Il 26 Aprile del 1986, 28 anni fa, nella regione dell’Ucraina settentrionale, a pochi chilometri dal confine bielorusso, e dalle città di Pryp’jat’ e di Černobyl’, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, avvenne uno dei due incidenti nucleari più gravi della storia, che insieme a quello di Fukushima, del 2011, lacerarono profondamente il nostro pianeta e condannarono a morte per tumore, direttamente o indirettamente, decine di migliaia di persone. Secondo Greenpeace, la proiezione di decessi per tumori e leucemie, nell’arco di 70 anni dall’incidente di Černobyl’, potrebbe investire circa 6 milioni di persone.
Anche il Comitato scientifico delle Nazioni Unite per lo studio degli effetti delle radiazioni, UNSCEAR (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation,) dopo vent’anni di ricerca scientifica ha predetto diverse migliaia di casi di tumori. Un breve estratto della pubblicazione è scaricabile all’indirizzo web: http://www.unscear.org/docs/reports/annexj.pdf. « Fino all’anno 2005, tra i residenti della Bielorussia, la Federazione Russa e l’Ucraina, ci furono più di 6000 casi di tumore alla tiroide nei bambini e negli adolescenti che furono esposti alle radiazioni al momento dell’incidente, e più casi sono da aspettarsi nei prossimi decenni. Indipendentemente dall’incremento delle misure di prevenzione e screening, molti di questi casi di tumore sono con tutta probabilità da attribuirsi all’esposizione alle radiazioni.»
Nascita della centrale nucleare di Černobyl’.
Il primo reattore nuclerare, avviato nel 1977, serviva a produrre elettricità per uso civile e plutonio per uso militare.
Successivamente l’impianto venne potenziato con altri 3 reattori, attivati rispettivamente nel 1978, 1981 e 1983, per un totale di 4 reattori, e una resa complessiva di 4 gigawatt di energia elettrica e 3 gigawatt di energia termica: il 10% dell’elettricità dell’Ucraina.
Il tipo di reattore utilizzato era il modello RBMK-1000 a canali, moderato a grafite e raffreddato ad acqua. Il sistema era basato sul coefficiente di vuoto, positivo alle basse potenze. In pratica in caso di aumento della temperatura dell’acqua, in essa si formavano delle sacche di vapore (vuoto positivo) che contribuivano a potenziare la reazione a catena.
Il coefficiente di potenza positivo indica che, al crescere della potenza, aumenta la reazione nucleare del nocciolo, perché con l’aumentare della temperatura cresce il coefficiente di carburante che interessa la sezione d’urto, che è quella che consente la cattura di uranio e plutonio. Se scende al di sotto dei 700°kW il sistema diventa instabile.
La povertà dei materiali usati, le carenze strutturali e l’instabilità del reattore, determinato dal coefficiente di vuoto e potenza positiva, erano noti ai progettisti. Poco dopo il suo completamento, infatti, venne avviata un’indagine dal KGB e l’allora presidente Jurij Andropov, si assunse la responsabilità di verificare personalmente che gli errori strutturali venissero risolti.
Ciò nonostante, sembra proprio che l’infelice progettazione della struttura, le gravi mancanze del personale tecnico e l’errata gestione economica del personale dirigente, determinò la più grande catastrofe dell’emisfero nord del nostro pianeta.
Durante un test di sicurezza sul reattore numero 4 della centrale nucleare, già concluso con successo sul numero 3, il nocciolo del reattore fu sottoposto a un aumento di potenza tale da scatenare un forte e incontrollabile picco di temperatura, che innescò la scissione dell’acqua di raffreddamento in idrogeno e ossigeno. Questi svilupparono grandi volumi di gas che, a contatto con le barre incandescenti di grafite e con l’aria, provocarono a loro volta una dirompente esplosione, che fece saltare il coperchio del reattore: un disco di più di 1000 tonnellate di peso, che serrava ermeticamente il cilindro di contenimento del nocciolo, saltò come il tappo di un bottiglia!
A seguito dell’esplosione del contenitore, si sviluppò un forte incendio che accese la grafite posta nel nocciolo. Questa, bruciando, generò in poche ore un’enorme nube radioattiva di isotopi che salì verso l’atmosfera, e ricadde a pioggia sul suolo, falciando a morte tutte le aree circostanti. Nelle città vicine vennero evacuate più di 300 mila persone.
Tutta l’Europa Orientale venne rapidamente raggiunta dalla nube radioattiva, che investì Finlandia, Scandinavia, Francia, Germania e Austria, superò le Alpi, si spinse fino a Italia, Svizzera e regioni balcaniche e, superato l’Oceano Atlantico, approdò perfino in Nord America. Anche le condizioni meteo furono purtroppo favorevoli. Grazie, infatti, a due zone di alta pressione, che investivano rispettivamente l’Europa Centrale e il Mediterraneo, la nube venne spinta dal vento per diversi giorni, chiudendosi solo il 6 Maggio su Grecia e Turchia. Il 10 di maggio, finalmente, l’impianto smise di eruttare.
Attraverso la misurazione della radioattività emessa dal cesio (137Cs), dal plutonio (239, 240Pu) e dal piombo (210Pbxs) negli strati di terreno risalenti al 1986, si sono potute tracciare le mappe di contaminazione provocate da Chernobyl.
Le cause dell’incidente: quei maledetti 40 secondi…
Il test di sicurezza, avviato il 26 aprile del 1986, aveva lo scopo di scoprire se la turbina accoppiata all’alternatore fosse in grado di continuare a produrre energia elettrica in assenza di produzione di vapore, normalmente a carico del circuito di refrigerazione. In sostanza si voleva colmare il lasso di tempo di 40 secondi, durante i quali il reattore smetteva di produrre energia elettrica, in attesa che subentrasse il gruppo diesel di emergenza. Per simulare questa improvvisa mancanza di alimentazione elettrica esterna, si decise di eseguire il test durante l’arresto del reattore numero 4, in occasione delle normali operazioni di manutenzione.
Come in altri reattori, simili a quello di Černobyl’, in caso di assenza di energia elettrica sarebbero entrati in funzione i generatori diesel di emergenza che, per avviarsi, richiedevano appunto circa 40 secondi. L’energia cinetica, generata dalla rotazione per inerzia delle turbine, durante quel lasso di tempo, avrebbe alimentato le pompe d’acqua deputate al raffreddamento del reattore.
Un test simile era già stato sperimentato su un altro reattore, ma in condizioni differenti e con tutti i sistemi di sicurezza attivi e aveva già dimostrato che l’energia elettrica prodottasi per inerzia non era sufficiente a mantenere in piena efficienza le pompe. A seguito di quel test le turbine erano state migliorate e questa nuova prova serviva appunto a verificare se ora l’energia, generatasi per inerzia, era finalmente sufficiente a far girare le pompe d’acqua di raffreddamento, in completa autonomia, fino all’avvio dell’apparato diesel.
Ipotesi sulle cause dell’incidente.
Le teorie sulle cause dell’incidente, formulate nel tempo, furono sostanzialmente due.
La prima, pubblicata nel 1986, addebita l’intera responsabilità al personale che lavorava nella centrale, e in particolare alla sua scarsa preparazione professionale. Sembra infatti che la maggior parte degli operatori avesse esperienza solo con sistemi a carbone, o comunque con sistemi di tipo convenzionale e che la maggior parte di loro non fosse a conoscenza dei problemi tecnici dell’impianto. Secondo il rapporto, anche il coordinamento delle operazioni era gestito da personale di limitata esperienza che, per questo, eseguì una serie di infelici manovre.
La seconda tesi, pubblicata nel 1991, si concentra invece sulla carente progettazione delle barre di controllo. In caso di incremento della reazione nucleare, sollecitata dal formarsi di bolle di vapore nell’acqua di raffreddamento, per il coefficiente di vuoto, le barre servirebbero appunto a contenere e ridurre la reazione. Le barre dell’impianto in questione, invece, la incrementarono. Queste barre erano strutturate all’esterno con dei bracci estensori di grafite e centralmente in carbonato di boro, deputato ad assorbire i neutroni, per ridurre la reazione. Inserite nell’acqua refrigerante le parti in grafite, invece, rimpiazzavano l’acqua di raffreddamento (che assorbiva quindi meno neutroni) e di conseguenza, anche se per pochi secondi, la reazione subiva un incremento. Poi l’orientamento verticale dei canali di scorrimento dell’acqua nel nocciolo creava un differente gradiente di temperatura, che risultava più elevata nella risalita e quindi meno efficiente nel mantenere un grado di refrigerazione adeguato nella parte alta dei canali. Infine, gli operatori stessi commisero una serie di errori di procedura perché, anche se vietato dai manuali di istruzioni, disattivarono i sistemi di sicurezza ed estrassero completamente 204 barre di controllo delle 211 presenti nel nocciolo, lasciandone immerse solo 7, contro le 30 minime previste dai manuali.
Ma veniamo ai fatti.
Per eseguire il test in sicurezza si doveva per prima cosa ridurre la potenza del reattore numero 4 da 3200 MW termici a circa 1000 MW termici. Durante il processo di rallentamento della potenza, avvenne però un guasto a un’altra centrale elettrica vicina, e per sopperire alla mancanza momentanea di energia elettrica, il test in corso fu interrotto per 9 ore e ripreso solo verso l’una di notte.
Gli operai del turno di giorno, istruiti e ben preparati a quella verifica così delicata, a quel punto se ne erano però già andati a casa e quelli del turno di notte non avevano la preparazione e il know-how sufficienti a gestire quel tipo di protocollo. Si decise, però, di procedere lo stesso perché il personale in questione avrebbe dovuto solamente vigilare sui sistemi di raffreddamento della centrale, che era praticamente spenta.
Sta di fatto che nessuno fra quegli operatori, compresi gli ingegneri che dovevano coordinare le operazioni, erano stati addestrati allo scopo.
La loro incompetenza sul funzionamento di un reattore nucleare li portò a disattivare alcuni sistemi di sicurezza e a introdurre troppo in profondità le famose barre di controllo, che provocarono una caduta improvvisa di potenza, fino al livello di 30MW termici che indusse alla produzione di Xeno-135.
Lo Xeno-135 serve ad assorbire i neutroni che si creano durante il funzionamento del reattore ed è un prodotto primario della fissione nucleare, causato anche dal decadimento del tellurio-135. Solitamente è in concentrazione di equilibrio se proporzionale alla potenza del nocciolo, ovvero al flusso neutronico termico e aumenta, invece, al diminuire della potenza del nocciolo, con una prevalente attività di assorbimento dei neutroni e di decadimento fino a scomparire. Questo suo comportamento maschera l’apparente inattività del nucleo che continua invece a funzionare. Sebbene l’instabilità del reattore alle basse potenze fosse nota, si decise di non spegnere completamente il reattore, perché quasi sicuramente gli operatori del turno di notte non conoscevano il comportamento dello Xeno-135 alle basse potenze, e anzi addebitavano il crollo della potenza a un malfunzionamento dei sistemi automatici, specifici per la sua regolazione.
Così alle 01:05 del 26 aprile, furono attivate le pompe di alimentazione extra, ma la quantità di acqua immessa, già alle 01:19, superò i limiti di sicurezza e la potenza del reattore crollò. Per aumentarne rapidamente la risalita, con una manovra avventata, furono estratte tutte le barre di controllo ad eccezione di 7, quando invece le norme di sicurezza prevedevano chiaramente che ne dovessero rimanere inserite almeno 30. La potenza risalì così fino a soli 200 MW termici, contro il minimo richiesto che era invece di 600 MW.
Il reattore era ora molto instabile e pericoloso, ma nessuno degli operatori se ne accorse perché la sua attività era mascherata dall’alta concentrazione di Xeno-135. L’acqua di raffreddamento, poi, diminuì pericolosamente la produzione di vapore e variò i parametri che, in condizioni normali, avrebbero dovuto indurre lo spegnimento automatico del reattore, che era stato, invece, disabilitato manualmente insieme ad altri sistemi automatici, come quello di raffreddamento di emergenza del nocciolo e quello di riduzione di emergenza della potenza.
Alle 01:23:40 gli operatori azionarono il tasto AZ-5 (Rapid Emergency Defense 5), il cosiddetto “SCRAM“, l’arresto di emergenza del reattore, che inseriva tutte le barre di controllo estratte in precedenza, non si sa, se come misura di emergenza, o come normale prassi di spegnimento alla fine dell’esperimento.
L’allora ingegnere capo di Černobyl’, Anatolij Djatlov, scrisse:
« Prima delle 01:23:40 il sistema di controllo centralizzato […] non registrò alcun cambio dei parametri da poter giustificare lo “SCRAM”. La commissione […] raccogliendo e analizzando una grande quantità di dati, come indicato nel rapporto, non ha determinato il motivo per cui fu ordinato lo SCRAM. Non c’era necessità di cercare il motivo. Il reattore veniva semplicemente spento al termine dell’esperimento. »
Sta di fatto che lo SCRAM accelerò la reazione improvvisamente, producendo un aumento enorme di potenza nel reattore e un innalzamento della temperatura che provocò la deformazione dei canali di discesa delle barre di controllo, che erano state calate, e che si bloccarono così a un terzo del loro percorso, e non furono più in grado, quindi, di fermare l’aumento di potenza.
Così, alle 01:23:47, la potenza raggiunse il valore mostruoso di 30 GW termici: dieci volte quella normale! Le barre di combustibile si ruppero e bloccarono quelle di controllo con la grafite all’interno, avviando la fusione del combustibile. Per le alte temperature anche le tubature si surriscaldarono, liberando lo zirconio di cui erano fatte che, reagendo con l’acqua, produsse enormi volumi di idrogeno gassoso e provocarono la rottura delle tubazioni e l’allagamento del basamento.
Alle 1:24, quando il combustibile fuso raggiunse l’acqua di raffreddamento, ci fu la prima esplosione di vapore e, dall’interno del nocciolo, il vapore risalito lungo i canali, generò un’enorme esplosione che fece saltare la chiusura di contenimento del reattore, la piastra in acciaio e cemento di 1000 tonnellate che, ricadendo verticalmente sull’apertura, lasciò il reattore scoperto. La seconda esplosione seguì, invece, la reazione tra grafite incandescente e idrogeno gassoso e fu quella che in poche ore sparò verso l’atmosfera l’enorme nube radioattiva.
I Liquidatori
Per giorni e giorni il reattore non smise di bruciare. Solo dopo numerose bordate di diverse tonnellate di boro, dolomia, sabbia e vari materiali silicati, sganciati dagli elicotteri accorsi alla centrale e quantità d’acqua “scellerata”, che non fece altro che aumentare la quantità di vapore radioattivo, che saliva senza posa verso l’atmosfera, l’incendio finalmente si fermò.
All’inizio l’URSS nascose la notizia. Solo il 27 Aprile, alcuni operatori della centrale Forsmark, nella vicina Svezia, si accorsero degli elevati livelli di radioattività. Pensarono a una responsabilità del proprio impianto, ma, dopo ampie verifiche e ricerche, risalirono ai veri responsabili e gliene chiesero conto. Il governo sovietico all’inizio minimizzo l’accaduto, ma ormai l’allarme era stato diramato in tutta Europa e la tragedia era sotto i riflettori del mondo.
L’evacuazione dell’intero territorio iniziò solo la notte del 27 Aprile, con la promessa alla popolazione che presto avrebbero potuto far ritorno a casa. Nessuno era consapevole della gravità della situazione.
I primi a farsi carico del contenimento del disastro furono poco più di 1000 persone, denominati soccorritori. Si trattava del personale quotidianamente impiegato alla centrale, di quello medico sanitario locale, delle forze dell’ordine e dei pompieri, tutti mal equipaggiati e non addestrati a situazioni del genere. Queste persone iniziarono a lavorare subito dopo l’esplosione e continuarono senza posa per riuscire a spegnere l’incendio. Alcuni di loro, per le dosi massicce di radiazioni, che si calcola arrivassero anche fino a 20 siviert, morirono subito nei giorni successivi. In molti morirono a distanza di pochi giorni, soprattutto i pompieri, i primi arrivati sul luogo del disastro. Tra questi, la prima squadra giunta sul posto, quella del tenente Vladimir Pravik, non sapeva dei rischi cui andava incontro e credeva di dover spegnere un “semplice” incendio dovuto a un corto circuito.
Negli anni successivi, per mettere in sicurezza il reattore, si procedette alla costruzione di un sarcofago e a tutte le operazioni di bonifica nucleare, sia del territorio circostante sia degli edifici. Gli addetti a svolgere queste operazioni erano i recovery operation workers, chiamati e ricordati da tutto il mondo come i “Liquidatori”. Secondo le stime, quelli che ricevettero la medaglia per il ruolo di liquidatori, tra militari e civili, Bielorussi, Russi e Ucraini, sarebbero stati circa 600/800mila individui. Tra questi, 240mila operarono nel raggio di soli 30 km dall’esplosione e, sebbene fossero stati avvisati dei rischi per la loro vita, la maggior parte di loro accettò di lavorare investita da dosi massicce di radiazioni. Erano attrezzati solo di indumenti minimi di protezione e mossi anche dall’assicurazione che, con poche ore di lavoro, avrebbero ottenuto una pensione anticipata di tipo militare.
Armati di badile, o semplicemente delle proprie mani, ogni giorno i Liquidatori raccoglievano e rastrellavano quintali di detriti radioattivi, sollevando a braccia anche blocchi di 50 chili di grafite, che poi scaraventavano nella voragine aperta dall’esplosione. Ogni manovra durava al massimo 40 secondi per cercare di contenere il più possibile la dose di radiazioni a cui ciascuno veniva esposto.
Anche tra i piloti degli elicotteri, molti morirono. Questi dovevano scaricare a pioggia tonnellate di boro e dolomia per derimere l’incendio proprio sopra la grafite che, nonostante tutto, avrebbe bruciato ancora per molti mesi. Tra questi si ricordano i piloti Volodymyr Kostyantynovyc Vorobyov, Oleksandr Yevhenovich Yunhkind, Leonid Ivanonovych Khrystych e Mykola Oleksandrovich Hanzhuk, precipitati il 2 ottobre del 1986, in seguito all’urto delle pale del loro elicottero con il cavo di una gru.
Infine Valeriy Illich Khodemchuk, il tecnico che rimase sepolto nel blocco del reattore 4, mentre cercava di aprire le valvole di refrigerazione.
Vennero impiegati anche numerosi minatori, perché scavassero a braccia un tunnel sotto il reattore, per inserire dei sistemi di raffreddamento nei livelli più profondi della centrale, per contrastare l’eventualità che il nocciolo, ancora incandescente e attivo, sprofondando ulteriormente, potesse arrivare a contatto con l’acqua delle falde e ingenerare ulteriori esplosioni di vapore. La mappa successiva del combustibile disperso nei livelli inferiori escluse, in ogni caso, che il nucleo liquefatto avesse superato le fondamenta della centrale.
Così fra 1986 e 1987, circa 240mila liquidatori pulirono e compattarono scorie per un totale di circa 180 tonnellate di combustibile e pulviscolo, altamente radioattivo, e 740.000 metri cubi di detriti contaminati, che isolarono in un sarcofago di contenimento.
Il sarcofago, costruito nel 1986 è scaduto nel 2016!
Per contenere il reattore venne edificata una struttura che impiegava file di camion, quali fondamenta delle pareti di cemento, per circa 300.000 tonnellate. La struttura portante del sarcofago sarebbe quindi stata proprio la massa di macerie del reattore 4 e le 1.000 tonnellate del suo materiale metallico, sostenuta da una rete di tubi, di un metro di diametro, e da pannelli in acciaio e cemento, per una struttura complessiva di oltre 1.500 metri quadrati di superficie, costruita al tempo record di soli sette mesi, poco stabile e niente affatto sicura.
Ogni anno nel sarcofago si aprivano, infatti, nuove falle anche di 10 metri quadrati di superficie. Le cause erano da addebitarsi alle alte temperature ancora presenti all’interno del sarcofago e che in alcuni punti, raggiungevano anche 1.000 gradi. Da queste falle, filtrava la neve e l’acqua piovana che si riversavano all’interno della struttura, per un totale di circa 2.200 metri cubi di acqua all’anno, e che aumentavano di almeno di 10 volte il peso che gravante sulle fondamenta.
Si era calcolato che il basamento fosse già sprofondato di quasi quattro metri e il materiale radioattivo fosse ormai filtrato nelle falde acquifere collegate ai fiumi Pripjat’ e Dnepr, fino al mar Nero, mettendo in crisi la sicurezza di circa 30 milioni di persone, attraverso le molte attività legate al prelievo dell’acqua da questi due fiumi.
Dopo la costruzione dello scudo di acciaio e cemento, nelle pareti in muratura interne rimaste furono effettuati dei buchi di ispezione. Mediante l’uso di telecamere e apparecchiature radiocomandate, si valutarono, così, le condizioni interne di ciò che rimaneva dell’edificio. Inizialmente i tecnici e gli operatori supposero di trovare il reattore sepolto sotto le macerie, ma con loro grande stupore, si resero conto che non era rimasto più niente e che esso si era fuso assieme al nocciolo, colando lungo i piani sottostanti. La lava radioattiva aveva formato una stalagmite dalla curiosa forma di un “piede d’elefante”, formato appunto dal reattore e dal nocciolo fusi insieme e composto da uranio, cesio, plutonio, grafite e altro materiale, altamente radioattivo.
Durante il G7 del 1997, tenutosi a Denver, si diede vita alla Chernobyl Shelter Fund, che aveva lo scopo di raccogliere i fondi necessari a mettere in sicurezza il reattore numero 4, dotandolo di un nuovo sarcofago, e questa volta realizzato con materiali più sicuri.
Il progetto ipotizzò una struttura a cupola, a doppio strato, che sarebbe stata spinta sopra il vecchio sarcofago e avrebbe messo in sicurezza il reattore per almeno 100 anni. Nel 1998 il costo stimato per la sua realizzazione superava il miliardo di dollari.
Nel 2004 il governo Ucraino approvò il progetto e il 26 aprile del 2007 annunciò che il sito era in fase di preparazione.
Grazie a questo nuovo arco di protezione l’ambiente circostante sarebbe stato protetto dalle radiazioni liberate durante l’estrazione delle sostanze e dei materiali radioattivi contenuti nel reattore distrutto.
Per il montaggio del nuovo sarcofago vennero impiegate anche tecnologie a controllo remoto.
Secondo i dati preliminari, forniti alla fine del 2007 dal consorzio NOVARKA, il nuovo sarcofago avrebbe avuto le seguenti dimensioni:
• Lunghezza – 150 metri;
• Altezza – 92,5 metri;
• Base dell’arco – 257 metri;
• Spazio occupato dal nuovo sarcofago – 39.000 metri quadrati.
L’arco, realizzato a 180 metri di distanza dalla sua base di stazionamento, consente il minor irraggiamento possibile del personale addetto alla costruzione.
L’intera struttura, una volta completata, viene fatta scorrere intera su dei binari e, con l’aiuto di meccanismi particolari, portata fino alla sua posizione finale.
Centinaia di migliaia di vite barattate per una pensione.
Se sei un ex militare o un giovane contadino di un grande Paese come la Russia, probabilmente non ti girano in tasca molti soldi e tutto più o meno fa brodo. Così la prospettiva di una pensione anticipata e un salario garantito per tutto il tempo di lavoro, può ben valere la candela. Questa la promessa e i termini del contratto fra i Liquidatori e lo Stato.
Fino al 1991 i Liquidatori avevano anche il diritto all’assistenza sanitaria gratuita e a diversi altri privilegi tra i quali quello di viaggiare gratuitamente sui mezzi di trasporto pubblico, ma a partire dal 2004 tutti i loro privilegi sono stati aboliti e ora gravano in condizioni di grande povertà e senza cure mediche garantite. A Kiev, di recente, alcuni Liquidatori ucraini ed estoni hanno organizzato una protesta, per ribadire il loro diritto all’assistenza sanitaria e rivendicare i compensi economici pattuiti che non sempre lo Stato gli ha loro corrisposto: circa 70 euro mensili. Altri Liquidatori, residenti al confine con la Cina, lamentavano di aver ricevuto una pensione civile invece che quella militare.
Tra loro, il numero di alcolizzati, depressi, invalidi, menomati dagli arti per le gravi ustioni radioattive e i tumori, o afflitti da svariate patologie oncologiche o da immunodeficienza, è davvero molto elevato.
Secondo Georgy Lepnin, un fisico bielorusso, i Liquidatori morti sono stati almeno 100mila.
Secondo Vyacheslav Grishin, della Chernobyl Union (che si occupa di “bio-robots”), i liquidatori russi e ucraini morti sono stati 25mila, mentre 70mila sono rimasti disabili.
In Bielorussia si calcolano 10mila morti e 50mila disabili o con handicap.
Le stime, come spesso accade in situazioni di questo tipo, sono tra loro discordanti.
Un dato sembra però ormai certo: il 15% dei bambini discendenti da 4.500 Liquidatori del Kirghizistan soffrono di malformazioni e patologie genetiche. Secondo uno studio del 2001, infatti, pubblicato dalla Royal Society of Medicine di Londra, i figli dei Liquidatori di Chernobyl hanno danni cromosomici sette volte maggiori dei loro fratelli, nati prima dell’incidente.
In Bielorussia il cancro alla tiroide è aumentato del 4000%, del 700% il diabete, del 840% le patologie a fegato, pancreas e reni.
Secondo il Ministero della Sanità Ucraino il 75% dei liquidatori morì nei 7 anni successivi l’incidente, 10mila in breve tempo, mentre 400mila si ammalarono gravemente, divorati dal cancro o da patologie conseguenti l’intossicazione da radiazioni. Diverse anomalie cromosomiche vennero, infatti, riscontrate in svariati campioni esaminati. Dei 32mila liquidatori del Kazakistan ne rimasero vivi solo 6mila e in tutta l’area dell’ex Unione Sovietica ne muoiono ancora, 4mila ogni giorno.
Radiazioni assorbite dalle popolazioni secondo Greenpeace e l’OMS.
Popolazione | Mortalità in eccesso | Periodo (anni) | Causa |
Liquidatori 1986-1987 e Residenti in aree della Russia meno contaminate | 145 | nd | tutte le malattie |
Liquidatori 1986-1987, Evacuati, Residenti in aree altamente contaminate | 4.000 | nd | tumori solidi, leucemie |
Liquidatori 1986-1987, Evacuati, Residenti in aree altamente e meno contaminate | 9.335 | 95 | tumori solidi |
10 | leucemie | ||
Popolazione dell’Ucraina, Russia e Bielorussia | 9.335 | 95 | tutti i tumori esclusa tiroide |
Popolazione globale mondiale | 17.400 | 50 | tutte le malattie |
Popolazione globale mondiale | 32.000 | nd | malattie tumorali e non |
Popolazione globale mondiale | 46.000 – 150.000 | 70 | tumori alla tiroide, altri tumori e leucosi |
Residenti in aree altamente contaminate | 210.000 | 15 | tutte le malattie |
Popolazione globale mondiale | 475.368 | tutti i tumori | |
Popolazione globale mondiale | 905 016 – 1 809 768 | nd | esposizioni acute a tutti i tumori (esclusa tiroide) |
Popolazione globale mondiale | fino a 6.000.000 | 70 | tutti i tumori |
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel suo rapporto del 2006, fornisce i dati medi delle dosi effettive accumulate su un totale di 20 anni dalle popolazioni più esposte alle radiazioni di Chernobyl:
Popolazione | Numero | Dose ricevuta |
Liquidatoripiù altamente esposti1986–1987 | 240.000 | > 100 mSv |
Evacuati1986 | 116.000 | > 33 mSv |
Residenti nelle zonea stretto controllo1986–2005 | 270.000 | > 50 mSv |
Residenti nelle zonedi bassa contaminazione 1986–2005 | 5.000.000 | 10 – 20 mSv |
Dosi da esposizione a pratiche radiologiche | ||
TAC completa | 12 mSv | |
Mammografia | 0,13 mSv | |
Radiografia del torace | 0,08 mSv |
I tumori alla tiroide in età compresa fra 0-18 anni.
Nei territori di Ucraina, Bielorussia e Russia, nelle popolazioni che all’epoca dell’incidente erano di età compresa fra 0 e 18 anni, i registri oncologici evidenziarono un aumento considerevole di tumori alla tiroide: 5000 casi solo fino al 2002, 10 volte rispetto a prima del disastro. Questi tumori vennero addebitati soprattutto all’assorbimento di Iodio-131, veicolato nei giorni successivi al disastro attraverso il consumo di latte e subito contrastato, purtroppo solo in alcune zone, con la somministrazione di iodio non radioattivo. Se questa terapia fosse stata adottata in tutte le zone colpite, il numero di casi sarebbe stato molto più contenuto.
La probabilità di guarire da un tumore alla tiroide è normalmente del 90%. Secondo le stime attuali pare che il 99% dei casi diagnosticati, nelle regioni colpite di allora, siano stati risolti. La ragione di questo successo è nelle diagnosi precoci e negli esami specifici che furono subito predisposti per tutte le popolazioni interessate e che permisero di intervenire già al primo stadio della malattia. Fino al 2002 il bilancio complessivo dei decessi per tumore alla tiroide era di 15 morti.
Le stime sui possibili casi di tumore alla tiroide sono anche qui però discordanti. Fonti del Clinic and Polyclinic of Nuclear Medicine University of Würzburg, per esempio, ipotizzano una proiezione di 15.000 casi di tumore alla tiroide, nelle regioni di Bielorussia, Ucraina e Russia Orientale, a partire dal 1986 per i 50 anni successivi.
Intervenire in aiuto ai bambini di Chernobyl con i programmi di risanamento.
Molte sono le associazioni impegnate da decine di anni a soccorre i bambini di Chernobyl, principalmente allontanandoli temporaneamente dalle aree inquinate e offrendo loro soggiorni di risanamento in Italia, come nel resto dell’Europa, ospiti di famiglie disponibili all’accoglienza.
Durante questi periodi essi hanno la possibilità di vivere in ambienti non contaminati e di nutrirsi con cibi e bevande sani molto vari, riducendo sensibilmente i valori di contaminazione del loro organismo.
Individuando zone particolarmente contaminate, sono stati adottati alcuni piccoli villaggi delle campagne bielorusse vicine alla centrale, garantendo nel tempo l’invito a tutti i loro bambini.
I bambini assegnati ai vari paesi europei hanno tutti una famiglia di origine, mentre i bambini orfani o orfani sociali sono ospitati esclusivamente in strutture, per non interrompere o stravolgere la loro abituale situazione di vita comunitaria e per non ingenerare in essi, ma anche nelle famiglie, false o inopportune illusioni di adottabilità.
La durata dei soggiorni è mediamente di 5 settimane, ripetibili presso la medesima famiglia ogni 12 mesi fino al compimento del 14° anno di età. Ciò favorisce i legami affettivi, rendendo possibile il miglior andamento delle integrazioni e quindi dei soggiorni, inoltre aiuta le famiglie di origine a sviluppare una maggior fiducia verso l’associazione e la famiglia ospitante e ad affrontare ogni volta il peso della lontananza dei figli con maggior serenità e tranquillità.
Anche il sistema dell’adozione dei villaggi favorisce questo scambio di fiducia, perché ogni bambino riferisce le medesime esperienze e i riscontri di positività, per le famiglie di origine, sono maggiori.
Questo limite di età, condiviso dalla maggior parte delle organizzazioni, tiene contemporaneamente conto del fatto che a quel momento il massimo sviluppo dell’organismo dei bambini sta terminando, con forte riduzione del beneficio dei soggiorni all’estero, che diventerebbero poco più che una semplice vacanza.
Mentre un’opportuna rotazione degli inviti offre ad altri piccoli questa importante opportunità. Per alcune famiglie il proseguimento risponde facilmente alla sola soddisfazione di genitorialità, spesso mancante, dimenticando che i bambini hanno una propria famiglia. E ciò, nei villaggi bielorussi di provenienza, genera anche malumori e attriti sociali tra le famiglie che assistono a trattamenti esageratamente difformi nei confronti dei bambini, alcuni dei quali ricevono molti inviti a scapito di altri che non ne riceveranno mai.
Questo è un punto di criticità dell’iniziativa, superabile solo con la convinzione dei partecipanti nelle sue reali finalità.
A livello internazionale, il Consiglio Internazionale per il Futuro del Bambini di Chernobyl, ha costituito una rete di informazione e aggiornamento sui rispettivi programmi di aiuto e di intervento dei 14 Paesi partecipanti, allo scopo di condividere le reciproche esperienze, coordinandole in un contesto di maggior visibilità e maggior dialogo con gli enti governativi e super governativi.
Conseguentemente al disastro gli abitanti delle aree più contaminate sono stati evacuati in grandi quartieri dormitorio edificati per loro nella periferia della capitale, con un conseguente grande disagio dovuto alla perdita del lavoro, alle divisioni famigliari e al disadattamento. Nell’apparenza il Paese mostra ora un certo ammodernamento, soprattutto a Minsk, centro dell’economia e dei rapporti internazionali, ma in periferia la situazione socio economica e psicologica permangono critiche, con un forte e deleterio senso di rassegnazione.
Alcune testimonianze
Un padre di allora..
“…. vivevamo in un villaggio, uno come tanti altri. Ero un uomo qualsiasi, con un lavoro e una famiglia. Di punto in bianco diventi un uomo di Chernobyl e devi andare via, ma non hai perso solo la tua città, ma anche la vita. E poi i ricoveri all’ospedale di mia moglie e mia figlia di sei anni: avevano delle macchie nere diffuse su tutto il corpo che venivano e andavano via.
Mi negavano il risultato delle analisi. A quel tempo non si faceva altro che ripetere “moriremo, moriremo, moriremo”. Si diceva che nel 2000 sarebbero scomparsi tutti i bielorussi.
Una sera, mentre mettevo a letto mia figlia, lei mi sussurrò all’orecchio :”papà voglio vivere, sono ancora piccola”. Ed io che pensavo non potesse capire! Erano sette le bambine in quella stanza… la sua bara era piccola come la scatola di una bambola, di quelle più grandi.
E si pretenderebbe da noi che si dimenticasse!”
Papà Nikolai (da Preghiera per Chernobyl)
Una mamma di oggi..
“… aspettiamo con ansia che nostro figlio raggiunga i 7 anni di età per provare a iscriverlo nelle liste per andare all’estero. Però la lista è lunga e le offerte straniere sono sempre di meno. Molti bambini non riusciranno mai a partire, nessuno li invita… speriamo che il mio ce la faccia. Qui nella zona dei nostri villaggi opera da tanti anni una associazione italiana.
Quando i bambini tornano dai viaggi hanno un colorito bello e sono più grassi, mostrano salute…”
Mamma Larisa.
Una pediatra di Gomel..
“Il 26 aprile ci fu una grande tempesta e la pioggia e alla fine le pozzanghere erano gialle! Nessuno sapeva cosa fosse successo. Le prime notizie arrivarono tramite le radio straniere. Alcune persone lasciarono immediatamente in fretta e furia la regione. Il 1° maggio, un giorno di sole, tutti gli abitanti dovevano partecipare alla manifestazione, i medici pensavano che non ci fossero pericoli! Così passarono 6 giorni decisivi. Poi furono date le pastiglie di iodio stabile, troppo tardi, la tiroide era già piena di iodio radioattivo. Numerose malattie colpirono subito i bambini a causa della immunodeficienza. I bambini non dovevano uscire di casa. Molte delle malattie vennero giustificate così: i bambini facevano poco movimento e avevano bisogno di aria fresca!”
di Adriana Paolini
Linkografia:
http://lavitauccide.blogspot.it/2013/03/il-cimitero-tecnologico-di-cernobyl.html
http://chornobyl.in.ua/foto-tehnika.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_di_%C4%8Cernobyl%27
http://www.greenpeace.it/cernobyl/rapporto.html
http://www.progettohumus.it/chernobyl.php?name=dimenticafilm
http://www.progettohumus.it/chernobyl.php?name=dintoalbum
http://www.progettohumus.it/include/chernobyl/dintorni/dossier/tesi_grazianoisaia.pdf
febbraio 6th, 2014 at 10:01
Ottimo lavoro. Passano gli anni e la memoria si “accorcia” spesso. E’ questo un modo per mantenere desta l’attenzione sulle questioni delle centrali atomiche e i rischi connessi che non possono essere mai esclusi data la fragilità dell’agire umano. Il più recente incidente in Giappone è un’ulteriore conferma dei rischi che, in campo energetico, dovrebbero invitare a scelte diverse.
Al di là delle questioni “tecniche” rimane sempre importante e valida l’accoglienza che la ns. Associazione La Rondine attua ormai da 18 anni.
Luciano Bissoli, referente Associazione La Rondine per Paderno Dugnano