Margaret Thatcher, la lady di ferro – 3° parte –
All’inizio del 1987, ultimo anno del secondo mandato elettorale e governativo, Margaret Thatcher non era nelle stesse condizioni di popolarità con cui vinse facilmente le elezioni del 1983, dopo la vittoria militare nella breve campagna contro gli invasori argentini nelle isole Falkland. Aveva mantenuto le promesse, sfidando le Trade Unions, riformato le leggi su scioperi e ruolo dei sindacati, aveva iniziato una serie di privatizzazioni a tamburo battente, trovando anche il tempo di sfidare l’irredentismo irlandese dell’I.R.A. sfruttando le facoltà delle leggi antiterrorismo senza troppi scrupoli. E aveva mantenuto atteggiamenti ed espressioni da sfida militare con tutti i suoi interlocutori, compresi i colleghi del partito Conservatore. Ma a che prezzo: l’Inghilterra era spaccata socialmente, con risentimenti fra schieramenti sociali e politici che avevano toni vicini a quelli di una guerra civile. Intere aree deboli della nazione erano state sprofondate nella depressione e lasciate economicamente in balia di se stesse, spesso dopo scontri epici con le classi sociali e lavoratrici ad esse legate: esemplare lo sciopero-guerra durato con i lavoratori delle miniere di carbone, durato tutto il 1984. L’applicazione dei principi liberisti estremi, senza se e senza ma, aveva forse fatto girare il vento per un paese sull’orlo del baratro, ma in molti si chiedevano se veramente fosse stata l’unica strada possibile, come aveva sostenuto enfaticamente la leader dei Tories, oppure se i costi non avessero alla fine superato i benefici.
Un’elezione non scontata
Nel 1985/86 un confortante trend positivo nella nascita di nuove imprese, specie nei settori privatizzati, con l’indice di disoccupazione in inversione di marcia, portarono l’indice di gradimento della lady di ferro fra i moderati a livelli insperati. Ma la fine del 1986 vide un rallentamento della ripresa nell’economia internazionale, ai cui cambiamenti la Thatcher aveva cercato di agganciare anchel’economia inglese. Neppure la riforma del mercato azionario e del sistema fiscale collegato, il boom del settore terziario e dei servizi, nonostante il loro grande successo riuscirono a impedire il rallentamento. A beneficiare dello sviluppo fu la parte meridionale del paese, quella infatti più vicina alla capitale. Sul piano globale, il rallentamento provocò una crisi di fiducia negli investitori che sfociò nel famoso “lunedì nero”, il 19 ottobre del 1987, quando le più grandi piazze d’affari crollarono preda di una crisi isterica, a partire da New York e Hong Kong. Ma seppure si rivelò essere passeggera, senza crisi di liquidità bancaria e recessione nell’economia produttiva, sul momento fece ritornare alla mente i fantasmi della Grande Depressione. Solo il grande sviluppo delle telecomunicazioni, delle contrattazioni elettroniche e l’introduzione del blocco delle contrattazioni per i titoli colpiti da eccesso di ribasso, salvarono i mercati internazionali da peggiori conseguenze. La lezione del 1929 non era passata invano. Ma in Gran Bretagna, gli entusiasmi e i facili ottimismi furono smorzati e la memoria dei recenti scontri e sacrifici richiesti tornarono subito in primo piano… Il numero dei disoccupati, creato dalle dismissioni statali e dal fallimento di imprese private non competitive, restava intorno ai 3 milioni, circa il 10,4% della popolazione, anche se il tasso di riassorbimento aumentava più rapidamente che negli altri paesi europei. Il grande sviluppo dell’economia finanziaria e gli investimenti nella borsa di Londra che la Thatcher aveva ottenuto con il Financial Services Act, in realtà avevano generato un classe di finanzieri, spesso giovani e spregiudicati, nelle cui mani era concentrata una ricchezza enorme, creata velocemente sfruttando la deregolamentazione liberista, così come era accaduto negli U.S.A. per Wall Street. La speranza della Thatcher era che l’economia inglese, liberata dei fardelli assistenzialisti e aperta al privato, avrebbe offerto un’opportunità ideale per reinvestire questi enormi profitti. Sarebbe stata un’iniezione di vitali risorse per l’industria manifatturiera in piena ristrutturazione (pensiamo a marchi come British Leyland o Rolls Royce, impegnata quest’ultima anche in campo aerospaziale) e dei servizi (British Telecom, British Airport, British Steel solo per citarne alcuni). Ma fino a quel momento, non era andata così. O almeno, non come la Thatcher ed i suoi ministri avrebbero voluto. La speculazione preferiva concentrarsi sulla compravendita di pacchetti e titoli azionari, ma non su un investimento duraturo sulle singole imprese. La situazione finanziaria di conseguenza non aumentava la liquidità nelle banche, quindi i tassi di interesse già alti andarono a crescere ancora. Questo a sua volta fece esplodere tra il 1986 e il 1987 il mercato immobiliare. La vendita delle case popolari agli assegnatari e alle aste pubbliche che la Thatcher aveva sostenuto col motto “tutti hanno diritto a possedere la propria abitazione” aveva pompato il mercato immobiliare. In molti finirono rovinati dal mix di inflazione in calo e costo del danaro alto. Solo nel 1987 circa 65.000 case finirono pignorate e vendute all’asta perché i proprietari non erano più in grado di pagare gli interessi salatissimi sul mutuo. Tutti questi effetti imprevisti diedero fiato anche agli avversari interni, non solo al partito Laburista. Comunque la forza e l’abilità della Thatcher avevano già iniziato a cambiare la vita politica del paese, non solo quella dei Tories: il leader laburista Neil Kinnock, che aveva iniziato a separare il destino del partito da quello dei grandi sindacati durante lo sciopero del 1984, nel tentativo di recuperare la credibilità perduta spostò la linea del partito dai suoi cardini tradizionali. L’opposizione al ruolo militare nucleare in seno alla NATO, alle politiche europeiste erano stati cavalli di battaglia laburisti fino a quel momento, ma Kinnock e la dirigenza laburista si resero conto che il modo di pensare della società inglese, anche della classe lavoratrice, era cambiato. Nell’integrazione europea si vedeva un’opportunità di proteggere le imprese e lavoratori inglesi dalla concorrenza della nascente globalizzazione, nonché la garanzia di avere l’intera Europa come mercato per i propri prodotti. Anzi, il crescente movimento per l’integrazione dell’Unione Europea era appoggiato da buona parte dei partiti socialisti europei. L’avversione agli arsenali nucleari restava certamente diffusa, ma non sembrava esser più una priorità di lotta per gli elettori Labour. In molte regioni del regno, come i bacini carboniferi gallesi e scozzesi, dove la mannaia delle dismissioni selvagge aveva privato le comunità anche dei loro tradizionali paracadute sociali (associazioni dopo lavoro, sindacali, sportive, società di mutua assistenza, eccetera) si era avuto un aumento preoccupante della criminalità, specialmente giovanile. E si registrava la crescita di movimenti neofascisti, come il National Front, più apertamente razzista del British National Party, la formazione di destra più tradizionale in Inghilterra.
Tra la fine degli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80 gli scontri di piazza tra “skinheads”, giovani estremisti di destra dalla testa rasata e i gruppi antirazzisti furono numerosi, specie nelle grandi città dove la presenza dell’immigrazione dalle ex colonie era più forte. Questa situazione giocò a favore dei movimenti progressisti e democratici, che richiamarono l’opinione pubblica a un nuovo impegno civile e politico a difesa della democrazia, come nel 1936 nella “battaglia di Cable Street” a Londra la popolazione fermò il movimento fascista di Sir Oswald Mosley, che intendeva marciare simbolicamente fino al parlamento. Tuttavia non fu abbastanza: alle elezioni dell’11 giugno il partito Conservatore ottenne il 40,2% dei voti validi, mentre il Labour Party solo il 30,8% mentre lo schieramento Liberali – Socialdemocratici si fermò al 22,6%. Quindi, la famiglia Thatcher avrebbe continuato ad abitare al numero 10 di Downing Street ancora per 5 anni. Gli analisti politici non si lasciarono sfuggire questa “vittoria nella vittoria” della Thatcher: aveva costretto gli avversari a spostarsi dalla loro piattaforma politica classica, per poi sconfiggerli lo stesso. Margaret Thatcher, con una vittoria certamente molto meno sicura che in passato, si era assicurata non solo la continuità nella sua attività politica, ma era entrata nella storia, oltre che come primo premier inglese donna, anche come primo capo di governo a ricevere tre mandati consecutivi. Anche la ‘piccola recessione’ del 1987/88 fu affrontata dalla lady con la fermezza e l’autorevolezza (ma qualcuno direbbe con l’autoritarismo) che l’aveva contraddistinta in tutta la sua carriera politica, benché avesse colto il governo inglese in un momento di “guado” nel passaggio da un’economia di industria pesante e di esportazione, con grande presenza della gestione pubblica, ad una di terziario e finanza, basata sulla più ampia libertà di iniziativa privata. La sua determinazione non veniva solamente per i valori di individualismo, intraprendenza e fede in se stessi che aveva ricevuto dall’ambiente familiare, come abbiamo avuto modo di vedere, o perché era già nella sua inclinazione caratteriale. Margaret Thatcher ha curato metodicamente la preparazione della sua immagine. Le teorie sulla comunicazione di massa e l’esempio di molti leaders fu senz’altro tenuto in considerazione, ma con qualcosa in più. Prese lezioni di dizione e recitazione, assunse uno studio pubblicitario come consulente, continuò a lavorare su se stessa anche una volta che ebbe ottenuto il successo, concentrando l’attenzione più ai punti deboli piuttosto che insistendo su sugli aspetti in cui era più forte. Come fa un’atleta professionista che, raggiunta una vittoria importante, non si siede sugli allori, non smette di allenarsi. Non seguì solo le indicazioni dei consiglieri più stretti, in ogni momento fu sempre attenta a considerare come migliorare la propria capacità di seduzione politica, di ricerca del consenso. L’attenzione ai mass media, la capacità di adattare la sua oratoria e la sua gestualità a seconda che si trovasse in Parlamento, a una convention di partito, in uno studio televisivo o fosse intervistata nel salotto di casa fu la chiave di volta della sua originalità nel comunicare rispetto ai leader che l’avevano preceduta o a quelli del tempo in cui viveva, anche a livello internazionale. Anche i suoi vestiti sobri, talvolta pieni di quello “strano senso dell’estetica” che hanno gli inglesi, l’acconciatura da signora di media borghesia facevano parte della sua comunicativa. Tuttavia, proprio nel terzo mandato quelle qualità che l’avevano fatta emergere, i successi oggettivi che aveva conseguito si ritorsero contro di lei.
L’Europa e la Thatcher, un rapporto non del tutto compreso.
La storia ci ha consegnato un’immagine della Thatcher come fiera oppositrice delle istituzioni politiche comunitarie e dello sviluppo degli organi di governo dell’Unione Europea a cui i singoli stati dovessero cedere ambiti di sovranità decisionale: e questo può sembrarci assolutamente coerente con le sue convinzioni personali e politiche. Tuttavia il rapporto dell’Inghilterra con gli altri stati europei non fu sempre così difficile, anche dopo la fine delle guerre mondiali. Nei duri anni dell’ultimo dopoguerra ad esempio le nazioni europee, uscite devastate dal conflitto, si dibattevano nella morsa della fame e della recessione, compresa l’Inghilterra che di fatto ormai stava perdendo il suo impero ed era tornata una piccola nazione al pari delle altre, ma con le responsabilità militari e politiche di nazione vincitrice del conflitto mondiale. La creazione di istituzioni, come la C.E.C.A., la comunità europea del carbone e dell’acciaio, sull’iniziativa di pensatori e politici fermamente europeisti, favorirono senz’altro la rinascita delle economie europee e gettarono le basi per la conoscenza, l’integrazione, la collaborazione fra i vari paesi. L’Inghilterra è sempre stata un’isola di nome e di fatto? Forse, ma non è che non sia stata coinvolta nelle vicende del continente a cui appartiene, guardando anche solo alla storia moderna e contemporanea, nell’ultimo secolo due guerre mondiali combattute in prima linea contro il mondo germanico vi sembrano poco? Ma non solo guerre… la cultura e la storia degli altri paesi sono entrati in quella inglese in profondità, dai tempi dei Romani, dei Celti e dei Bretoni. Anche la rinascita del pensiero europeista negli anni del dopoguerra non è stata vista in maniera del tutto negativa nella terra d’Albione. Il carbone e l’acciaio britannico trovarono vicini acquirenti per molti anni, mentre le iniezioni di danaro europeo permisero all’agricoltura e all’allevamento, tradizionalmente avanzati nella culla della rivoluzione industriale, di riprendersi dal dissanguamento della guerra e migliorare ulteriormente. Quindi la partecipazione agli accordi economici e ai trattati era stata positiva. Ma la Thatcher, antistatalista e liberista, non poteva essere certamente d’accordo con le tendenze politiche di successo in Europa: creare istituzioni di vero governo, come il Parlamento europeo, il Consiglio, in cui sedevano rappresentanti nominati dai governi dei paesi europei aderenti: quindi voleva dire che governanti eletti in altri stati avrebbero potuto prendere direttive, emanare leggi vincolanti anche per i sudditi della Corona. Per di più, negli anni in cui la Thatcher si trovò a rappresentare il suo paese nelle istituzioni europee, buona parte degli altri leaders appartenevano all’area di centro-sinistra socialista, o quanto meno liberal – progressista, con una visione politica diametralmente opposta alla sua. Lei è andata ai congressi della CEE, la Comunità Economica Europea, dove presidenti e primi ministri di più lunga esperienza la guardavano con sufficienza (unica donna in un consesso di capi di stato uomini e con scarsa esperienza di trattative internazionali) a chiedere di ridurre l’azione delle istituzioni europee negli affari dei singoli stati e di conseguenza di ridurre i contributi economici versati ogni anno, frutto delle tasse pagate anche dai contribuenti inglesi: dal 1984 sempre più spesso andò a gridare nei consessi comunitari i suoi “I want my money back!”, rivoglio indietro i miei soldi, con un’ostinazione che sorprese tutti i suoi colleghi. Ad un summit tenne tutti inchiodati sulle sedie finché non ottenne una decisione favorevole alle sue proposte: le auto della delegazione francese attesero per più di un’ora il presidente Valery Giscard D’Estaigne e gli altri membri dell’Eliseo, dopo che era stato detto agli autisti di prepararsi perché la riunione era finita.
Il suo successore all’Eliseo, Francois Mitterrand, parlava spesso con il suo psicoanalista della profonda inquietudine generata nel dover trattare con lei. Il cancelliere tedesco Helmuth Kohl, padre della riunificazione tedesca, disse che parlare con lei di Europa gli faceva venire il mal di testa… Gli aspetti più evidenti dell’euroscetticismo thatcheriano, benché importanti, rischiano di generare un equivoco che nasconde un’altra parte interessante della sua riflessione politica. Per quanto conservatrice, la Thatcher non fu mai una populista, non si lasciò mai irretire da facili nostalgie, da tentazioni isolazioniste, appunto. Non negò mai il legame culturale ed economico con l’Europa, una strada da cui non si può tornare indietro se si vuole garantire il vero sviluppo integrato delle nazioni europee, anche come relazioni politiche. Era l’idea di una Europa politica che lei contestava. Il messaggio che portò con forza a Bruxelles fu molto più lungimirante e non venne compreso: mentre in tutto il mondo, anche oltre la cortina di ferro, iniziavano ad esser chiari i segni del fallimento delle politiche stataliste accentratrici, che pretendono di guidare tutto da un unico centro di potere, il cuore dell’occidente civilizzato, l’Europa, andava controcorrente e pretendeva di fondare un’unione, un mega stato unico con una guida unica, una mega burocrazia di fatto indebitamente ingerente in tutti gli aspetti della vita di centinaia di milioni di suoi cittadini, in primis in economia. L’Europa avrebbe continuato a funzionare da enorme volano economico-culturale solo se fosse rimasta una comunità fra pari, senza perdere la straordinaria ricchezza costituita dalla diversità tra i partners europei. Un rapporto di tipo politico fra gli stati aderenti inevitabilmente avrebbe portato a una lotta per la supremazia, in cui avrebbero fatto la voce grossa gli stati più forti economicamente e politicamente, creando un’Europa non solo diretta troppo dall’alto rispetto alla variegata realtà delle sue regioni, ma soprattutto inevitabilmente a due o più velocità. E il trattato di Maastricht, la creazione di una moneta unica, l’Euro, così come la nascita di una banca centrale, sarebbero stati uno strumento di questo squilibrio, per cui vi si oppose sempre, senza “se” e senza “ma”. E in questa visione fu assolutamente coerente con i suoi ideali liberisti. Si potrà essere d’accordo o meno con le posizioni sostenute dalla Thatcher, con le conseguenze delle sue riforme, ma oggi, alla luce della crisi (di modello politico oltre che prettamente economica e monetaria) che l’Unione Europea sta attraversando, che lei abbia saputo individuarne chiaramente le debolezze con un anticipo di almeno trent’anni, questo non lo si può negare.
La lady fa goal: la riforma del calcio e la fine della violenza negli stadi.
Margaret Thatcher sicuramente non amava il calcio e non comprendeva chi lo segue. Tuttavia, nella patria che aveva dato i natali allo sport forse più praticato al mondo, dovette confrontarsi anche con questo mondo. Ormai da almeno 15 anni, tra crisi economica e scontri sociali, negli stadi inglesi aveva fatto la comparsa la violenza organizzata delle tifoserie estremiste. Lentamente, gli spettatori veramente interessati allo sport, gli appassionati veri erano stati emarginati dal fenomeno degli hooligans, che avevano preso possesso degli stadi. Sicuramente la situazione era tremenda: buona parte degli stadi inglesi erano vecchi di almeno 50 anni, costruiti con soluzioni e materiali inadatti, cadevano letteralmente a pezzi. Le terraces, le gradinate in pietra o cemento dove le tifoserie più affezionate seguivano in piedi le partite senza alcuna barriera se non qualche balaustra, erano molto amate ma stavano facendo il loro tempo, così come gli spazi incontrollabili, dove gli estremisti del tifo, spesso ben addizionati da birra ed altri alcoolici si davano appuntamento per sfidarsi in risse enormi. Le squadre di club subivano quasi il ricatto di queste frange, sempre più povere di risorse, mentre l’indice di popolarità di questo sport-spettacolo cadeva ai minimi della sua storia. E al violenza delle tifoserie inglesi coinvolgeva anche il tifo per antonomasia, quello per la nazionale… Ma due terribili avvenimenti indussero la Lady di ferro a scendere in campo, come si suole dire: il 29 maggio 1985, all’Heysel Stadium di Bruxelles si stava per giocare la finale di coppa dei campioni tra il Liverpool e la Juventus. Stadi di vecchia concezione e organizzazione della sicurezza insufficienti non erano un problema solo inglese, come si vide amaramente quella sera. Nel settore Z, gradinate strette in cemento in prossimità del campo, erano stati indirizzati i tifosi della Juventus, tra loro molte famiglie con bambini. A pochi metri, dietro a una rete leggera, i tifosi del Liverpool, già alterati dall’alcool, incominciarono a lanciare oggetti e iniziarono la carica, mentre i pochi agenti di polizia presenti non riuscivano a capire come fermare gli animi esagitati. Ben presto la risposta di parte dei tifosi Juventini arrivò col lancio di oggetti e pezzi delle gradinate, mentre la sottile striscia neutrale fra le due tifoserie si riduceva sempre più. Alle 19.25, un’ora prima del calcio di inizio, la folla dei tifosi spaventati si ammassò verso il muro e la rete sul lato opposto, che cederono. Un’orribile groviglio di corpi, di persone che, cadevano le une sulle altre, si calpestavano e si schiacciavano a vicenda, una tragedia trasmessa in diretta in tv. La UEFA e il governo belga ebbero sicuramente le loro responsabilità, ma i 39 morti (il più giovane aveva 11 anni) e gli oltre 600 feriti, pesarono come un macigno da allora sull’immagine dei football supporters e del popolo inglese stesso per quanto frange della tifoseria italiana non fossero estranee agli scontri.
Questo era solo l’ultimo atto di una serie di incidenti, che portarono le organizzazioni sportive a bandire la partecipazione delle squadre di calcio inglesi dalle coppe internazionali, con l’approvazione del governo inglese, embargo che durò fino al 1990. Solo 3 mesi prima dell’Heysel, a Bradbury 56 persone avevano perso la vita in un incendio appiccato durante una partita di una serie minore, in un vecchio stadio le cui strutture erano ancora in legno… La Thatcher reagì come sempre, come se andasse in battaglia: perché la violenza negli stadi non era solo un problema di ordine pubblico interno, ma un motivo di disonore per l’intero paese. Il parlamento inglese, sotto grande spinta del governo, discusse e approvò nel 1985 lo Sporting Event Act, per il quale finalmente si vietava la vendita di alcoolici negli stadi o nelle vicinanze di essi, così come in stazioni, su treni o altri mezzi di trasporto in concomitanza con eventi sportivi. E nel 1986 il Public Order Act permise alla magistratura di fermare per 24 ore e processare in direttissima chiunque fosse stato coinvolto in disordini durante manifestazioni sportive, nonché alla polizia di fermare per accertamenti chiunque durante manifestazioni di massa si comportasse in modo anomalo.
Ma la tragedia peggiore si verificò allo Hillsborough Stadium di Sheffield, dove il 15 aprile del 1989 era prevista la semifinale della tradizionale FA Cup: a scendere in campo il Liverpool ed il Nottingham Forest. A mezz’ora dal fischio di inizio, previsto per le 15.00 buona parte della tifoseria dei Reds (nomignolo dei tifosi del Liverpool, dal colore rosso delle loro maglie) era ancora all’esterno. Un po’ per l’esclusione dai tornei europei delle squadre inglesi dopo l’Heysel, un po’ per la bella giornata primaverile, ai cancelli si erano presentati molti più tifosi. Sia il personale che la South Yorkshire Police vennero colti di sorpresa. A 15 minuti dall’inizio venne aperto il gate C, un grande cancello che portava attraverso un tunnel alla Leppings Lane, la curva ovest riservata ai tifosi del Liverpool. La decisione fu catastrofica: le migliaia di tifosi si accalcarono attraverso il tunnel, ma lo sbocco era nella parte centrale della curva, che si riempì ben oltre i 2000 posti previsti, mentre chi era rimasto nel tunnel rimase soffocato dalla calca di chi seguiva. Coloro che si trovavano davanti, verso gli spalti ed il terreno di gioco, a loro volta vennero schiacciati senza pietà contro le pesanti cancellate anti hooligans. Quando la gente disperata prese a scavalcarle, la polizia li caricò brutalmente, credendo di trovarsi di fronte a un’invasione di campo verso i settori del Nottingham. Non appena ci si rese conto della terribile situazione, la partita venne fermata e vennero aperti i cancelli verso il terreno di gioco, ma ormai era troppo tardi: 96 morti e oltre 200 feriti lasciarono il mondo intero sgomento.
Una commissione di inchiesta, presieduta dal giudice Peter Taylor produsse una dettagliata relazione, il Rapporto Taylor, che mise in luce le spaventose carenze dello stadio e il comportamento irresponsabile dei vertici della polizia. Benché nessuna responsabilità fu rilevata a carico degli appartenenti alle tifoserie, Margaret Thatcher colse l’occasione per “chiudere i conti” con il nemico del momento, le tifoserie organizzate, con un colpo tipico del suo intuito. Minimizzando le responsabilità delle forze dell’ordine e manipolando il rapporto Taylor, la Thatcher strumentalizzò l’indignazione dell’opinione pubblica, addossando la colpa agli hooligans. Il quotidiano The Sun pubblicò una spregevole e falsa ricostruzione dei fatti, che ha indotto la nascita di un comitato , “Justice for 96”, giustizia per i 96 morti. Vent’anni dopo il premier David Cameron ha chiesto pubblicamente scusa ai familiari delle vittime. Un altro chiodo sulla bara politica di Margaret Thatcher, un altro luogo, Sheffield, dove sarà sempre disprezzata, per quanto nessun legame tra la montatura e la leader conservatrice sia mai stato provato. A tempo di record, sulla base di quella montatura, venne promulgato lo Spectator’s Act, una legge che permetteva di impedire l’ingresso agli stadi a persone già condannate per atti di violenza e impose di controllare i documenti di identità di chi si recava alla partita. Inoltre le restrizioni colpivano per la prima volta anche chi volesse recarsi all’estero per seguire partite di club o della nazionale. Venne creata la National Crime Intelligence Service Football Unit, una unità della polizia dedicata a investigare, anche con infiltrazioni di agenti, le tifoserie organizzate prevenendo le loro azioni. Nel corso del decennio successivo vennero fermate e consegnate alla giustizia oltre 20.000 persone accusate di reati contro l’ordine pubblico. Ma la cosa più importante, la Thatcher comprese il legame fra strutture inadeguate e proliferare della violenza. Impose così alle società di interrompere ogni rapporto privilegiato con le tifoserie organizzate, così come di ammodernare gli stadi: vennero previsti solo posti a sedere, sia in tribuna che in curva, sottoposti a stretta sorveglianza di steward dipendenti dalla società. Ogni settore doveva esser sorvegliato per via televisiva e le immagini visionabili in tempo reale dal posto di polizia interno allo stadio. Nessuna barriera o cancellata sarebbe stata permessa tra campo di gioco e posti a sedere, così come nessuna barriera o strettoia nell’accesso agli stadi. Era la fine dell’era dei terraces. Fu una rivoluzione efficace, ma su terribili basi. Con un colpo al cerchio ed uno alla botte, la Thatcher introdusse anche nel calcio la sua ricetta liberista: consentì alle squadre di modificare la propria organizzazione per trovare gli ingenti capitali necessari a riorganizzarsi e ricostruire gli stadi, aprendosi alle partecipazioni di azionisti e sponsorizzatori in cerca di profitto. Squadre come il Manchester United sbarcarono addirittura in borsa negli anni a seguire, aprendosi al mercato di gadget e oggetti promozionali della squadra. Pochi anni dopo la Football League divenne la Premier League ed il calcio inglese fu nuovamente un protagonista dello sport internazionale. Il campionato dopo anni di depressione in cui i migliori talenti andavano all’estero, incominciò ad attirare giocatori e tecnici dall’estero, con compensi e possibilità di carriera pari ai più blasonati campionati stranieri. Tuttavia nemmeno nel mondo del calcio la Thatcher le è riuscito di lasciare un ricordo univoco e positivo di se: dopo la morte dell’ormai ex primo ministro su molti campi di gioco ci si è rifiutati di rispettare il minuto di silenzio in suo ricordo voluto dalle leghe sportive. Molti dei tecnici e dei giocatori provengono da zone industriali la cui popolazione ancora oggi non ha dimenticato la durezza delle misure economiche della Lady di ferro nonché il suo uso “disinvolto” della legge e delle forze dell’ordine. Inoltre solo l’attuale leader Conservatore e primo ministro, David Cameron, a 23 anni dalla tragedia dell’Hillsborough Stadium ha ammesso che il rapporto Taylor fu strumentalizzato e che la tifoseria del Liverpool non ebbe alcuna responsabilità nella strage, mentre vennero nascoste quelle della polizia. Tuttavia le normative anti violenti vennero ampliate con progetti di legge anche dai governi laburisti di Tony Blair, segno che la Lady comunque si era mossa nella giusta direzione.
Il governo Thatcher perde pezzi e consensi: verso la fine dell’esperienza politica.
La fermezza nella guida del governo inevitabilmente si rifletteva anche nell’atteggiamento con cui fino a quel momento era riuscita a guidare il partito Conservatore ed a ottenere il consenso anche al suo interno. Ed è proprio dall’interno del partito, al governo ininterrottamente dal 1979 grazie alla sua leadership, che arrivarono i primi malumori. Tra alcuni dei leader principali, compresi dei ministri del governo, si diffuse un atteggiamento di insofferenza crescente al monolitismo thatcheriano. E anche nel paese si incominciava a respirare un’aria diversa, di stanchezza per gli atteggiamenti sempre inflessibili del primo ministro. I segnali non avrebbero tardato a comparire. Nel 1985 tra le industrie oggetto delle privatizzazioni governative vi era la Westland helicopters, fabbrica di elicotteri importantissima per l’industria militare. Il ministro della difesa Michael Heseltine, da sempre in polemica con la Thatcher, contestò l’offerta fatta dal gruppo americano Sikorsky come una svendita del know-how alla concorrenza d’oltreoceano. Il ministro inglese promosse autonomamente un accordo con i governi di Italia, Germania Ovest e Francia per arrivare a un accordo per trovare nuovi soci europei per la Westland e per impegnare i partners europei a comprare solo velivoli militari disegnati e prodotti in Europa. Ma Sir John Cockney, segretario del gruppo industriale, dichiarò che l’offerta del colosso aereonautico americano era seria e la Westland ne avrebbe tratto vantaggio. La scelta vedeva anche l’appoggio della Thatcher e del ministro per l’industria Leon Brittan. Heseltine non si diede per vinto presentando un piano per fare entrare la Westland nel grande gruppo aerospaziale nazionale British Aerospace, già oggetto anch’essa di dismissione delle partecipazioni statali, col contributo dell’italiana Agusta e di altre industrie francesi. A questo punto lo scontro fra i due ministri del gabinetto Thatcher divenne a quel punto pubblico con grave imbarazzo per il primo ministro. Heseltine passò alla stampa una corrispondenza avuta con la Lloyd Bank in cui esprimeva il timore che se avesse vinto l’offerta statunitense la Westland avrebbe perso le commesse degli altri paesi europei, che non volevano comprare elicotteri Sikorsky. La Thatcher per tutta risposta inviò la lettera al Capo Procuratore della Corona. Durante una burrascosa riunione di gabinetto il 9 gennaio 1986 Heseltine, accusato apertamente di aver danneggiato l’azione di governo, diede le dimissioni. In una altrettanto infuocata quanto breve conferenza stampa denunciò l’atteggiamento padronale con cui il primo ministro decideva gli orientamenti del governo. In seguito lo stesso fedelissimo ministro Brittan, che aveva fatto trapelare a sua volta alla stampa una parte della risposta del Procuratore della Corona sul comportamento di Heseltine ed aveva negato davanti al parlamento di aver ricevuto una lettera riservata della British Aerospace, fu costretto a dimettersi. Tra i commentatori politici vi furono alcuni che si dichiararono apertamente convinti che Brittan avesse agito secondo le istruzioni della Thatcher e che fosse stato cinicamente sacrificato per salvare il governo da una crisi certa. Alla fine la Westland venne acquisita dalla Sikorsky, come voleva la Thatcher. Ma ovviamente la questione non era chiusa.
La Thatcher si occupò in seguito anche di ambiente, riconoscendo (con uno dei suoi imprevedibili atteggiamenti) la validità degli studi internazionali sui cambiamenti climatici, sulle piogge acide e sul buco nello strato di ozono sulle calotte polari e impegnando anche l’Inghilterra a studiare soluzioni a tali problemi. Una mossa che prese in contropiede assieme avversari e sostenitori ancora una volta. Ma sul fronte dei diritti civili, dopo esser stata in gioventù apertamente contro la discriminazione degli omosessuali, cambiò completamente orientamento e promosse l’emanazione nel 1988 della cosiddetta clausola 28, suscitando un’enorme protesta in tutto il paese e all’estero. Nel testo della legge si faceva divieto agli enti locali di promuovere qualsiasi attività che potesse pubblicizzare l’omosessualità o qualsiasi altra forma di aggregazione familiare non basata sulla famiglia naturale. Di fatto l’impossibilità di avere l’appoggio pubblico per qualsiasi iniziativa in cui si parlasse di omosessualità o stili di vita alternativi. I tempi stavano cambiando, ma la Thatcher sembrava non averlo colto. Sempre nel 1988 suscitò stupore e riprovazione la sua solidarietà all’ex dittatore cileno Augusto Pinochet, definito in una dichiarazione “un campione della democrazia”. Il generale fu responsabile del golpe del 1973 contro il governo Allende e della repressione successiva, fece torturare e sparire migliaia di cittadini solo sospettati di avere simpatie di sinistra. Venne fermato in Inghilterra, dove si trovava per cure mediche una volta lasciato il potere, su mandato internazionale di arresto della magistratura spagnola, in quanto alcune delle sue vittime avevano passaporto iberico. La Thatcher rischiò l’incidente diplomatico con la Spagna, premendo sull’autorità giudiziaria britannica perché non concedesse l’estradizione e visitando nella sua residenza l’ex dittatore. In realtà dietro alla solidarietà verso Pinochet non c’era solo la sua ossessione per la lotta al socialismo nel mondo, ma anche la gratitudine per l’appoggio ottenuto durante la guerra delle Falkland con l’Argentina, rivale storica del Cile. Pinochet con discrezione aveva permesso ai commandos del SAS inglese di penetrare in territorio argentino, nonché aveva concesso ad aerei da ricognizione della Royal Air Force a corto di carburante di rifornirsi nelle sue basi.
Mentre l’Argentina era costretta a mantenere sui confini col Cile le sue unità migliori, preoccupata dall’atteggiamento cileno verso gli inglesi. Pinochet riuscì così a tornare in Cile, dove ottenne di non essere processato. Le associazioni per i diritti civili non perdonarono mai alla Thatcher tale comportamento. E anche nel partito ci fu chi avrebbe voluto dissociarsi da quella posizione scomoda. In ogni caso si stava diffondendo l’impressione che la Thatcher si stesse facendo prendere la mano dal suo oltranzismo politico e caratteriale, tanto da non riconoscere l’insostenibilità di certe posizioni. Ora che bene o male la nazione sembrava in salvo e si ricominciava a guardare al futuro con ottimismo, la Thatcher stava diventando politicamente scomoda per molti. Di fronte a un partito Laburista ancora alla ricerca di una sua identità, ai socialdemocratici sostanzialmente divisi fra chi appoggiava l’alleanza con i liberali e chi voleva correre da solo, comunque non sembrava vi fossero oppositori abbastanza forti da mettere in discussione la posizione della Thatcher, almeno fino alle successive elezioni del 1991. Ma il peggior nemico di Margaret Thatcher si rivelò essere Margaret Thatcher stessa. Il 1989 fu un anno di gioia politica e personale per la Thatcher: l’implosione del blocco comunista e lo sfaldamento dei regimi del patto di Varsavia lasciati soli dalla ritirata dell’URSS iniziò con la spettacolare apertura del muro di Berlino. Migliaia di persone si abbracciavano dopo più di 40 anni di rigida separazione, 28 dalla costruzione effettiva del muro. A centinaia erano morti tentando di superare la barriera, con qualsiasi stratagemma. Il muro, vero simbolo della guerra fredda, cadeva sotto i colpi dei picconi di migliaia di persone e dei bulldozer, la fame di libertà di un intero popolo a cui il governo della DDR si era dovuto arrendere. Ma per la Thatcher questo successo, che sentiva anche come personale, nascondeva un rovescio della medaglia, che in quei momenti nessuno vedeva, tranne lei. Una Germania riunificata troppo velocemente avrebbe sbilanciato nel giro di pochi anni i rapporti in Europa. Berlino si sarebbe ripresa l’intero continente, ma questa volta senza panzer o bombardamenti, nell’euforia di tutti… conosceva bene le capacità di organizzazione dei tedeschi, e temeva molto una nuova egemonia della locomotiva tedesca. Con gli occhi sul mondo di oggi, per molti aspetti bisogna ammettere la sua previsione sembra aver colto nel segno. Ma quell’anno fu anche portatore di grande dolore e amarezza per la Thatcher. All’inizio del 1989, dopo una piccola ripresa nel 1988, la frenata dell’economia internazionale si fece sentire anche di più in Gran Bretagna. L’inflazione rapidamente tornò a crescere fino all’11% e il tasso di disoccupazione medio si attestò al 9%. Tra le preoccupazioni dei ministri del gabinetto Thatcher vi erano anche le disastrate casse degli enti locali, comuni in testa. Negli enti guidati da maggioranze del Labour party o di sinistra in genere, la reazione alle politiche draconiane del governo centrale fu spesso l’apertura dei cordoni della borsa, a sostegno di progetti sociali o del reddito di molte famiglie in difficoltà. E talvolta anche amministrazioni locali conservatrici in parte seguirono questa strada. La lady di ferro decise per metter al riparo i conti dello stato di valersi della facoltà datale dal diritto inglese di ingerirsi nelle questioni locali emanando leggi che ne influenzassero l’azione. Per l’ennesima volta la Thatcher sorprese tutti chiedendo di studiare l’introduzione di una Poll Tax a livello locale. Questo contrastava apertamente con tutti i programmi e gli orientamenti liberisti perseguiti dai governi conservatori fino a quel momento, poiché introduceva una nuova tassa, con aliquota uguale per tutti, decisa però solo in parte dall’amministrazione locale. All’interno del governo l’aria si fece torrida: tra i maggiori critici vi era proprio il ministro delle finanze Nigel Lawson, fortemente contrario a modificare la politica di contenimento della tassazione. Anche l’influente ministro degli esteri e vice primo ministro, Sir Geoffrey Howe, si dichiarò contrario a quella decisione. Ma come sempre la volontà della lady ebbe la meglio, e già a fine 1989 in Scozia, una delle regioni più depresse del paese, veniva applicata la nuova tassa. Mentre prima la tassazione locale sulle persone si concentrava sul valore degli immobili, la Poll Tax, o Community Charge, introduceva una tassa fissa per tutti gli adulti residenti.
Non era storicamente una novità, nel medioevo era stata utilizzata spesso. Dal punto di vista delle classi lavoratrici, questo era l’ennesimo regalo ingiustificato ai ricchi e l’ennesimo salasso per le famiglie a reddito basso. Mentre per la classe medio – alta era un incomprensibile dietro – front rispetto alla politica monetaria sinora perseguita. In un colpo solo la Thatcher aveva scontentato quasi tutto l’elettorato. Non pochi sindaci dichiararono apertamente di non voler applicare tale tributo, mentre il Socialist Worker’s party, una formazione della sinistra radicale, promosse apertamente lo sciopero fiscale. Nacquero spontaneamente Anti-Poll Tax Leagues in tutto il paese, scoppiarono rivolte e manifestazioni locali, che arrivarono il 31 marzo 1990 fino a Trafalgar, nel cuore di Londra, con migliaia di persone a protestare contro la lady di ferro, sotto la statua dell’ammiraglio Nelson.
Forse per la prima volta dopo anni di aspre divisioni, la società inglese era unita in un unico proposito, far rimangiare alla Thatcher le sue decisioni. Quella società che lei stessa era convinta non esistesse, se non come insieme di singoli, come aveva dichiarato nell’intervista rilasciata Douglas Keay nel 1987, le stava dimostrando qualcosa in parte diverso. Lo scontro non era solo nelle strade, ma nel governo stesso, dove Geoffrey Howe, anche se seguace delle teorie monetariste, sosteneva che l’adesione alla politica di scambi valutari a tasso fisso promossa dal Sistema Monetario Europeo (SME) fosse l’unico modo di proteggere la sterlina dall’instabilità dei mercati finanziari. La Thatcher, come abbiamo potuto vedere, ormai era assolutamente contraria alle politiche europeiste, aveva puntato molto sullo sviluppo del mercato finanziario e non avrebbe mai accettato una limitazione tale della sovranità monetaria inglese.
Alla fine, messo all’angolo, fu costretto a dimettersi dal governo il 1 novembre 1990, ma pronunciò un discorso infuocato contro il suo ex primo ministro che suonò per la Thatcher come la fine del consenso interno al partito Conservatore : con molto sarcasmo si disse il primo ministro della storia a doversi dimettere perché completamente d’accordo con le linee programmatiche del governo. Ad ottobre 1989 si era dimesso Nigel Lawson, il ministro delle finanze, sostituito da John Major. Howe e Lawson erano stati thatcheriani della prima ora ed avevano ricoperto incarichi in ogni governo della lady. La loro presa di posizione fu per molti analisti politici il segnale della fine della sua carriera come capo di governo. Ma l’unica a non voler comprendere la reale portata della situazione sembrava lei. Il 20 novembre, mentre si apriva il congresso del partito Conservatore, lei volle comunque partecipare alla conferenza monetaria di Parigi, convinta di avere ancora dalla sua parte la maggioranza del partito. A sfidarla apertamente per la guida dei Tories quel Michael Heseltine che lei aveva costretto pochi anni prima alle dimissioni e che ora assaporava il gusto della vicina vendetta. La votazione portò la sorpresa: Heseltine aveva ottenuto solo 4 voti in meno di lei, quindi si sarebbe dovuti andare ad un secondo turno di votazioni, secondo le regole interne al partito. Rientrata di urgenza a Londra, dovette affrontare la realtà dei fatti. Il partito, come l’elettorato ormai le avevano voltato le spalle. La mattina del 22 novembre, dopo una notte travagliata di riflessioni, comunicò al congresso la sua volontà di dimettersi.
Andò a Buckingham Palace a rimettere nelle mani della Regina il suo mandato, ma chiese di non sciogliere il parlamento. Al partito Conservatore propose di terminare la legislatura sostenendo la candidatura di John Major al suo posto, fino alle elezioni del 1991. Proposta che venne accettata dalla maggioranza del partito. Una mossa che, come ultimo colpo di coda, chiuse la carriera anche del suo avversario politico. Quando lasciò Downing Street, dopo 11 anni di dominio incontrastato, salutò i giornalisti ed i cittadini fra le lacrime, appoggiata al marito. L’immagine stranamente umana di una persona che di se aveva sempre dato un’apparenza ben diversa. Seppe resistere a tentazioni presenzialiste, “when it’s over, it’s over”. Quando è finita, è finita davvero… Nominata Baronessa di Kesteven dalla regina, progressivamente si ritirò dalla vita politica e scivolò nell’anonimato di un mondo che la ricordava malvolentieri, minata dall’Alzheimer e dal dolore per la morte del marito Denis avvenuta nel 2003. L’ultima apparizione ufficiale fu quando venne invitata a Downing Street dal premier attuale David Cameron nel 2010. Poi di nuovo nell’ombra, fino all’ictus dello scorso 8 aprile. Solo allora il mondo si è ricordato di lei. La regina partecipò ai suoi funerali: l’ultima volta che aveva partecipato alle esequie di un leader politico erano state quelle di Winston Churchill… Eppure la sua eredità politica, l’impronta che ha dato all’economia, al modo di fare politica sono ancora attuali e saranno discussi. L’altro storico leader laburista del secolo scorso, Tony Blair, anche lui eletto per tre volte primo ministro, ha dovuto ammettere che tutti si sono adattati al suo modello di politico. Buona parte delle sue riforme sono ancora in vita, solo in parte modificate. La sua figura, il giudizio sulla sua azione continuerà a dividere ancora per molto tempo….
di Davide Migliore
Bibliografia e Linkografia
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http://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_generali_britanniche_del_1987
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Margaret Thatcher è morta, ma il Thatcherismo è ancora attuale. Nicola Porro, il Giornale.
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