Questa domanda sembra incuriosire un po’ tutti, non solo i nuovi operatori spaziali sempre più preoccupati per i loro dispendiosi investimenti, ma anche i comuni mortali che cominciano a considerare l’ipotesi di un rientro incontrollato dei rifiuti spaziali uno scenario sempre meno fantascientifico. Eppure, guardando la normativa internazionale in tema di attività spaziali, da nessuna parte sembra esservi un divieto espresso di inquinamento dello spazio extra-atmosferico, così come un conseguente obbligo di protezione dell’ambiente. Per di più non solo l’era d’oro dei trattati sullo spazio sembra essere ormai tramontata, ma anche la Comunità Internazionale da qualche decennio si è drasticamente orientata verso strumenti sempre più blandi di regolamentazione, prediligendo le cosiddette fonti di soft law.
Eppure questo silenziosa sconfitta della codificazione giuridica delle attività spaziali non dovrebbe necessariamente essere concepita come un fallimento. In particolare, nell’era dello sfruttamento del “Quarto Ambiente” potrebbe essere ancora possibile preservare l’ambiente extra-atmosferico, semplicemente cambiando prospettiva! In particolare un’analisi ecocentrica delle fonti internazionali, invece che rigidamente antropocentrica, tesa quindi a porre la prevenzione dell’inquinamento spaziale al centro dell’opera di interpretazione potrebbe offrire un’interessante chiave di lettura delle problematiche ambientali.
In quest’ottica, di particolare pregio potrebbe essere il Trattato sullo Spazio del 1967, convenzione sottoscritta ad oggi da 104 Stati e considerata la Magna Charta delle attività spaziali. Questo trattato è stato, infatti, il primo documento internazionale concepito per tradurre in obbligazioni pattizie principi fondamentali che fino ad allora erano stati affrontati solamente mediante strumenti di soft law, in particolare mediante la Dichiarazione dei principi giuridici che disciplinano le attività degli Stati nell’esplorazione e nell’utilizzo dello spazio extra-atmosferico del 1963.
Il fatto che da alcuni sia stata considerata convenzione di codificazione, mentre da altri solo convenzione quadro, o da da altri ancora ritenuta deliberatamente vaga così da adattarsi di volta in volta alle sfide del diritto spaziale poco importa giacché due sono le disposizioni che maggiormente incidono dal punto di vista della tutela ambientale dello spazio extra-atmosferico: gli articoli 1 e 9 del Trattato.
Primo ad arrivare, primo a servirsi?
Partendo dall’Articolo 1 del Trattato del 1967, esso non si limita a sancire una generica libertà dello spazio extra-atmosferico, ma la segmenta in tre corollari: libertà di utilizzazione, di esplorazione e di accesso. Di queste, le prime due sono certamente dipendenti dalla prima. In questo senso, da una lettura congiunta degli Articoli 1 e 2 del Trattato, lo spazio extra-atmosferico risulta essere una res communis omnium, altrimenti denominato bene comune, da cui consegue un divieto tassativo di appropriazione dello stesso, seppur lasciandone libera la sua gestione in base al principio “primo ad arrivare, primo a servirsi”, e il diritto di ogni Stato di accedervi in condizioni di parità. In questo senso la dottrina dello spazio come res communis conterrebbe un’obbligazione negativa secondo cui gli Stati dovrebbero avere il dovere di non impedire l’accesso e lo sfruttamento agli altri Stati portatori dei medesimi interessi. Questa obbligazione letta con la clausola dell’interesse e beneficio comune di tutti i Paesi nell’utilizzazione ed esporazione dello spazio extra-atmosferico, tesa a dare attuazione alla seconda parte della disposizione, andrebbe ad assicurare l’utilizzazione dello spazio a beneficio dell’intera comunità. Tale clausola, quindi, non dovrebbe essere interpretata come un obbligo degli Stati di spartire i benefici tratti dall’utilizzazione ed esplorazione dello spazio, ma piuttosto come un dovere di garantire l’equa utilizzazione di questo, e quindi un diritto di ogni Stato di accedervi a parità di condizioni degli altri attori spaziali.
In tal senso, la disposizione acquista un importante rilievo sul piano della prevenzione ambientale, implicando che possano considerarsi legali (e quindi conformi al Trattato sullo Spazio del 1967) solo quelle attività spaziali la cui prosecuzione non pregiudichi l’equa utilizzazione dello spazio. Pertanto, tutte le attività che incidono negativamente sull’ambiente spaziale, come i detriti dunque, vanno a violare il regime giuridico del Trattato, di modo che tale clausola viene a configurarsi come parametro di legalità delle attività spaziali, il cui corollario risulta essere la prevenzione dell’inquinamento spaziale.
Un immenso laboratorio di sperimentazione da mantenere inalterato
Di contro, l’Articolo 9 può ritenersi il vero nocciolo duro della tutela ambientale dello spazio extra-atmosferico. Infatti, sebbene la norma non fu concepita con questo intento, due sono le obbligazioni qui introdotte: l’obbligo di condurre le attività spaziali con il dovuto rispetto per gli interessi degli altri attori spaziali e l’obbligo di evitare effetti pregiudizievoli di contaminazione dell’ambiente extra-atmosferico e terrestre, dovendo prendere le opportune misure in tal senso. La norma va quindi segmentata in più parti. In questo senso, la prima frase va ad introdurre il principio del dovuto rispetto per gli interessi degli altri attori spaziali, andando a richiamare una disposizione già presente nel diritto del mare e disciplinante la pesca in alto mare (Convenzione sull’Alto Mare del 1958). Infatti, la ratio delle due disposizioni è analoga: garantire parità di accesso a una risorsa divenuta scarsa in determinate aree (in questo caso l’orbita geostazionaria e i punti di lancio dove si ha il maggior affollamento di satelliti). In tal senso, entrambe le disposizioni sottendono la nozione di equità, il cui parametro di valutazione diventa l’utilizzazione ottimale della risorsa comune. Utilizzazione ottimale intesa, qui, come tentativo di trarre il massimo beneficio da una risorsa e quindi la massima soddisfazione, riducendo contemporaneamente il rischio di pregiudicare gli interessi simmetrici di un altro attore spaziale.
Di contro, la seconda parte dell’Articolo 9 è quella che più esplicitamente vieta l’inquinamento spaziale, richiamando l’obbligo per gli Stati parte del Trattato di evitare effetti pregiudizievoli di contaminazione, intesa sia come backward contamination (dallo spazio verso la Terra) che come forward contamination (dalla Terra verso lo spazio extra-atmosferico). In tal senso, tuttavia, tale tutela dell’ambiente extra – atmosferico di per sé risulta essere solo incidentale, in quanto la protezione dello spazio fu concepita unicamente nell’ottica della cosiddetta sci-lab perception, dove lo spazio doveva essere preservato perché inteso come un immenso laboratorio di sperimentazione da mantenere inalterato.
Tuttavia, un’interpretazione della norma esclusivamente incardinata sull’analisi del contesto storico in cui la norma fu partorita sarebbe in contrasto con la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969) che richiama il contesto storico come criterio ermeneutico sussidiario. Piuttosto, il dato normativo andrebbe interpretato dando quindi rilievo al significato che i termini della convenzione hanno nell’uso ordinario. In tal senso il termine “contaminazione” dovrebbe essere interpretato alla stregua di “inquinamento”, dove per inquinamento si intenderà la modifica dell’ambiente ad opera dell’uomo attraverso l’introduzione di elementi indesiderati o mediante un uso indesiderato degli stessi, dove per elementi indesiderati possono intendersi i detriti spaziali o la loro creazione. In entrambe le ipotesi, tale atteggiamento viene a configurarsi come violazione dell’equa utilizzazione dello spazio extra-atmosferico. Tuttavia, per esservi violazione del trattato, non solo deve sussistere il fenomeno dell’inquinamento, ma tale contaminazione deve anche essere pericolosa. In questo senso, la soglia di tolleranza oltre il quale il comportamento dovrà intendersi in violazione del trattato, dovrà essere commisurata al livello di rischio di produzione di detriti connesso all’attività spaziale soggetta a scrutinio. In questo senso, il livello di tolleranza di utilizzazione di una risorsa comune oltre il quale la condotta diventerà illegale sarà il pregiudizio dell’equa utilizzazione da parte di un altro Stato della stessa risorsa.
Cooperazione nell’esplorazione, nell’utilizzo e nella difesa ambientale dello spazio
In conclusione, può ritenersi che ad oggi entrambi gli articoli 1 e 9 istituiscano degli standard di condotta che gli Stati impegnati in operazioni spaziali sono tenuti a rispettare. In particolare, istituiscono un generale obbligo di cooperazione nell’esplorazione e nell’utilizzazione dello spazio, incardinato sul principio del dovuto riguardo per gli interessi degli altri attori spaziali. Da esso deriva l’implicito dovere di consentire l’accesso allo spazio in condizioni di parità, da cui consegue un obbligo di prevenire l’ambiente spaziale da qualsiasi forma di contaminazione e in particolare di inquinamento da detrito.
Perciò sia gli investitori che i comuni mortali da oggi potranno dormire sonni tranquilli: se un domani i nuovi yankee del Quarto Ambiente decidessero di inquinare e massacrare l’ambiente spaziale, un modo per impedirglielo dovrebbe “in teoria” esistere… già in teoria!
Giulia Pavesi
Fonti
Abstract – Tesi magistrale.