Colore piatto, immagini elementari, contorni netti e risultato di forte impatto: mancano i fumetti che pendono dalle bocche dei personaggi e potremmo essere davanti alle tavole di Stan Lee.
E invece ci troviamo di fronte a uno dei generi d’arte più antichi mai tramandati, almeno nelle forme, secondo strutture assai simili agli originali fino ai nostri giorni: si tratta dei patachitra (dal sanscrito patta, pezzo di tessuto, e chitra, dipinto) indiani, lunghi supporti in origine di tessuto (oggi sostituito dalla carta) su cui sono da secoli dipinte storie, prima divine e ora umane. Una sorta di cronaca illustrata, insomma, appannaggio di una società arcaica in cui pochi sapevano leggere e ancora meno sapevano scrivere: la tradizione risale, infatti, a più di 2.500 anni fa, quando gli uomini dei villaggi Patua si trasformavano in cantastorie di messaggi e insegnamenti ancestrali (Pater gaan) e, contemporaneamente, srotolavano i loro dipinti realizzati su lunghe pezze di tessuto (dall’inglese scrolls).
In questo modo venivano tramandati oralmente e visivamente i poemi classici, le gesta e le qualità delle divinità del Pantheon indiano da una generazione all’altra, con il duplice risultato che veniva fornito un servizio a un’intera comunità umana (una sorta di cinema ante litteram) in cambio di qualche pasto caldo e, se andava bene, di qualche moneta.
Ma con la diffusione, anche nei villaggi, dei moderni mass media (soprattutto radio e televisioni), il mestiere di divulgazione orale divenne sempre meno popolare fino, quasi, a scomparire: solo nel villaggio di Naya, nel West Bengala (a circa 200 km da Calcutta), a portare avanti questa attività ci hanno pensato i Chitrakars. O forse dovremmo dire le Chitrakars, dal momento che sono state le donne del luogo, con l’aiuto dei familiari dei Patua i cui discendenti non erano interessati al passaggio di testimone, a organizzarsi in cooperative di cantastorie, dando così nuova vita all’antico mestiere e adattando le storie narrate al mercato dell’informazione contemporanea.
Non più dipinti tratti da poemi epici e dalle storie di divinità Hindu e mussulmane, dunque, ma rappresentazioni realistiche dei fatti di attualità e di politica: il disboscamento per l’industrializzazione, il rimboschimento di tali zone da parte della gente dei villaggi, l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, gli Tsunami del Giappone del 2004 e, soprattutto, i problemi che quotidianamente le donne indiane sono costrette a vivere.
L’Hiv, la violenza sulle donne, lo sfruttamento della prostituzione forzata e l’aborto di feti di sesso femminile rappresentano infatti i principali temi di denuncia sociale operata da donne per altre donne: questi dipinti hanno così lo scopo di divulgare anche (e soprattutto) tra le persone meno istruite contenuti culturali e informazioni fondamentali, tanto che il Governo indiano, consapevole di tale opportunità, ha stanziato insieme a Unesco e Comunità Europea diversi finanziamenti che sono confluiti nel supporto delle attività dell’associazione Banglanatak che opera in West Bengala e in altri 23 stati indiani nella tutela dei diritti delle donne e dei bambini e nell’insegnamento della cultura civica e sanitaria ai più poveri.
Negli ultimi decenni, poi, gli scrolls hanno suscitato interesse da parte di artisti quali Jamini Roy e di studiosi di tutto il mondo che, incuriositi da questa forma di informazione ormai unica nel suo genere, stanno consentendo di ampliare la loro conoscenza e diffusione in India e nel mondo.
Lunga vita.
di Clara Amodeo