Categoria | Politica-Economia

Dal 1963, l’U.S.A.F. alloggia a Ghedi, un lotto di bombe termonucleari B61

Pubblicato il 08 novembre 2023 da redazione

L’atomica nel giardino di casa. Dopo la fine della “guerra fredda”, le armi nucleari tattiche continuano ad essere presenti in Europa, anche più vicino a noi di quanto si possa pensare….

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Quattro bombe termonucleari a caduta libera B61 riprese su un carrello in attesa di essere caricate su un velivolo da bombardamento.

La fine di quel periodo storico chiamato “guerra fredda” ha cambiato molti degli equilibri geopolitici e militari del mondo. Questo ha voluto anche dire un ripensamento nelle strategie e nella struttura degli strumenti militari dei vari Paesi.

In Europa la NATO e gli Stati che ne sono membri ha incominciato a confrontarsi con altre minacce e ha spostato la propria attenzione ad altri teatri di crisi, dove è stata anche chiamata a combattere, con compiti ben diversi rispetto a quelli per cui era stata creata.

La NATO stessa è cambiata, accogliendo molti di quei paesi dell’Est Europa che facevano prima parte dello schieramento “nemico”.

Eppure alcuni degli strumenti e delle filosofie di intervento legate ai lunghi decenni di confronto col blocco orientale sovietico sono rimasti gli stessi: stiamo parlando delle armi a testata termonucleare “tattiche”, pensate per l’utilizzo sul campo per l’intervento contro concentramenti di truppe, centri di comando o altri bersagli, a breve-medio raggio, almeno rispetto alla capacità dei missili e dei bombardieri intercontinentali.

Tali armi erano di tipo balistico a caduta libera, pensate per essere sganciate sul bersaglio da velivoli da combattimento veloci, capaci di penetrare le difese aeree avversarie con il volo a bassissima quota.

Anche dopo che i potenziali teatri di guerra per cui erano state concepite hanno smesso di esistere, queste armi continuano ad essere presenti e ad essere mantenute in condizioni di impiego bellico. E ci sono piloti e personale di terra che i continuano a addestrarsi ogni giorno al loro possibile impiego.

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La filosofia della “condivisione nucleare”

Nel dicembre 1963, l’U.S.A.F., l’Aeronautica Militare Statunitense, trasferì nella base dell’aeronautica Militare Italiana di Ghedi, in provincia di Brescia, un primo lotto di bombe termonucleari (cioè a fusione di idrogeno) le nuovissime B61, con lo scopo che fossero messe a disposizione dei reparti aerei italiani chiamati ad operare in seno alla NATO in caso di conflitto con l’Unione Sovietica e gli altri paesi del Patto di Varsavia.

Altri ordigni vennero dislocati in altre nazioni come Belgio, Olanda, Germania, Gran Bretagna, Turchia.

Ai paesi ospitanti il compito di costruire gli shelters, ovvero i depositi corazzati, in cui tenere le armi e addestrare le proprie forze di interdizione e attacco al loro impiego, alle forze americane quello di mantenere in efficienza e sorvegliare gli ordigni, armi formalmente sempre di proprietà del governo americano.

Durante gli anni più bui della guerra fredda le armi comprendevano anche missili antiaerei terra – aria o aria – aria, proiettili di artiglieria, mine, tutti a testata nucleare.

Il generale Chuck Yeager, primo uomo a superare in volo la velocità del suono, ricordava nelle sue memorie che tra gli anni 50 e 60, quando prestava servizio come pilota da caccia tattica, si viveva costantemente con quegli ordigni appesi agli aerei negli hangar, pronti al decollo su allarme.

Dopo la caduta del muro di Berlino e la ridefinizione di compiti militari e spese, sono rimasti solo gli ordigni aerotrasportati: ancora oggi le B61.

Hans Kristensen, scienziato membro della Federation of American Scientist, una associazione fondata nel 1945 da alcuni scienziati che avevano collaborato al progetto Manhattan, il programma nucleare militare americano, ha scritto nel 2001 un rigoroso studio sull’argomento, nonostante lo strettissimo segreto militare che circonda da sempre la materia, continuando a aggiornarlo e completarlo anno dopo anno.

Kristensen sostiene che ancora oggi vi siano armi nucleari tattiche efficienti nella base di Ghedi (tra i 20 e i 40 esemplari) e Aviano in Friuli (circa 50 esemplari), per un totale di 70/90 ordigni.

Le armi teoricamente presenti a Aviano sono gestite direttamente dal 31° Fighter Wing dell’U.S.A.F., l’unità aeronautica operativa più numerosa al di sotto delle Alpi, che addestra i propri piloti all’uso sugli F 16 C delle armi nucleari a caduta libera.

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La targa commemorativa posta all’interno della base di Ghedi ricorda gli oltre 50 anni di collaborazione fra le forze aeree italiane e quelle americane. Manca ogni riferimento al fatto che oggetto della missione è l’uso delle armi nucleari tattiche.

Il che farebbe dell’Italia il paese dove attualmente sono presenti più basi nucleari e più ordigni di questo tipo!

Si usa il condizionale perché alla base di tale valutazione vi sono per lo più osservazioni esterne, non ultime anche fotografie satellitari.

Le autorità americane, italiane o NATO smentiscono la presenza di tali armi, soprattutto per non alimentare il sospetto russo di un mancato rispetto degli accordi sullo smantellamento degli arsenali nucleari in Europa.

Ad esempio, anche la targa commemorativa dei 50 anni di collaborazione posta recentemente nella base di Ghedi parla genericamente di una “missione NATO”, ma è del tutto assente ogni riferimento al deterrente nucleare.

Altro segnale è la presenza nella base del 704° Mun.S.S. (Munition Support Squadron), una unità altamente specializzata nell’assistenza al munizionamento nucleare, assieme ai grossi camion WMT (Weapon Maintenance Truck), concepiti per muovere e mantenere le armi in tutta sicurezza, data la presenza di plutonio nelle testate.

La NATO ha comprato 12 camion WMT, che fanno la spola fra le 4 basi europee a capacità nucleare. Il 12 marzo 2014 un camion WMT era stato visto all’interno della base di Ghedi, vicino agli alloggi del personale del 704° Mun.S.S. .

Quando un ordigno deve essere sottoposto a manutenzione, viene portato fuori dalle camere blindate sotterranee presenti nei PAS (Protective Aircraft Shelter), i ricoveri corazzati dei jet, secondo il rigido protocollo di sicurezza Weapon System 3.

Già in passato simulazioni e studi avevano sottolineato il rischio di involontarie attivazioni, per cui le B61 sono state sottoposte nei decenni a continui (e costosi) aggiornamenti della tecnologia applicata.

Gli inneschi, basati su esplosivo convenzionale, sono conservati e maneggiati separatamente dal resto dell’innesco (una bomba convenzionale a fissione di Uranio) e della testata vera e propria (Plutonio e Idrogeno Trizio).

Tuttavia, un ulteriore studio tecnico ha dimostrato che durante la fase di smontaggio nel camion, se un fulmine colpisse il mezzo mentre le protezioni dei circuiti elettrici fossero disattivate, la bomba potrebbe auto attivarsi ed esplodere.

Per cui è in corso l’acquisto di camion di nuova generazione, chiamati Secure Transportable Maintenance System (STMS). La NATO ha stanziato 10,8 milioni di Euro e il governo statunitense altri 8,8 perché 5 ditte specializzate costruiscano 10 STMS, da consegnare entro il 2014.

I conti si fanno in fretta, ogni camion costerà ai paesi NATO 1,96 milioni di Euro.

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Il nuovo sistema mobile di manutenzione per armi nucleari STMS assieme a un’arma B61 dimostrativa. Nella stessa immagine il raffronto col sistema WMT in corso di sostituzione.

Il giocattolo inutile e il dilemma giuridico

Ma non è solo la questione della sicurezza che impone questa spesa: le B61 presenti in Europa, al momento valutate in totale sui 180 esemplari, sono in corso di modifica allo standard versione Mark 12.

La modifica prevede che le bombe vengano dotate di un sistema computerizzato e superfici di controllo, di modo che siano teleguidabili a distanza sul bersaglio, per migliorare la precisione di sgancio ed evitare che l’aereo vettore sorvoli la zona del bersaglio, evitando anche le armi antiaeree avversarie.

Questo comporterà un aumento di circa 45 chili di peso per ogni arma, che finirà per pesare anche oltre 400 chili.

A cascata, questo comporterà ulteriori spese per l’addestramento all’uso delle nuove armi sia al personale di terra, sia per i piloti dei velivoli da attacco, nel caso di Ghedi, i Panavia Tornado IDS in dotazione al 6° Stormo “Diavoli Rossi”.

Kristensen riporta una stima secondo cui la manutenzione e l’addestramento all’uso (compreso l’acquisto di esemplari di bombe “ inerti” da esercitazione ) delle B61 Mk12 supererà i 154 milioni di dollari l’anno per le nazioni NATO, specie per quelle che ospiteranno direttamente nelle proprie basi tali armi e che dovranno affrontare anche l’adeguamento delle strutture per la protezione dei nuovi ordigni, anche da minacce esterne, in tempi di terrorismo internazionale non si sa mai.

Il costo totale invece per adeguare tutte le B61 in servizio arriverà all’astronomica cifra di 10 miliardi di dollari, ovvero oltre 7,4 miliardi di Euro.

Con le sempre più gravi ristrettezze dovute alla lunga crisi economica, l’aumento dei costi per queste armi rischia di essere insostenibile e non più giustificabile: anzi, se la loro presenza durante la guerra fredda serviva da deterrente nei confronti di aggressioni avversarie, oggi rischiano di essere ulteriore motivo di attrito con la rinata potenza militare di Mosca.

In particolare, l’aeronautica Militare Italiana, a fronte di numerosi impegni in missioni internazionali, ha dovuto ridurre le ore di volo dalle 150.000 del 1990 a sole 90.000 nel 2010, concentrandole sui profili operativi più utili.

L’addestramento, fondamentale per il corretto uso delle attrezzature e per evitare incidenti, paradossalmente si è ridotto fino anche all’80%.

Inoltre le autorità italiane sono alle prese col dilemma di dover affrontare l’acquisizione dei velivoli multiruolo detti di quinta generazione, i caccia F 35-A Lightning II, che dovrebbero andare a sostituire anche la flotta di attacco dei Tornado, assieme a una ulteriore necessità di dismissione di strutture e di risparmi di bilancio.

Solo l’adattamento degli F35 anche al profilo “nuclear strike” comporterebbe un costo di altri 350 milioni di dollari da pagare al costruttore Lockheed Martin.

Questa rischia davvero di essere una “missione impossibile” per l’aeronautica militare, ma non solo per l’Italia.

A conti fatti, i governi europei e i vertici militari della NATO si stanno chiedendo se valga ancora la pena di investire e mantenere delle armi che sembrano avviarsi a essere superate nella loro concezione.

Il dilemma è se il costo sostenuto per mantenerle efficienti, aggiornarle e proteggerle non sia ormai nettamente inferiore all’utilità che possano dare come deterrente o, peggio, come arma effettiva in caso di uso bellico.

Le ultime crisi internazionali, comprese quella coreana del 2013 e quella attuale in Ucraina, con l’ulteriore raffreddarsi dei rapporti con la Federazione Russa, ha visto la reazione della NATO concentrarsi più su studi di scenario che contemplano l’uso di armi convenzionali.

Anche quando si è trattato di mostrare un po’ i muscoli, la NATO ha deciso di usare i bombardieri nucleari, col rischiaramento di tre B52 Stratofortress e due B2 Spirit dell’U.S.A.F.

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Questi velivoli servono soprattutto come piattaforme per il lancio di armi “stand off”, capaci di auto dirigersi sul bersaglio, sganciate anche a notevoli distanze, come i missili Cruise.

Se fossero stati sufficienti gli arsenali di bombe tattiche a garantire l’effetto deterrente verso i russi, il rischiaramento dei bombardieri strategici non avrebbe avuto alcun senso.

Quindi ci si trova alle prese con un costosissimo e inutile giocattolo, la cui eliminazione renderebbe disponibili preziose risorse, assolutamente necessarie nelle operazioni internazionali convenzionali.

Inoltre, la presenza permanente di questi armamenti sul territorio nazionale pone molte questioni a livello giuridico.

Ad esempio, la Costituzione italiana contiene all’articolo l’esplicito ripudio delle armi quale mezzo per risolvere i conflitti fra gli stati e quale mezzo di offesa verso altri paesi.

Ma si trova coinvolta nell’operazione NATO Nuclear Sharing ormai da 50 anni: teoricamente le sue forze armate hanno la capacità di avere a disposizione e utilizzare armi di distruzione di massa.

Inoltre nel 1975 il parlamento italiano ha ratificato l’adesione al TNP, il trattato internazionale di non proliferazione nucleare del 1968 che obbliga anche i paesi aderenti a non ricevere da nessuno armamenti nucleari e a rifiutare il controllo, diretto o indiretto, su tali armi.

Quindi l’Italia si trova in una situazione paradossale di rifiutare gli armamenti atomici e di esserne dotata contemporaneamente.

I difensori della linea pro – NATO sottolineano che la partecipazione all’operazione Nuclear Sharing sia avvenuta ben prima dell’adesione dell’Italia al patto di non proliferazione e che le regole di utilizzo eventuale di tale armamento pongano l’Italia al di fuori delle nazioni ufficialmente dotate di armi nucleari, ma questa interpretazione ha già suscitato molte critiche.

Questo è un nodo che presto dovrà essere affrontato perché costituisce una grave contraddizione nel sistema giuridico italiano, una violazione dei valori fondanti della Repubblica.

Al momento i costi maggiori nel mantenimento degli armamenti tattici sono sostenuti dal governo di Washington, l’unico che pare essere ancora pienamente convinto dell’utilità delle armi tattiche nucleari. Ma per quanto tempo ancora?

Forse la crisi economica finalmente riuscirà contro la ragion di stato, laddove il diritto in passato ha fallito.

 

di Davide Migliore

 

Bibliografia e sitografia

l’arsenale nucleare in Italia”, Hans Kristensen, Rivista Internazionale, luglio 2014.

Ali”, di Mark Meyer e Chuck Yeager, Istituto Geografico de Agostini, 1986.

http://fas.org/blogs/security/2014/06/ghedi/

http://www.linkiesta.it/bombe-atomiche-italia

http://it.wikipedia.org/wiki/Condivisione_nucleare

http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1807

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/07/01/news/ecco-le-bombe-nucleari-di-brescia-1.171372

http://en.wikipedia.org/wiki/B61_nuclear_bomb

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