«Quando la registrazione fu terminata portai una copia a casa e la feci ascoltare a mia moglie. Ricordo che si mise a piangere. A quel punto pensai «questo ha sicuramente toccato una corda da qualche parte», ed ero contento di questo. Sai, quando hai fatto qualcosa, di sicuro se hai creato un’opera musicale, quando poi la fai ascoltare a qualcun altro la senti con un orecchio diverso. E fu in quel momento in cui mi dissi «wow, questo è un lavoro abbastanza completo», e avevo molta fiducia del fatto che la gente avrebbe risposto.»
Non ci sono frasi migliori e più calzanti di quelle con cui il bassista e leader carismatico dei Pink Floyd Roger Waters ricorda e commenta il giorno in cui fece ascoltare per la prima volta a sua moglie la versione definitiva dell’album più famoso della band: “The Dark Side of the Moon”.
Ed è proprio per l’intimità dei concetti toccati nell’opera che le frasi di un marito, non che autore di tutti i testi dell’album, alla propria moglie, ovvero una delle persone a lui più vicine e legate, possono comunicare la sensazione che ancora oggi a distanza di 40 anni dalla sua pubblicazione l’opera provoca al suo ascolto.
Quando si decide di avere a che fare con il “lato oscuro della luna” si è intenzionati a viaggiare nei meandri più profondi del proprio io, facendosi trasportare dalle musiche sognanti, ma concrete del quartetto inglese nelle pieghe più inesplorate e all’apparenza pericolose e insicure, le quali però una volta svelate possono darci la forza di provare ad avere una nuova visione di noi stessi.
Per cercare di comprendere al meglio la stesura e la composizione dell’album è impossibile non ripercorrere l’evoluzione della band, che tramite alcune tappe di avvicinamento (non meno valide e stimolanti dell’album in questione), portarono i Floyd alla stesura di questo osannato elaborato musicale e non solo.
Formatesi nel 1965, i Pink Floyd avevano già alle spalle una storia travagliata e ricca di argomenti anche dal punto di vista extra-musicale: il loro primo leader, Syd Barret, era stato allontanato dalla band in seguito all’accrescersi della sua malattia mentale (una rara forma di schizofrenia e alterazione della personalità), non prima di dare alla luce uno dei più importanti album della psichedelia della fine degli anni 60′: “The Piper at the Gets of Dawn”
Dopo l’abbandono di Barret, Waters assunse il ruolo di guida carismatica della band, e i Floyd si concentrarono su elaborazioni e sperimentazioni sonore, accompagnate anche nel caso del famoso “Live at Pomepii” da proiezioni video e animazioni.
Non mancano inoltre le lunghe divagazioni musicali, dette appunto “suite”, tra le quali Echoes dell’album “Meddle” o la traccia col nome dell’album che in quel periodo ebbe più successo, cioè “Atom Heart Mother”, che segnò il definitivo allontanamento dalle sonorità psichedeliche maturate nell’era barrettiana, in direzione di una musica ricercata e avvolgente, quasi totalizzante, che venne in seguito definita progressiva. Uno stile musicale inconfondibile, definito da alcuni come musica “sferica”, che grazie ad arrangiamenti perfetti e alla costruzione architettonica, come ricorda a tal proposito del loro modo di comporre il chitarrista David Gilmour, permette all’ascoltatore di calarsi nella più profonda delle introspezioni.
“Dark Side of the Moon” dunque si erge a degno alfiere simbolo di questi aspetti, rappresentò la vera e propria consacrazione per il quartetto londinese, con cui ottennero, come ricorda il batterista Nick Manson, successo, fama e ottimi guadagni. Le ragioni di tutto questo sono molteplici da spiegare, ma se il tempo non ha ancora intaccato la brillantezza dell’album non c’è modo migliore per comprendere come sia stato possibile con il suo ascolto, operazione che riserva ogni volta stupore e irriverenza, oltre ad altre miriadi di sensazioni che le parole non sono semplicemente in grado di spiegare; perché in “Dark Side” le liriche si fondono con disarmante armonia assieme alla musica, cosi come nel dipinto di un maestro rinascimentale i colori e le immagini trasferiscono i contenuti profondi dei concetti più densi di significato
Tutto questa apparente complessità viene inaspettatamente, ma volutamente già smorzata dalla copertina dell’album, creata da Storm Thorgerson, una delle più famose e celebrate della storia del rock: l’immagine del prisma su fondo nero difatti è abbastanza semplice e volutamente meccanica, così come la luce disegnata con tratto bianco fine si staglia sul prisma stesso per riflettersi su di esso e formare lo spettro della luce. Questo meccanicismo cela una metafora fondamentale che rispecchia il percorso tracciato dai testi di Waters: il fatto che Dark Side sia l’allegoria del percorso della vita è appunto testimoniato dal simbolo del prisma stesso: il triangolo è da sempre nella cultura il richiamo della fertilità, il delta capovolto, lì dove nasce la vita. Poi c’è la luce: quel fascio di luce che si sottrae all’oscurità della luna.
Non meno importante è l’interno del disco; infatti in esso si trovano le estensioni dei raggi colorati presenti sul fronte, cosi da poter essere proprio collegati con quelle della cover esterna, in modo da formare una sorta di ripetizione compulsiva, che và a simboleggiare l’idea dell’infinito.
Il lavoro si differenzia da quelli precedenti sia per quanto riguarda l’aspetto musicale che quello lirico; in primis la musica risulta più diretta e fruibile rispetto ai lavori passati, ma non per questo perde di ricercatezza, non risultando priva di forti tinte avanguardistiche.
Fu registrato nel famoso studio di Abbey Road sotto la sapiente conduzione del tecnico audio Alan Person, grazie al quale i Pink Floyd poterono utilizzare alcune fra le tecniche sonore più sofisticate per l’epoca, come l’uso di registratori multi-traccia a 16 piste, oppure come il campionamento (dall’inglese loop), che permetteva di riprodurre in ripetizione un suono precedentemente copiato su dei nastri ( si vedano le monete che rimbombano nelle scodelle di ceramica in apertura a “Money”). Insieme alla tradizionale strumentazione base rock, i Floyd usarono altri tipi di strumenti che potevano rappresentare una grande novità per l’epoca, fra i quali i sintetizzatori, volutamente sovrabbondanti in “On the Run”; una grancassa, modificata in modo tale da simulare la frequenza cardiaca umana, che apre e chiude il disco oltre a comparire sporadicamente all’inizio di “Time”; oppure il cross-fade, una tecnica di registrazione usata per sovrapporre più parti di diverse canzoni all’inizio di un unico brano, nello specifico tutto apparirà più chiaro all’ascolto di “Speack to me”.
Un aspetto peculiare, inconfondibile e rivoluzionario, che rende Dark Side un unicum ancora ai giorni nostri, è l’uso di voci estratte da varie interviste a cui parteciparono persone fra le più svariate, come tecnici del suono, o altri inservienti dello studio di registrazione. Non è possibile non menzionare fra queste, quella che risulta essere una delle più emblematiche e spiazzanti: «There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark» (non c’è nessun lato oscuro della luna, davvero. In realtà è tutta scura), che si ascolta proprio in conclusione del disco ed è pronunciata dal portiere degli studi di Abbey Road, in cui si riflette sul fatto che sì la luna sembra brillare di luce propria, ma in realtà risulta essere tutta scura
Di fondamentali importanza, come ricorda il compianto tastierista Richard Wright, per aumentare la fruibilità del disco e renderlo più facile da assorbire, è la presenza continua di voci femminili a fare da contorno. Questo tocco nella maggior parte dei casi dona proprio quel velo pop ( nella sua valenza commerciale del termine) che le sperimentazioni degli anni precedenti avevano sempre scansito, così da rendere il prodotto più “digeribile”; ma in “The Great Gig in the Sky” l’assolo vocale della turnista Clare Torry, interpretazione definita dallo stesso Waters come “orgasmica” riesce a sconvolgere, portando all’ascoltatore, con disarmante potenza, la metafora del viaggio da compiere appena giunti alla morte.
Ma tutta questa roboante architettura musicale forse ha come ruolo principale quello di essere il degno legante delle parole presenti nel disco, che grazie al loro messaggio universale per l’umanità riescono a rendere l’immediatezza e l’urgenza comunicativa di “Dark Side of the Moon” ancora quarant’anni dopo la sua pubblicazione. Difatti Rogers Watres (autore di tutti i testi) nelle sue liriche, che a tratti senza alcun timore possono essere definite filosofiche, riesce a farci intraprendere in modo straordinariamente coinvolgente un’ avventura coraggiosa verso la conoscenza del “lato oscuro”, ovvero le debolezze e le paure dell’uomo, i suoi vizi e i suoi irrimediabili difetti, non ché le sue degenerazioni mentali.
Per questo ultimo aspetto il bassista deve senza dubbio aver riflettuto sulla pazzia dell’ex leader Syd Barrett, come si nota in modo inequivocabile dall’ascolto del brano “Brain Damage”, dove Waters disegna con disarmante lucidità i tratti predominanti della follia, con il dolore per averla vista imperversare in un suo stretto conoscente.
Le due tracce iniziali, “Speak to me” con i suoi battiti tesi a simboleggiare la nascita e le sue urla di follia, e “Breathe”, col la perfetta fusioni delle voci di Gilmour e Wright, pongono l’accento sulla futilità degli aspetti mondani della vita e sulla loro pochezza, invitando l’ascoltatore a concedersi un “respiro”, facendo trasparire il profondo pessimismo di Waters.
I due brani più famosi dell’album risultano essere “Time” e “Money”, nei quali è lampante e straordinariamente efficace il concetto prima esposto dell’unione di liriche e musica; nel primo il dirompente assolo della chitarra David Gilmour penetra nelle viscere più dionisiache dell’ascoltatore, lasciandolo in balia del messaggio quasi “Oraziano” di Waters, che sprona a concentrarsi sull’”attimo” senza investire troppe energie nel controllare lo scorre inesorabile del tempo;
nel secondo uno dei più famosi giri di basso della storia del rock moderno, assieme ad un inedito sassofono, è la colonna sonora di una denuncia contro il più bieco dei consumismi e la temibile avarizia.
Si passa quindi alla pacata “Us and Them”, dove il bassista ammonisce chi si avvale dell’egocentrismo nei rapporti personali con l’uso di semplici dicotomie, e pone l’accento su come la prospettiva della propria opinione sia l’unica che interessa realmente all’uomo.
In coda troviamo il pezzo forse più filosofico dell’album, “Eclipse”, in cui Waters espone e mostra un concetto astratto, ma immanente, una sorta di unità astronomica, in cui l’essere umano risulterebbe però l’unico elemento difettoso, e forza l’ascoltatore a concentrarsi su l’unica cosa a lui rimastagli, ovvero gli aspetti comuni della vita e delle persone
Come si può evincere da questa breve esposizione, siamo di fronte ad una vera e propria opera universale; un disco che è molto di più di semplice musica da ascoltare, in quanto ha la funzione di vero e proprio strumento di analisi interiore, che richiede attenzione e concentrazione da parte dell’ascoltatore, ripagandolo con delle sensazioni che solo il compimento di un viaggio arduo, ma dai paesaggi spettacolari e mozza-fiato riesce a trasmettere; un viaggio che ogni uomo razionale, ma coraggioso è invitato a intraprendere.
Così a quarant’anni di distanza, l’immediatezza non è svanita, e la musica del “lato oscuro” continua a farci sognare ad occhi aperti: Buon ascolto!
di Tommaso Bertinelli
SITOGRAFIA:
– http://it.wikipedia.org/wiki/Pink_Floyd
– http://it.wikipedia.org/wiki/The_Dark_Side_of_the_Moon
– http://spettacoli.tiscali.it/articoli/musica/13/03/14/dark-side-of-the-moon-40-anni.html
– http://www.ondarock.it/pietremiliari/pinkfloyd_thedark.htm
– http://keplero.tripod.com/copertine.htm
– http://www.lyra.net/fabio/new/songs.php?aut=3&alb=25
– http://spazioinwind.libero.it/macman/musica/DarkSideoftheMoon.html
Si consiglia di consultare la pagina facebook della band http://www.facebook.com/pinkfloyd?fref=ts per poter scoprire le varianti copertine modificate di “ Dark Side of the Moon”, che stanno proliferando nel corso del suo quarantennale.