“La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendo riflessa in esso la propria immagine, credette di possedere l’intera verità.” (La Verità di Mevlana Jelaluddin Rumi).
I dervisci rotanti appartengono all’ordine turco Mevlevi, “mevlevilik”, una delle tante “tarikat” sufiste, nata nel XIII secolo da Celaleddin-i Rumi e ampiamente diffusa in Siria e Anatolia. “Tarikat” significa, infatti, confraternita.
I dervisci rotanti, girano su se stessi in modo ipnotico, facendo perno sulla punta del piede sinistro, al suono di flauti e tamburi. Le braccia sono aperte come ali, con una mano rivolta al cielo e l’altra alla terra. I dervisci, monaci islamici sufi, ballando partecipano a una cerimonia sacra antichissima.
Roteando su loro stessi, con minuscoli passi in senso antiorario, prima piano e poi sempre più velocemente, arrivano a compiere fino a 30 giri al minuto.
La danza, è stata dichiarata bene immateriale dell’Umanità dall’Unesco.
La confraternita dei Mevlevi, fu fondata dal grande mistico Baha’ ad-Din Valad, soprannominato “Il Sultano dei Sapienti”, nato in Afghanistan nel 1203, e stabilitosi poi in Turchia, a Konya, città sacra ai danzatori.
Fu poi suo figlio Rûmî a fondare l’ordine dei dervisci rotanti e a dare vita alla danza come pratica spirituale.
Presso il museo del Mevlana, nella città di Konya, sorge un santuario in cui si trovano le tombe del fondatore dei dervisci e dei suoi successori.
Mevlana Celaleddin-i Rumi
Mevlana Celaleddin-i Rumi, insegnò nella città di Konya, dove si dedicò totalmente alla ricerca dell’illuminazione religiosa e alla riunificazione con l’amore di Dio.
Il 17 dicembre, giorno della sua morte Şeb-i Arus, in Turchia si celebrano varie manifestazioni, tra cui una in particolare chiamata ‘il matrimonio’ che dura 17 giorni.
Al suo funerale presenziarono tutte le popolazioni di Konia, non solo quella Musulmana, ma anche Cristiana ed Ebraica, come riconoscimento dell’immenso spirito di tolleranza del Maestro.
Legato all’Afganistan per nascita, all’Iran per la lingua persiana usata nelle sue opere scritte e alla Turchia ove visse e fu sepolto, con il suo insegnamento ha accomunato ogni credo:
“Non giudeo sono, nè cristiano, nè ghebro o musulmano!
Nè orientale nè occidentale.
Non di Persia o Babilonia, nè del Khorosan io sono!
Il mio luogo è l’Oltrespazio, il mio Segno è il senza Segno,
Uno cerco, Uno conosco, Uno canto, Uno contemplo!
Dopo la morte, non cercate la tomba mia nella terra,
nel petto degli uomini santi è il mio sepolcro”
Mevlana scrisse molte opere e i suoi discendenti, che vivono tuttora in Turchia, fondarono la Mevlana Foundation, presieduta da Faruk Hemdem Çelebi (22mo pronipote di Mevlana Rumi), che si occupa di perpetuare la sua tradizione.
Anche a Istanbul, nel cuore della Turchia, il sufismo è molto radicato e i luoghi in cui si praticano i rituali sufi, “mevlevihane” sono molto diffusi. Galata Mevlevihanesi e Yenikapı Mevlevihanesi sono i luoghi principali in cui poter assistere alla danze rotanti rituali dervisci e poter osservare il loro cammino spirituale attraverso l’ascolto dei loro insegnamenti, le conferenze di studiosi e professori universitari e le cerimonie Sema.
Il Semà dei sufi (dervisci) Mevlevi
Il Samâc (in turco, Semà), detta anche “la danza dell’estasi”, è il tipico dhikr della Mevleviyya. Questa danza spirituale è l’espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, nella quale tutto per esistere deve ruotare: atomi, pianeti, pensieri. Il Semà non è altro che l’ascesa spirituale e mistica dell’essere a Dio – una volta giuntovi si dissolve e torna sulla terra.
«Prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e che i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; e ora che sono giunto so che le montagne sono montagne, e i mari sono mari» disse il grande maestro sufi Dhu âl Nûn âlMisrî, nel IX secolo.
Al rito partecipano musici, cantori (mëtrëp) il Maestro (shaykh della Mevlevihane, in funzione di qutub, “polo”), e 18 danzatori (semazen basë). Tutti hanno un abito bianco sopra il quale portano un mantello nero.
Il rito inizia con un nait (o naat, Naat âlSherìf, inno di lode al Profeta), o con la recitazione del wird che comprende i dieci passi più importanti del Corano (Âshr âlSherîf). Questa prima fase del rito è una lode a tutti i Profeti e a Dio che li ha creati.
Segue una introduzione (taksim) con improvvisazione di flauto (ney).
La seconda fase inizia con un suono di tamburi, che simbolizza la creazione del mondo (Corano, 36ª81-82).
Il rito si conclude con una terza fase – la melodia di un ney, un suono molto delicato che simula il soffio divino da cui nasce la vita e tutte le creature.
Terminata questa prima parte, comincia il semà vero e proprio con un inno mevlevi.
Il coro, accompagnato dai musici, inizia a cantarlo mentre, in fila, entrano il Maestro, il capo dei danzatori, e i danzatori, coperti da un mantello nero, simbolo dell’ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta, come lenzuolo mortuario, la luce e il distacco dall’ego.
Il Maestro indossa un copricapo nero avvolto da un turbante dello stesso colore (o verde se ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), simbolo del suo grado, e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso; i dervisci hanno un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la loro pietra tombale.
A passi lenti, i dervisci percorrono in senso antiorario (così come si svolge la circumambulazione della Ka`ba) tutto il perimetro per tre volte. E’ il devr-i Veledî, il circolo del Sultano Veled, e rappresenta il cîlm âlYaqîn, cayn âlYakîn e haqq âlYaqîn, «conoscendo la Certezza, vedendo la Certezza, sapendo la Certezza».
Poi si fermano sul lato lungo e dopo un lieve inchino si scambiano reciproci saluti, gli stessi saluti che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza. A questo punto i danzatori si siedono e prima di rialzarsi battono all’unisono le palme delle mani sul pavimento.
Alla fine i danzatori depongono il mantello nero e, in piedi (simbolo dell’alef, prima lettera dell’alfabeto arabo) rimangono un attimo con le braccia incrociate e le mani sulle spalle (nell’atteggiamento che aveva l’angelo Gabriele quando si rivolgeva al Profeta Muhammad prima di ogni discesa del Corano, e simbolo dell’Unità divina).
A questo punto inizia la fase dei saluti.
A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, e vengono ricambiati da un suo bacio sul bordo del loro copricapo. Poi cominciano a roteare su se stessi e – dopo aver allargato le braccia – sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala (devri veledi), la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio, la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i presenti i doni ricevuti da Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un’ampia vorticosa immagine dell’Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro “saluti”, interrotti ciascuno da un arresto della musica.
Sul finire dell’ultimo “saluto”, il Maestro stesso, “polo celeste” (qutb), compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.
Il primo saluto simboleggia la nascita dell’essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento, formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell’esistenza di Dio.
Il secondo saluto simbolizza il raggiungimento d’una consapevolezza superiore, in cui l’essere umano, osservando lo splendore della creazione, sente la Potenza di Dio.
Nel terzo saluto l’essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui (fanâ), è l’estasi e il superamento d’ogni transitorietà fenomenica.
Il quarto saluto simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l’accettazione della materia dopo l’ebbrezza della luce divina.
Il viaggio mistico è così finito e il sufi, «morto prima di morire», illustrando i versetti 27-30 della 89ª sura del Corano, ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.
Nella fase finale (Segan taksimler ve ilâhiler) i musici e i cantori recitano versetti del Corano, in particolare 2ª115, composta da son peşrev, yürük-semaî, asır, dalla Fatiha e da un’ultima preghiera (Mevlevi Gülbank) cantata per tutti i profeti e per tutte le anime dei credenti, e che si conclude con le parole dello Shaykh: «Hu diyelim (Noi Lo vediamo).» Infine tutti esclamano Hu (Egli; e cioè Dio, in assoluto), affermazione che trascende la parola “Dio”, a significare il superamento d’ogni descrizione possibile della divinità da parte dell’essere umano.
I sufi mevlevi
Il sufi, a qualsiasi Confraternita appartenga, compie un cammino spirituale in sette tappe riconducibili ciascuna a un profeta. Ogni tappa ha come obiettivo l’elaborazione di un simbolo, che aiuterà “colui che cerca” a trovare la via attraverso: suono, luce, numero, lettera, parola, simbolo, ritmo e armonia.
Nel semà, tutti questi fattori si uniscono: musica, canto, poesia, pensiero, movimento, luce e colore.
Rûmî stesso, nel suo Dìvàn-e Shams-e Tabrizî, scrisse:
«Il semà è la pace per l’anima dei vivi, e chi conosce ciò raggiunge la pace dell’anima. Colui che desidera il proprio risveglio, è quello che già dorme in un giardino.
Ma per chi dorme dentro a una prigione il risveglio è soltanto un dispiacere.
Assisti al semà là dove si celebra un matrimonio, non quando c’è un funerale, o in un luogo di dolore. Chi non conosce la propria essenza, colui ai cui occhi è nascosta questa bellezza lunare, che se ne fa della danza e del tamburo?
Il semà è fatto per l’unione con l’Amato; e per quelli che hanno il viso rivolto alla qibla ecco, il semà rappresenta questo mondo e quell’altro.
e ancora: il cerchio dei danzatori di semà che dolcemente volteggiano ha nel suo centro la Ka`ba. Se desideri la miniera della dolcezza, ecco, essa è là, e se ti accontenti d’una briciola di zucchero, ecco: questo dono è gratuito.»
I sufi mevlevi basano la loro mistica su alcuni riti fra cui l’obbedienza al proprio maestro (sheykh), la ripetizione incessante (dhikr) del nome di Dio (Allâh), il ritiro spirituale di 1001 giorni in una minuscola cella e la danza sufi del samâ‘ (o semâ‘ in lingua turca).
Il semâ‘, (dalla radice araba Sîn-mîm-‘ayn) invita all’ascolto profondo, che il mevlevî raggiunge librandosi in tutta la persona e in particolar modo vibrando al proferire di una parola o di suono melodico di uno strumento musicale, una sorta di oratorio spirituale, attraverso la danza.
Secondo Alberto Fabio Ambrosio, studioso di antropologia, “I dervisci realizzano in un certo senso ciò che San Tommaso d’Aquino diceva a proposito del corpo e dell’anima. Tommaso sosteneva, nel XIII secolo – alla stessa epoca di Rûmî – che il corpo è nell’anima e non tanto l’anima nel corpo. Ora, i dervisci con la loro danza estatica insegnano che il corpo vive del flusso creatore di cui vive l’anima. Il primato dello spirituale sul corporeo diventa palese nel fatto che se l’anima gioisce dell’ascolto della Parola divina e dell’energia contenuta nell’universo, il corpo danzante è l’immagine della spiritualizzazione del corpo”.
Il più breve cammino verso Allah è il Cuore.
di Mawlana Jalaluddin Rumi.
Un Sufi si recò in un giardino decorato per meditare.
Attratto dai vividi colori del giardino, chiuse gli occhi, iniziò la sua muraqabah e si mise a meditare (muraqabah significa ritirarsi per un certo tempo dagli stimoli esterni del mondo con l’intenzione di alimentare la guida spirituale che il ricercatore ha ricevuto dal suo Shaykh. Si tratta di una pratica di contemplazione. “Adorate Allah come se Lo vedeste…”).
Un uomo ignorante che passava di là, pensando che il Sufi si fosse addormentato, rimproverò il Sufi: «Perchè dormi?» Gli domandò.
«Apri gli occhi ed osserva le vigne, gli alberi in pieno sviluppo e l’erba che sta rinverdendo! Ammira dunque le opere misericordiose di Allah!»
Il Sufi rispose: «Sappi bene una cosa, ignorante che non sei altro, il cuore è la più grande opera misericordiosa di Allah. Il resto è come la sua ombra. Un ruscello scorre in mezzo agli alberi. Nella sua acqua cristallina, tu puoi percepire i riflessi degli alberi delle due sponde. Quello che è riflesso nel ruscello è un giardino di sogno. Il vero giardino è nel cuore, perché il cuore è al centro dello sguardo divino. I suoi riflessi eleganti e snelli si trovano in questa vita mondana fatta di acqua e di fango. Se le cose di questo mondo non fossero state il riflesso dei cipressi della gioia del cuore, l’Onnipotente non avrebbe chiamato questo mondo di sogno il luogo dell’inganno. È detto nel Corano: “Ogni anima assaggerà la morte. Ma è solamente nel Giorno della Resurrezione che riceverete la vostra intera retribuzione. Chiunque, quindi, sia scartato dal Fuoco ed introdotto nel Paradiso, è certamente riuscito. E la vita presente non è che un oggetto di godimento ingannevole.” (al-Imran, 3: 185).
Gli ignoranti che pretendono che il mondo sia il Paradiso e che esclamano: “Qui è il Paradiso!” sono quelli che sono abbindolati dal luccichio dell’acqua. Quelli che rimangono lontani dai veri giardini, ovvero i servitori di Allah, tendono verso questa chimera e sono ingannati. Un giorno verrà quando questo sonno dell’ignoranza avrà fine. Gli occhi si apriranno, la verita sarà manifestamente veduta. Ma qual è il valore di vedere questo spettacolo mentre l’ultimo respiro viene reso? Una grande gioia per colui che è morto prima della morte e il cui spirito ha gustato il profumo della verità di questo giardino…»
di Adriana Paolini
Linkografia
http://www.mevlanafoundation.com/index_en.html
http://www.ansa.it/web/notizie/canali/inviaggio/news/2013/07/29/tracce-dervisci-rotanti_9089149.html
http://www.youtube.com/watch?v=p2KGDY6zT-Q
http://www.youtube.com/watch?v=hvsvvsiuUOg#t=12
http://www.youtube.com/watch?v=TQPyrdCutuc#t=439
Bibliografia
– Il Sufismo, rivista trimestrale di cultura e spiritualità, edita da Sufi Jerrahi Halveti, Italia 2007).
– Alberto Fabio Ambrosio, Dervisci. Storia, antropologia, mistica, Roma: Carocci editore, 2011.