Della famosa sigla BRIC che indica i paesi a più forte sviluppo economico degli ultimi anni, le ultime due lettere individuano paesi che si trovano a pieno titolo in questa fortunata short list, cioè l’India e la Cina (gli altri due sono rispettivamente Brasile e Russia).
Cina e India, pur essendo nazioni profondamente diverse, sono accomunate dalla strabiliante crescita economica degli ultimi anni, tanto che alcuni studiosi hanno coniato il termine Cindia per individuare una macro area che da sola contiene il 40% della popolazione mondiale e crea il 20% della ricchezza mondiale.
L’India, indipendente dal Regno Unito dal 1947, dal 1991 ha cercato di sviluppare un economia di mercato, incentrando il suo modello di sviluppo sul capitale umano, riuscendo a formare in pochi anni i più richiesti ingegneri al mondo, sul mercato interno più che gli investimenti esteri, e sul settore dei servizi, come ad esempio i call center delocalizzati dalle multinazionali in India grazie alla naturale cordialità e al bilinguismo della popolazione indiana. Infine, in India sono presenti distretti industriali fortemente specializzati, come il caso di Bangalore, vera e propria capitale mondiale dell’information technology e il paese indiano è la più grande democrazia mondiale, nonostante le numerose differenze linguistiche, etniche e religiose.
A differenza dell’India che ha cercato di avvicinare la sua economia quanto più possibile ai sistemi occidentali, la Cina ha cercato una via alternativa, la cosiddetta “via cinese al socialismo”. Con la rivoluzione culturale degli anni ‘70 diretta da Deng Xiaoping venne gradualmente meno il sillogismo ricchezza uguale disonore, tipico della cultura comunista di Mao. Con Xiaoping infatti la ricchezza personale iniziò ad essere vista come modo per rendere grande la “nuova” Cina e a partire dal 1980 vennero create zone ad economia speciale (ZES) con lo scopo di aprirsi gradualmente al commercio con l’estero, mediante un apertura controllata e limitata dei confini economici.
I motivi dello sviluppo cinese sono da ricondurre, oltre allo sviluppo e all’ammodernamento delle ZES, ad oggi tra le aree più popolate ed industrializzate del pianeta, soprattutto agli investimenti delle multinazionali occidentali che, sfruttando la mano d’opera a bassissimo costo, hanno delocalizzato gli stabilimenti in Cina, rendendola la vera e propria fabbrica del mondo (nel 2012 in Cina il costo della mano d’opera media orario era di 2,9€, contro i 14,7€ degli Stati Uniti e i 18,2 della zona Euro: fonte Passport 2013).
Il vantaggio di breve periodo delle multinazionali occidentali è stato così barattato con milioni di posti di lavoro nel mondo occidentale e con il trasferimento graduale di know how (conoscenza tecnologica e produttiva) indispensabile alle imprese occidentali per mantere il loro vantaggio competitivo.
Oggi nell’immaginario collettivo i marchi cinesi o indiani sono ancora considerati di qualità infima, ma molto presto potrebbero arrivare nel mercato europeo prodotti di società cinesi e indiane che, grazie ad ingenti investimenti pubblicitari e una qualità accettabile, potrebbero essere assimilati ai brand più importanti.
A dir il vero, questo processo è già iniziato. E’ il caso di TATA Motors, compagnia automobilistica indiana che ha acquisito Jaguar e Land Rover, e di WeChat, sistema di messaggistica online simile a WhatsApp, che ha come testimonial televisivo nientemeno che Lionel Messi.
La Cina, inoltre, avendo a disposizione notevoli quantitativi di depositi monetari, ha iniziato ad aquistare ingenti titoli del debito americani (Treasury Bills) che, come sappiamo bene noi europei, sono cruciali in sede di decisione delle azioni di politica economica di un paese (tanto che nei giorni del possibile default americano il vice ministro delle Finanze cinese Zhu Guangyao ha ammonito Obama sulle conseguenze catastrofiche che un default avrebbe provocato).
Lo sviluppo economico cinese e indiano è stato sorprendente, sia per la rapidità della crescita sia perché gli economisti ritenevano che uno sviluppo economico sostenuto doveva essere accompagnato da un efficiente ed efficace sistema a livello burocratico, legislativo, di infrastrutture e di solide libertà democratiche.
Da questi punti di vista queste due nazioni forniscono una significativa eccezione.
L’India e la Cina hanno una lunga tradizione burocratica, la prima come retaggio del colonialismo inglese, la seconda come ricordo delle antiche dinastie. Ancora oggi la pesante burocrazia rappresenta un freno significativo all’economia cinese, tanto che a marzo il governo propugnerà una delle più importanti riforme dell’apparato statale della storia moderna cinese.
II peso ingente della burocrazia indiana, reso ancor più gravoso dalle ventidue lingue ufficiali dello stato indiano, si somma ad un livello di corruzione molto elevato (l’India è 87esima e la Cina 78esima nella classifica della corruzione percepita).
Dal punto di vista delle infrastrutture e delle libertà democratiche, però, i due stati sono ancora molto arretrati. In India e in Cina le strade pavimentate sono rispettivamente il 49,5% e il 53,5%, le linee telefoniche ogni cento abitanti sono 2,7 e 20,6 (contro il 35,5 dell’Italia e il 44 negli USA), gli utenti internet sono il 12% e il 42% (58% in Italia, 81% in USA), inoltre le infrastrutture dei due paesi sono ancora molto arretrate e, quando sono presenti, sono concentrate solo nelle zone più ricche, mentre sono spesso del tutto assenti nelle aree arretrate.
I dati precedenti infatti sono dati medi dell’intera nazione che non rispecchiano le ampie sperequazioni che esistono a livello di singole aree geografiche, alcune delle quali in India ma soprattutto in Cina molto arretrate e povere.
Per quanto riguarda le libertà di espressione l’India, secondo un rapporto di Giornalisti Senza Frontiere del 2013, è al 140esimo posto in quanto la libertà di stampa e di idee, seppur prevista dalla Costituzione, viene nella pratica fortemente limitata dalle leggi anti terrorismo.
La libertà di culto è messa in serio pericolo dalle numerose etnie e religioni in India spesso in forte contrasto tra loro, anche gli omosessuali sono soggetti a discriminazioni sul posto di lavoro mentre persistono violenze ed angherie verso le classi più deboli, giustificate dal sistema castale indiano.
La Cina, sempre secondo lo stesso rapporto, è agli ultimi posti al mondo per libertà di stampa (173esimo posto) e soggetta a forti pressioni e censure, sia per quanto riguarda la carta stampata sia gli indirizzi internet, con particolare attenzione ai social network.
Siti come Facebook, Twitter e Youtube in Cina non sono ancora accessibili, sebbene si possa aggirare il divieto con semplici accorgimenti che permettono di mascherare l’indirizzo IP del computer.
Sebbene poche informazioni giungano per quanto riguarda la libertà di culto, tutte le religioni sono viste negativamente dal governo centrale, in particolar modo il buddhismo (legato alle rivendicazioni territoriali tibetane).
Le condizioni lavorative delle classi inferiori sia in India che in Cina sono estremamente negative sia per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro sia per quanto riguarda il livello di protezioni sindacali. In India, sebbene i sindacati siano presenti, hanno poca influenza, nonostante un massiccio sciopero di 48 ore proclamato circa un anno fa abbia messo in ginocchio il paese e provocato violenti scontri.
La situazione in Cina è disastrosa, in quanto i sindacalisti vengono scelti dalle società, invece che dai lavoratori. Le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche cinesi sono balzate agli “onori” della cronaca occidentale, a causa della “fabbrica dei suicidi” della Foxxcon, produttrice di componenti elettronici delle più importanti multinazionali occidentali, tra cui Apple.
Dopo l’indignazione occidentale per la condizione dei lavoratori cinesi, costretti a vivere e dormire nelle fabbriche con pause cronometrate e appuntate, la Foxconn concederà ai lavoratori di scegliere i loro rappresentanti sindacali, unico esempio in Cina, chissà se di successo.
A seguito delle criticità sopra ricordate, alcuni studiosi ritengono che lo sviluppo economico della Cindia non sia sostenibile nel lungo termine. Autori quali Montesquieu e Adam Smith fin dalla metà del 1700 sottolinearono l’importanza dello stato democratico come base fondante dello sviluppo economico, affinché i cittadini possano eleggere scientemente i propri rappresentanti e siano coinvolti nello sviluppo economico del proprio paese mediante condizioni di vita e lavorative migliori. La Cina e l’India sembrano confutare due mostri sacri della teoria socio economica occidentale come gli autori sopra ricordati, anche se la crescita economica della Cindia può giustificare la ridotta pressione sociale nella direzione di uno stato più democratico.
Sono rari i casi, infatti, in cui un paese a rapida crescita economica e a regime dittatoriale “evolva” in un paese democratico mentre sono frequenti i casi contrari, come ad esempio quello dell’URSS dove le difficoltà economiche crescenti portarono al dissolvimento dell’Unione Sovietica. Nel caso della Cina e dell’India, forse, il rapido sviluppo economico di questi ultimi anni, sarà seguito da un (inevitabile e fisiologico) rallentamento che potrebbe portare ad un aumento delle spinte democratiche dai cittadini.
D’altra parte, nella situazione attuale una democratizzazione repentina potrebbe portare i cittadini più poveri a votare partiti che propongano forti politiche redistributive, frenando la crescita economica.
In generale, condizioni tipiche di uno stato democratico come libere elezioni e la difesa delle libertà essenziali dei cittadini sembra essere motivo di grande spinta economica, come dimostra il caso delle Coree: la Corea del Sud, democratica, ha un PIL di oltre 40 volte superiore rispetto alla Corea del Nord, sotto il regime comunista.
di Federico Zanoli
Bibliografia:
– Google Data
– L’ impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi di persone. di Rampini Federico
Densità demografica in Cina
http://www.sapere.it/enciclopedia/Cina,+Rep%C3%B9bblica+Popolare+della-.html