Crash! Sdeng! Bam! Roumble!! Blablabla… la vita quotidiana di ogni individuo con un apparato uditivo funzionante è pervasa da rumori. Suoni di ogni tipo che ci infastidiscono perché sgradevoli o perché ci rendono difficile la comunicazione con qualcuno.
Nell’accezione comune infatti il rumore è proprio questo: una perturbazione di tipo sonoro generalmente molesta o, addirittura, dannosa. Lo stesso concetto esiste anche in ambito scientifico, dove provoca in genere reazioni di rassegnata sopportazione o esasperate imprecazioni ben note anche al cittadino medio. Ma acquisisce un significato di più ampio respiro. Il rumore in fisica è tutto ciò che altera il risultato di una misura. Le perturbazioni sonore che incolpiamo dei nostri fastidi quotidiani sono solo una delle innumerevoli cause che possono influenzare l’esito di un esperimento, e quindi una delle tante tipologie di rumore fisico. Si tratta nient’altro che di oscillazioni che si propagano in mezzi materiali a frequenze percepibili dall’orecchio umano e per questo possono, appunto, disturbare la conversazione fra persone. Ma lo scienziato quando fa una misura non si rivolge ai suoi simili. Lo scienziato parla alla Natura. E la Natura se ne frega. Di solito non le interessa rispondere ai fan e, quando interrogata, si mette le cuffie e ascolta la musica.
Questo rende complicato il dialogo con la dea, dialogo che però, col nome di “esperimento”, è alla base di ogni disciplina scientifica. E’ proprio questo infatti lo strumento che permette di avvalorare o rifiutare una qualunque ipotesi ed è su di esso che si fonda la dignità di ogni teoria che si possa definire scientifica. Tutto ciò porta spesso gli uomini di scienza a considerazioni filosofiche molto pesanti, del tipo “You only know what you measure”, come amava ripetere William Thomson (in arte Lord Kelvin). Ma se l’equivalenza fra esperimento e conoscenza a livello generale è discutibile, in fisica è senz’altro valida. E’ quindi importante che la misura venga fatta in modo accurato e che se ne interpretino correttamente i risultati. E questo non può che avere strettamente a che fare con il rumore. Qualunque tipo di misura infatti, dalle più complesse alle più semplici, è affetta da rumore. Se voglio misurare il campo elettrico di una certa radiazione dovrò, per esempio, tenere conto del rumore dovuto agli apparecchi elettronici che uso per rilevarlo; se invece voglio misurare la densità della Terra usando la legge di gravitazione universale (esperimento di Cavendish), dovrò stare attento, fra le altre cose, a variazioni di temperatura e correnti d’aria, che possono influenzare la bilancia di torsione. Se quello che voglio misurare è la mia altezza, devo prendere in considerazione lo stato dello strumento che utilizzo e la postura del collo al momento della misura. Nell’attività sperimentale come nella vita l’unica ragionevole certezza è il dubbio. A esperimento terminato non sventolerò come una bandiera davanti ai colleghi un numero inciso su un foglietto così come non andrò a dire ai miei amici che la mia altezza è esattamente 1.80 metri perché il risultato non sarà mai un certo valore, definito e definitivo, bensì sarà compreso entro un margine di inevitabile errore. L’importanza che questo errore deriva da una miscela di tre ingredienti: la precisione di cui ho bisogno, la mia bravura nell’eseguire l’esperimento e una spolverata di sorgenti di rumore ineliminabili. Supponiamo che un uomo abbia qualche problema mentale e voglia conoscere la propria altezza con la precisione del millimetro. Se il rumore dovuto a eventuali imperfezioni dello strumento (si pensi per esempio a possibili ondulazioni presenti qua e là in un metro srotolabile) è dell’ordine di grandezza del micrometro (un micrometro è circa un decimo del diametro di un capello ed è quindi molto più piccolo di un millimetro), il soggetto in questione, per quanto compromesso sia il suo cervello, lo considererà trascurabile e non ne terrà conto quando valuterà il margine di errore della sua misura. Se poi è anche bravo a fare l’esperimento, non si accontenterà di eseguire la misura una sola volta, ma lo ripeterà e lo ripeterà e lo ripeterà come se il suo obiettivo non fosse conoscere la sua altezza ma srotolare il metro. Nel reiterare la procedura dovrà prestare attenzione a minimizzare tutti i disturbi che, relativamente alla precisione che ha scelto, possono influire sulla misura. Farà poi una media di tutti i valori che ha letto sullo strumento e la inserirà entro il margine di errore che avrà calcolato considerando tutte le fonti di rumore rilevanti. Tale margine prende il nome di deviazione standard e fa parte, insieme al valore medio, del risultato della misura.
Tutto questo procedimento è quindi definito da regole ben precise: le leggi della statistica. Ora, se stessimo parlando di questioni economiche tipo uno studio sui costi assicurativi dello scontro di auto, questo fatto potrebbe dare un po’ fastidio senza però stupire granché. Il numero di incidenti che avvengono in un certo lasso di tempo non è stabilito a priori da un qualche principio universale. Dipende invece da un gran numero di fattori, molti dei quali non determinabili, ed è proprio dall’ignoranza di questi fattori che scaturisce la natura statistica del problema. Il fatto che lo stesso meccanismo coinvolga la fisica potrebbe destare un po’ di preoccupazione e sano scetticismo. Nessuno si aspetta di veder congelare l’acqua nella pentola sul fuoco e, per quante potranno essere le volte che avremo occasione di fare la pasta nell’intero arco della nostra esistenza, non penseremmo mai che anche solo una volta possa capitarci di vedere gli spaghetti ridotti a fare da bastoncini a dei ghiaccioli. Ed è ragionevole. Infatti, bisogna stare attenti a non fare confusione. Ad essere statistico non è il contenuto di una legge fisica, ma il processo di misura in sé che, essendo inesorabilmente affetto da rumore, ci lascia con una buona dose di ignoranza sul risultato dell’esperimento. La legge invece è deterministica.
Come tutte le frasi che censurano il dubbio ed esibiscono verità assolute (e d’altronde questa stessa è una di quelle), la precedente è profondamente falsa e va chiarita prima che sia troppo tardi. Un’affermazione come “la legge che descrive un fenomeno fisico è deterministica” è vera in fisica classica, ovvero in tutte le teorie scientifiche che non fanno uso della meccanica quantistica, e significa che, potendo conoscere le condizioni iniziali di un sistema e la legge con cui si trasforma, il suo stato finale è completamente determinato. Se lancio in aria una pallina e so tutto della velocità che le conferisco, posso prevedere dove cadrà, dopo quanto tempo e con quanta energia cinetica. E’ solo nell’esecuzione dell’esperimento che entra in gioco l’aspetto statistico, il quale si manifesta nella varianza del risultato, ovvero nel fatto che, in generale, su N misure effettuate otterrò N risultati diversi descritti da una determinata distribuzione di probabilità. Se però ho fatto tutto come si deve, ritroverò in tale distribuzione il risultato descritto dal modello teorico.
Moto parabolico. Il moto di corpi macroscopici è un fenomeno deterministico. Note le condizioni iniziali del sistema, sono date quelle finali.
Questo discorso comincia a perdere validità se, invece di considerare una pallina, ne considero tante. In un sistema composto da un gran numero di elementi, applicare ad ognuno di essi le leggi della dinamica di Newton diventa infattibile, anche perché si tratta di tener conto non solo del loro moto ma anche di eventuali interazioni. Motivo per cui si passa dal concetto di legge a quello di principio e da grandezze relative a una singola particella ai valori medi: dall’energia cinetica alla temperatura, dall’azione all’entropia, dall’energia meccanica a quella interna. Si passa cioè a una descrizione statistica del sistema e la branca della fisica che se ne occupa è la termodinamica. Anche in questo caso però la descrizione probabilistica non è legata a una natura intrinsecamente aleatoria del fenomeno in sé, ma alla nostra ignoranza delle condizioni iniziali di un numero improponibile di particelle, che singolarmente sapremmo descrivere senza problemi.
Peccato però che la fisica vera pare essere quella quantistica. Questa teoria di inizio Novecento si struttura in due parti che non si parlano. Infatti lo sviluppo temporale del moto di una particella è deterministico, ma non lo è per niente il processo di misura. Se voglio sapere la posizione di un elettrone, per esempio, la meccanica quantistica mi dice che, prima che io vada a scovarlo con il rivelatore, quello si trovava dislocato in tanti diversi punti dello spazio e con l’atto della misura lo costringo a occupare una certa posizione, cioè quella che rilevo. Questo fenomeno, noto in gergo col nome di “collasso della funzione d’onda”, identifica la misura come un processo puramente probabilistico che questa volta non è legato all’innata incapacità sperimentale dell’uomo emersa fino a poco fa, ma a quello che sembra essere un aspetto fondamentale della natura. Come se non bastasse, dai postulati di base della meccanica quantistica scaturiscono le terribili relazioni di incertezza, secondo le quali esistono determinate grandezze fisiche, note come “variabili coniugate”, tali per cui non è possibile conoscere contemporaneamente con la precisione che voglio il valore di entrambe. Per esempio, se riesco a localizzare la posizione di una particella, la sua velocità in quell’istante risulta del tutto indeterminata. Questo limite ultimo alla precisione con cui possiamo conoscere un oggetto fisico è una vera e propria fonte di rumore, per giunta ineliminabile perché legato a un aspetto della natura intrinsecamente aleatorio. Quindi, se anche diventassimo sperimentalmente impeccabili e raggiungessimo un livello tecnologico da capogiro che ci permettesse di azzerare ogni fonte di disturbo, comunque non riusciremmo mai a sbarazzarci del rumore quantistico.
Di fronte a tutto questo rumore però agitarsi troppo è solo deleterio. Il trucco è stare molto calmi. Fa parte della natura, come le zanzare e le ambulanze, e studiarlo a fondo può permetterci di vederlo da un’altra prospettiva. L’esistenza del rumore, per esempio, è alla base dell’origine di ogni alfabeto. Supponiamo che lo stesso individuo mentalmente instabile considerato all’inizio voglia ora parlare con il suo amico immaginario in una lingua inventata da lui. Deve ideare un alfabeto. Siccome è pazzo ma non stupido, eviterà di creare simboli inutili e anzi, per renderlo il più efficiente possibile, assegnerà la stessa dignità ad ognuno di essi. Ciò significa che ogni lettera avrà la stessa probabilità delle altre di comparire in una parola di questa lingua. Un alfabeto così congegnato è perfetto, cioè è il meglio che si possa fare a livello di codifica dell’informazione: lui e l’amico immaginario potranno conversare per sempre felici e contenti. Ma se ora diamo un’occhiata a un qualunque alfabeto esistente, ci accorgiamo che siamo ben lontani da questa situazione. Prendiamo quello italiano per esempio. Delle ventuno lettere a disposizione, ce ne sono alcune che non usiamo praticamente mai (tipo la Z o la H) e altre frequentissime (come la A).
E un discorso analogo vale per ogni altra lingua, con la sola differenza che i simboli ridondanti saranno diversi. Pare quindi che ogni alfabeto sia codificato in modo profondamente inefficiente. Come mai? La ragione sta nel fatto che gli alfabeti non nascono per comunicare con amici immaginari, ma con soggetti reali in un mondo reale. Cioè noi non siamo dotati solo di un apparato che codifica informazioni in simboli (cervello, bocca e lingua), ma anche di un sistema di ricezione e decodifica (orecchie e cervello) e per passare dall’uno all’altro il messaggio deve attraversare un qualche mezzo (aria, fili del telefono, fibre ottiche, vuoto…). Quello che facciamo quando parliamo è tradurre il nostro messaggio in suoni, cioè vibrazioni dell’aria, che chi ci ascolta è in grado di ricevere e interpretare. Ma questa comunicazione in generale sarà affetta da qualche rumore, che può essere un altro suono che viene a sovrapporsi a quello che abbiamo prodotto come può essere il vento che trascina via le nostre parole, ovvero problemi che sorgono durante la trasmissione nel canale di comunicazione. Si tratta di un rumore fisico molto simile a quello comunemente inteso perché qui la misura che viene disturbata è proprio la ricezione del messaggio. Ed è a questo scopo che serve la ridondanza, l’esistenza di lettere privilegiate. In un caso ideale l’alfabeto migliore è quello che assegna la stessa probabilità ad ogni simbolo, perché permette di esprimere una certa quantità di informazione con il minor numero possibile di simboli. Ma se il canale su cui il messaggio viaggia è affetto da rumore, è più efficiente quello che rende massima la quantità di informazione trasmessa. Questo è possibile se le varie lettere sono distribuite nel messaggio in modo tale che si formino delle sequenze tipiche, facilmente riconoscibili, per cui, se anche il testo arriva poco chiaro o incompleto, è possibile per il destinatario intuire come probabilmente dovesse essere l’originale codificato dal mittente. E’ grazie a questo meccanismo che, se nostra madre ci dice da dieci stanze di distanza “butta la pasta” e noi sentiamo “but la pas”, difficilmente deduciamo “butzx la pasdr”.
Vediamo quindi che l’analisi del rumore getta una luce sull’origine dell’alfabeto e lo sviluppo del linguaggio. Facendo un discorso un po’ alla Darwin, possiamo pensare che nelle usanze dei nostri antenati primitivi si siano succedute varie forme di comunicazione e che si sia affermata quella più efficiente. E questa è quella che distribuisce le lettere dell’alfabeto in modo da combattere il rumore con l’arma che ha fatto grande l’uomo rispetto agli altri animali: l’esperienza, che qui si veste dei suoi abiti sociali, nei quali prende il nome di abitudine. E’ proprio per il fatto che siamo in grado di riconoscere suoni sentiti spesso che il trucco funziona ed è questa nostra capacità di dedurre dall’esperienza, superiore a quella degli altri esseri viventi, a rendere più elaborata la nostra comunicazione.
Questo ci aiuta a capire delle cose su di noi, ma non ci consola. Il nostro sconforto però non è colpa del mondo, rumoroso e insensibile, è colpa nostra e di un assurdo bisogno di paradiso. Meglio prenderne atto. Non si può evitare di tenere conto del rumore, specialmente se si parla di fisica. Eppure non è raro trovare in merito a esperimenti, importanti articoli divulgativi in cui non si fa il minimo accenno ai problemi da cui è affetta la misura e agli espedienti utilizzati per minimizzare gli effetti del rumore. Il caso più eclatante è stata la recente rivelazione delle onde gravitazionali al LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory), argomento sul quale anche operai metalmeccanici in pensione si sono sentiti in dovere di scrivere qualcosa. Effettivamente è stata una scoperta fondamentale e molto attesa. E nell’occuparsene si è spesso commesso l’errore di parlare dell’esperimento e dell’apparato di misura senza dire perché è stato fatto in quel modo. Rendendo così il contenuto informativo dell’articolo più o meno pari a quello della favola di cappuccetto rosso in cui si sia trascurato il lupo. Essendo le onde gravitazionali perturbazioni estremamente deboli, occorre una precisione straordinaria per vederle e questo implica che uno dei protagonisti (o meglio, uno degli antagonisti) è il rumore. Si leggono sul web e sui giornali descrizioni dettagliate dei ben quattro chilometri di lunghezza dei bracci dell’interferometro che costituisce il sistema ottico dell’esperimento così come l’esistenza di due rivelatori gemelli posti ai capi opposti degli USA, ma non si spiega a che serve tutto ciò. Fioriscono le metafore per illustrare quanto sia piccolo lo spostamento introdotto dalle onde gravitazionali e non si dice perché è importante tenerne conto. Il fatto è che quando c’è bisogno di una precisione così elevata, qualsiasi piccola vibrazione terrestre è una fonte di rumore in grado di disturbare la misura. Laura Cadonati, fisica italiana del Georgia Institute of Technology, ad Atlanta, che guida l’analisi dei dati di LIGO, racconta che “ai tempi del primo esperimento ci accorgevamo anche se qualcuno tagliava un albero a miglia e miglia di distanza”.
LIGO. Schema sintetico dell’apparato sperimentale che ha permesso la rivelazione di onde gravitazionali al LIGO. Si tratta di un interferometro, un sistema ottico che spezza in due fasci un laser per poi andare a sovrapporli tramite un sistema di specchi. Ne risulta una figura di interferenza estremamente sensibile a perturbazioni del mezzo attraversato dal laser (in questo caso, il vuoto).
E ora che finalmente l’articolo è finito, si potrebbe addirittura provare a dire qualcosa di vero: il rumore in realtà è fondamentale per la vita dell’uomo. Cioè non offre solo un notevole vantaggio pratico, ma garantisce una condizione necessaria per la sopravvivenza della nostra specie. Spesso e volentieri infatti, il rumore ci impedisce di capire quello che dicono gli altri esseri umani.
di Giovanni Chesi
Link utili:
http://ebook.scuola.zanichelli.it/mandoliniparole/volume-1/grandezze-e-misure
http://www.quantistica.altervista.org/
http://www.theory.caltech.edu/people/preskill/ph229/