Qui Enne 2 frenò, strisciò col piede in terra, e si fermò. Erano a metà di corso Sempione.
«Scendi» le disse.
«Che succede?» disse Berta. «Siamo arrivati?»
«Non siamo arrivati» Enne 2 rispose.
Guardava davanti a sé, di sopra a lei ancora seduta sulla canna; e allora lei pure guardò, vide lo splendore invernale tra le due spoglie file di alberi che mai terminavano, e nella tersa luce, a duecento metri, un camion fermo col vetro che luccicava, e uomini neri attraverso la strada, anch’essi fermi, con al braccio bastoni che anch’essi luccicavano.
«C’è un rastrellamento» disse Enne 2. Berta saltò giu.
«No, risali» Enne 2 le disse.
Uomini venivano, dalla linea lontana, lungo le due file dei grandi alberi, e portavano puntati in giù quegli strani bastoni che luccicavano. Berta capi che quei bastoni erano fucili, e vide uno con un grande cappello dalle larghe falde venire al centro dell’asfalto, al centro del luminoso mattino, voltandosi ad ogni passo e agitando alto in pugno, di sopra al capo, un lungo scudiscio nero che serpeggiava fischiando. L’uomo gridava qualcosa agli altri, gesticolava, agitando alto il suo scudiscio nero; e Berta risalì sulla canna.
«Andiamo avanti fino all’angolo del caseggiato» Enne 2 le disse. «Poi voltiamo dentro la prima strada e torniamo indietro».
Andava avanti senza affrettarsi; e tutto il corso Sempione, salvo per quegli uomini neri, era deserto sotto il sole dell’inverno, coi negozi chiusi, i caffé chiusi, le finestre serrate, e le macerie spente, mute. Misero trenta lunghi secondi a raggiungere l’angolo, voltarono, misero altri cinque secondi per entrare nella via laterale, e l’uomo dal nero scudiscio gridò.
«Non temere» Enne 2 le disse. «Non aver paura se sparano».
Dentro la strada egli accelerò, fu presto all’altro angolo, e pareva che in tutta la città vi fosse soltanto il suono rotto, quasi d’ululo, dell’uomo dal nero scudiscio che gridava.
Lontano in fondo alla laterale, c’erano uomini fermi con fucili come attraverso il corso. In fondo alla parallela del corso, dove svoltarono per tornare indietro, c’erano pure uomini fermi con fucili. Ma non venne nessuno sparo, né si udivano correre i tranvai, non si udiva altro suono che la rotta voce di quel muezzin, quell’uomo dallo scudiscio nero, e ormai morente nella distanza.
«Quell’uomo è Cane Nero» disse Enne 2. «L’hai veduto?»
«Si» Berta disse. «Ma anche di qui è sbarrato».
«Non importa» disse Enne 2. «Ora attraversiamo di nuovo il corso, e poi andiamo in una casa».
«In una casa tua?»
«In una casa di amici. In un rifugio».
Egli pedalava forte e di nuovo svoltarono, attraversarono il corso a testa china, entrarono nella laterale dirimpetto.
Berta non guardò dove Enne 2 la portasse. Berta prese il tram, e andò in tram fino a piazza della Scala. L’inverno era lo stesso di due giorni prima; l’aria leggera, viva; lo stesso sole; e barbagli di sole in tutti i vetri. Lo stesso poteva esser lui dietro il tram, sulla sua bicicletta.
Scese, e camminava; guardava da ogni parte, e anche si voltava per guardare. Andò, dal Duomo, verso piazza Fontana, non sapendo dove andare, volendo camminare, e vide che i tram procedevano di là a passo d’uomo.
Gente andava, quella nella sua direzione, affrettata e a gruppi; quella che veniva in su era invece smarrita, spesso si fermava, e stava voltata a lungo indietro.
«È accaduto qualcosa?» Berta domandò.
Era un vecchio signore a cui si rivolse; guardava indietro, e teneva il bastone alzato, pallido in volto, rabbioso, teneva alzato il bastone in uno strano gesto come lei ricordava di aver visto tenere alto il fuso le donne di campagna che filavano.
«Oh!» il vecchio rispose. «Niente di straordinario!»
Uno piu giovane era giallo come un morto, anche lui di coloro che venivano in su fermandosi e stando a lungo voltati indietro, e aveva in mano una borsa vuota che continuamente apriva, capovolgeva, scuoteva e poi richiudeva.
«Così proprio» disse. «Che di straordinario?»
«Niente di straordinario» il vecchio disse.
Si fermarono insieme, e per un po’ continuarono, uno come domandando e l’altro come rispondendo, dicendo entrambi la stessa cosa.
«Che di straordinario?»
«Niente di straordinario».
Non erano molti che venivano in su, erano uno ogni dieci nella folla che andava in giu, affrettata, a gruppi, ma tutti se si guardavano, se si vedevano, avevano gesti strani e si parlavano nello stesso modo. «Che di straordinario? Io non ho veduto niente di straordinario».
«Nemmeno io. Che ho veduto io di straordinario? Niente ho veduto di straordinario». «Che c’è da vedere di straordinario?»
Al largo Augusto, Berta vide che la folla era nel mezzo della strada, e camminava tra i due marciapiedi, tutta in un senso, tutta verso la piazza dov’è il monumento delle Cinque Giornate: ma lei continuò per il marciapiede.
Si trovò sola, lungo le botteghe chiuse, eppure continuò, e vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch’era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. Non formavano file, né erano molti, stavano sul marciapiede sparpagliati, e il sole brillava sulle canne nere dei loro fucili, sui loro bottoni, e anche su un punto dei loro berretti.
Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini; e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci; qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, cappotti: panni usati. Che cos’era?
Guardò, pur camminando, e più da vicino; e vide, fuori da qualcuno di quei mucchi, scarpe. Scarpe anche? Le vide come ai piedi dell’uomo, quando un uomo è steso in terra. C’era gente in quei piccoli mucchi? C’erano uomini? Guardò, quasi spaventata, dietro a sé; nelle facce della folla. «Ma… » disse. Qualcosa per cominciare. E avrebbe voluto chiedere se ognuno di quei mucchietti fosse un uomo; e perché fossero lì, cinque mucchietti, cinque uomini; se fossero uomini catturati, e catturati a che scopo; e perché fossero tutti stesi, perché nessuno fosse seduto, nessuno in piedi, nessuno che si muovesse.
Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non vederlo da sé; e invece vide da sé; e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede, uno vestito anche con cravatta al collo come se lo avessero ucciso mentre camminava per la strada, ma tutti gli altri in disordine, uno avvolto nel tappeto d’un tavolo, uno con la giacca sulla faccia e sotto in mutande e camicia, due in biancheria da letto con i piedi nudi.
«Ma che cosa» disse «è accaduto?»
Guardava nelle facce che aveva intorno, voleva sapere, e non c’era che da vedere. Che cosa avevano fatto a quegli uomini? E chi glielo aveva fatto? Perché glielo aveva fatto? Alzò gli occhi su uno dei militi con la testa di morto in mezzo al berretto, e fu per chiederlo a lui.
Ma non chiese niente. Arrossi anzi, e si tirò indietro nella folla, abbassò il capo, camminò via. In fretta, senza quasi piu fermarsi, continuò fino al monumento di piazza Cinque Giornate, poi tornò indietro. Fu di nuovo a piazza Fontana, piazza Duomo, piazza della Scala, tutto quasi correndo, in piazza della Scala riprese il tram, e poco dopo era un’altra volta da Selva.
I morti al Largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n ‘erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento.
Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso di Porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapie, dei morti all’ombra su un altro marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno di saper altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa.
Come? Anche quei due ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni cosa? Per questo, appunto, sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva di niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava.
«Non bisogna» il vecchio disse «piangere per loro».
«No?» disse Berta.
«Non bisogna piangere per nessuna delle cose che oggi accadono».
«Non bisogna piangere?»
«Se piangiamo accettiamo. Non bisogna accettare».
«Gli uomini sono uccisi, e non bisogna piangere?»
«Se li piangiamo li perdiamo. Non bisogna perderli».
«E non bisogna piangere?»
«Certo che no! Che facciamo se piangiamo? Rendiamo inutile ogni cosa».
Era questo piangere? Rendere inutile ogni cosa ch’era stata? Il vecchio lo diceva, e Berta poteva anche crederlo. Forse era questo. Ma non poteva non piangere, e stava pur sempre col capo chino, si bagnava di lagrime il grembo.
«Non bisogna» disse il vecchio. «Non bisogna».
«Sí» disse Berta. «Non bisogna».
«Vedi che non bisogna? Smetti».
«Ma io non piango per loro».
«Non piangi per loro?»
«Non su di loro».
«No?» disse il vecchio.
Berta non piangeva sopra i morti, per il sangue loro. Ora lo sapeva. Le veniva da loro, ma non era pietà per loro. Era pietà, o forse disperazione, su se stessa; ma dinanzi a loro era un’altra cosa. Che cosa?
Disse al vecchio: «No. Non piango su di loro».
Aveva rialzato il capo, il pianto si asciugava sulla sua faccia, e rivide nel vecchio gli occhi azzurri.
Glieli guardò. «Ma che dobbiamo fare?» gli chiese.
«Oh!» il vecchio rispose. «Dobbiamo imparare».
«Imparare che cosa?» disse Berta.
«Cos’è che insegnano?»
«Quello per cui» il vecchio disse «sono morti».
di Elio Vittorini