è determinata a comunicare ai propri coetanei e al proprio paese l’importanza di unirsi per combattere la violenza di vedersi privare di una possibilità così essenziale per la vita di tutti: la libertà di poter studiare.
L’attivismo di Malala e il suo lavoro per l’affermazione del ruolo delle donne e del diritto all’istruzione hanno di certo favorito la fama della giovane e il suo successo nel far sentire la propria voce, ma inevitabilmente hanno esposto la ragazza ad una situazione di pericolo e di minacce di morte.
Malala però sembra non conoscere la paura e proprio grazie alla consapevolezza di essere la rappresentante di tanti bambini, ragazzi e donne che come lei sono stati vittime di discriminazione, vedendosi portare via un futuro di prospettive, ha sempre perseverato nel sostenere le proprie idee. Con il suo esempio dunque l’autrice mostra ai giovani di tutto il mondo (ed anche agli adulti, che spesso lo dimenticano…) quanto sia importante lottare per i propri diritti e riconoscere il valore dello studio, dell’istruzione e della cultura come strumento cui appigliarsi per costruire un avvenire migliore per tutti.
Malala sa che questo è lo scopo della propria vita e dice con certezza di non avere paura di nulla, perché essere se stessi, dire “Io sono Malala”, rivendicare il proprio io e il diritto di decidere per il proprio futuro è l’unico modo per rendere giustizia al dono della vita , camminando a testa alta e sapendo che l’unica paura che bisogna coltivare nel cuore è quella di non essere liberi di essere chi si è, anche quando il percorso per arrivare alla meta è faticoso e pieno di ostacoli.
Mariaelena Micali