Dopo ben otto anni passati lontani dalle scene, inframezzati solo dalla composizione della colonna sonora di Tron Legacy, i Daft Punk sono tornati; e hanno deciso di farlo in modo dirompente e grandioso, con un album tanto atteso quanto dai fan tanto dalla critica, facendo diventare l’uscita stessa dell’album un evento di rilevanza planetaria.
Il complesso lavoro porta con se un titolo in linea con lo stile “robotico” del duo di dj francesi e che si porta con sé una buona dose di immaginario collettivo legato alla band: Random Access Memories, acronimo di un termine abusato del linguaggio informatico, RAM, che indica quella tipologia di memoria informatica che è caratterizzata dal permettere l’accesso diretto a qualunque indirizzo di memoria con lo stesso tempo di accesso.
Già gli otto anni di attesa costituiscono il primo colpo di genio dei Daft Punk, abilissimi conoscitori del marketing più viscerale, e in grado di creare un’immagine di loro stessi completamente in linea con la loro musica, come testimoniano i famosi caschi da robot che accompagnano Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo in ogni loro apparizione pubblica.
Come detto appunto fin dal sospirato annuncio della pubblicazione è stato un susseguirsi di rumors e anticipazioni sempre più fitte, fino a quando dal nulla e per un brevissimo lasso temporale è comparso l’intero lavoro in streaming sulla rete. Poi è stato il momento dell’anticipazione della base musicale del già ormai famosissimo singolo Get Lucky, che ha fatto crescere spasmodicamente l’attesa; fino ad arrivare al singolo sopra citato al suo stadio finale, con la voce di dirompente tono pop del proddutore-cantante Pharell Williams, all’arrangiamento funky di Neil Rodgers degli Chic. che riesce a catapultare l’ascoltatore nel bel mezzo della disco music newyorkese.
Oltre ai sapienti “assaggini” dati in pasto ad un mondo musicale ormai inebriato dall’attesa stessa più che dall’ascolto di Random Access Memories, bisogna sottolineare anche la maniacale paranoia che affliggeva il duo, testimoniata da come è stata recapitata a chi ne era accreditato l’anteprima del disco: difatti una valigetta blindata e munita di lucchetto, i cui codici dell’apertura sono stati spediti separatamente, conteneva un lettore appositamente modificato per impedire qualunque tipo di copiatura dei file, che manco a dirlo non erano certo nel comune formato MP3.
Si capisce che dall’uscita, avvenuta lo scorso 21 Maggio, è stato un vorticoso susseguirsi di opinioni entusiaste e critiche feroci, dovute forse soprattutto all’essenza del disco, che almeno da come si presenta si pone in netta discontinuità con i lavori precedenti dei Daft Punk.
Intendiamoci fin da subito, non mancano le “voci robotizzate”, anzi come il duo ama definirle le voci dei robot-umani, ma è il contorno e ciò che esse riempiono che è cambiato completamente: mentre infatti la musica elettronica mondiale era andata verso una direzione fortemente digitalizzata, priva di quel phatos che propriamente dovrebbe caratterizzarla, proprio loro, compositori di pezzi dalle forti tinte “robotiche” con l’uso quasi sfrontato dei campionamenti, la riportano alla sua forma più umana e libera, quella della musica puramente disco degli anni 80′ ,in cui la musica dance appunto veniva realizzata dalle persone con gli strumenti, nel senso classico del termine, e non dalle macchine; è il primo lavoro del duo completamente realizzato con l’uso di chitarre, bassi e batterie, e il fatto è subito chiaro dalla traccia di apertura, Give life back to music, che porta l’ascoltare a muoversi a ritmo classico del più puro dei funky, non dell’indiavolata musica di fine millennio, reso speciale dalla prima collaborazione illustre, ovvero quella del il batterista Jhon Robison Junior, di un disco che vanta grandi nomi tra quelli che hanno collaborato con il duo parigino.
Ora già dalla prima traccia chi era letteralmente impazzito per il sound dei Daft Punk proprio dei lavori precedenti come Homework e Discover, potrebbe rimanere deluso, o quanto meno spiazzato da questa nuova direzione artistica, e forse chiedersi quali sono le ragioni che hanno spinto i Daft Punk a prendere questa strada. Forse la risposta migliore sta proprio nelle parole di Thomas Bangalter, che, alla domanda su quale fosse il loro obbiettivo al giorno d’oggi, ha risposto: “ Fare grande musica, riuscire a comporre dischi rilevanti. Non ci importa essere mainstream o modaioli, vogliamo superare le barriere imposte dai generi in musica. Vogliamo essere come i Beatles o come i Queen, gruppi i cui brani oggi puoi ascoltare tanto nei blockbuster di Hollywood quanto nei club di provincia. E per un motivo semplice: perché hanno inciso solo grandi canzoni”.
Anche i più critici verso il lavoro dei due dj parigini devono ammettere che forse questo intento è stato se non raggiunto quanto meno avvicinato con Random Access Memories, un disco trasversale, che cerca di dare una sonora, in tutti i sensi, raddrizzata alla deriva della musica elettronica moderna, rendendola più un’ opera completa, artistica e umana che il prodotto di computer e sintetizzatori.
Tutto ciò prende vita nella terza traccia dell’album, Giorgio by Moroder, nove minuti di suite dal crescendo tipico dei Pink Floyd più sperimentali ( a tal proposito è bene ricordare come fra le fonti di ispirazione di RAM vanga citato un classico floydiano come The Dark Side of the Moon), in cui sono presenti varie frasi del leggendario producer alto atesino Giorgio Moroder, ovvero l’uomo che ha inventato la dance music 40 anni fa. Esse sono state estrapolate da un’intervista che lui stesso ha concesso ai Daft Punk, i quali successivamente hanno inserito all’interno della traccia quelle da loro ritenute più ispirate e adatte alla concezione del brano.
Per riallacciarsi al discorso precedente non è un caso che i due dj parigini abbiano scelto questo passaggio: “You want free your mind about the concept of harmony and music being correct, you can do whatever you want, so nobody told me what to do and there was no preconception of what to do” vero e proprio incoraggiamento alla libertà artistica, che sembra essere stato seguito alla lettera dai Daft Punk.
Il disco continua, non inesorabile, ma avvolgendo l’ascolatore, con ballate quasi romantiche come Whitin, resa ancor più “soffice” dall’abile tocco del pianista Chilly Gonzales, e grazie a ritmi quasi ipnotici come in Lose Yourself to Dance, dove ricompaiono i protagonisti del già citato singolo Get Lucky, Neil Rodgers e Pharell Williams.
Non manca una traccia quasi Art Rock, frutto della collaborazione con il cantante degli Strokes Julian Casablancas, che colpisce sia per l’inedita modifica che assume la voce del cantante grazie alle modifiche dei dj parigini, sia per la folgorante melodia del ritornello.
Il quadro, già complesso e variegato, viene arricchito, fra le altre, dalla suit per certi versi psichedelica Touch, dove si sente l’abile mano del compositore Paul Wiliams, autore di ottime colonne sonore come il Fantasma del palcoscenico su tutte.
C’è a dire il vero il rischio che alla lunga l’ascoltatore possa sentirsi appesantito, e che il lavoro possa risultare a tratti stucchevole; di certo le quattro tracce che seguono la dirompente Get Lucky tendono ad acuire questa sensazione, soprattutto per la loro eccessiva ostentazione funky e dance, che a lungo andare potrebbe risultare indigesta.
Ma è proprio nel finale che c’è il guizzo di cui si può avvertire il bisogno: riappaiono i campionamenti, splendidamente fusi con l’organo iniziale e con il potente suono della batteria, e inoltre si possono ascoltare le parole dell’ultimo uomo ad aver messo piede sulla luna, il capitano Cernan.
Come detto le lodi a Random Acces memories si sono sprecate, con l’intensità che hanno dimostrato solo le altrettante critiche che esso ha ricevuto; di certo l’obbiettivo di essere sulla bocca di tutti gli ascoltatori, anche quelli che fino a poco prima della sua uscita avevano palesemente ignorato il mondo dell’elettronica, è stato ampiamente centrato, grazie anche alle consolidate strategie di marketing menzionate all’inizio.
Quanto all’obbiettivo di volere essere come i Beatles e i Queen, è presto per stabilirlo; sicuramente il disco è di una certa rilevanza, e in esso si sente il lavoro di cinque lunghi anni in cui Bangalter e Christo lo hanno progettato nei minimi particolari, rendendolo sicuramente il loro lavoro più versatile e completo, e facendo per certi versi maturare ciò che loro stessi avevano fatto esplodere, ovvero l’elettromusic di fine anni 90′.
Ora non ci resta che attendere, come dice lo stesso Bengalter, la reazione del pubblico, che forse però non è completamente pronto per scoprire tutti gli ingredienti che si fondono in questo complesso lavoro. E dobbiamo attendere assieme ai Daft Punk stessi, che appunto non faranno seguire, almeno non subito, un tour al disco, in quanto anche loro desiderosi di vedere quanto la gente e la musica stessa sono pronti a questa loro svolta.
Sitografia:
– http://www.rockol.it/recensione-5255/Daft-Punk-RANDOM-ACCESS-MEMORIE
– http://cultura.panorama.it/musica/daft-punk-10cose-random-access-memories
– http://xl.repubblica.it/articoli/a-che-serve-ascoltare-il-nuovo-daft-punk/2960/
– http://xl.repubblica.it/articoli/daft-punk-random-access-memories/2919
– http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2013/05/08/news/daft_punk-58362914/