Sangue in Centro Africa
La strage alla redazione del periodico satirico Charlie Hebdo a Parigi lo scorso 7 gennaio ha messo l’Europa di fronte al fatto compiuto che il terrorismo islamista può colpire il suo cuore, che i foreign fighters che vanno avanti e indietro dai teatri di guerra in medio oriente (o sarebbe meglio dire gli “homeland fighters” dato che gli attentatori erano persone nate e cresciute in Francia) sono una minaccia concreta sul territorio europeo e che i fiancheggiatori dello stato islamico e delle altre organizzazioni radicali non sono poi così pochi come ci si continuava a illudere…
Sul sangue delle 17 vittime cadute in poche ore di lucida ferocia l’opinione pubblica europea (e occidentale più in generale) ha iniziato a porsi angosciose domande sulla propria sicurezza, sul rapporto tra culture differenti e sull’integrazione, sulla tenuta dei valori di libertà che sono alla base del nostro stile di vita e sulle modalità che consentano di non cadere in pericolose provocazioni che possono dare adito anche ad una certa ipocrisia nell’affrontare questi problemi.
La manifestazione imponente per le strade di Parigi, con la presenza di oltre 40 capi di stato e rappresentanti di governo, non solo europei, sembrava il segno di un risveglio da un certo torpore civile.
Di un ritorno all’attenzione, a voler capire cosa accade intorno, a occuparsene e non a guardare passivamente.
Negli stessi giorni, quasi nelle stesse ore, in Africa Centrale l’organizzazione forse più vicina all’ISIS, come metodi e scopi, iniziava un’offensiva senza precedenti, che portava al massacro indiscriminato di almeno 2000 persone e all’uso spietato anche di bambini come bombe umane.
Un rilancio della violenza jiadista che urla delle certezze assolute. La guerriglia dei miliziani di Boko Haram è eclatante, semmai ce ne fosse ancora bisogno, della determinazione e delle metodiche crudeli, tipicamente delle guerre vere proprie, con cui i combattenti di queste colonne armate perseguano la propria causa.
La storia del gruppo Boko Haram inizia tra il 2001 e il 2002 in Nigeria. Le sue radici sono saldamente legate alle contraddizioni e ai problemi enormi che il grande e popoloso stato centrafricano continua a portarsi dietro, come una eredità maledetta del passato.
Dopo un periodo di colonialismo britannico, alla fine della seconda guerra mondiale, si avvia faticosamente all’indipendenza, come stato federale composto dai territori che si estendono lungo le sponde del grande fiume Niger, fino al golfo di Guinea sull’oceano Atlantico.
La sua popolazione è divisa quasi perfettamente tra regioni di fede cristiana e di fede musulmana, l’etnia prevalente è quella Hausa.
L’economia nigeriana dovrebbe essere una delle più solide del continente, grazie agli estesi giacimenti di petrolio delle sue regioni meridionali.
Ma come è accaduto nel suo passato, divisioni tribali, personalismi, corruzione e ingiustizie sociali lo condannano ancora oggi ad essere un paese dove il reddito pro capite medio arriva a 1,25 dollari giorno, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale. Nemmeno la crescita del PIL più alto di tutta l’Africa riesce a colmarne le differenze.
Nello stato di Borno, nell’estremo nord ovest della federazione, la maggioranza della popolazione è di fede musulmana e la natura aspra del territorio ha sempre favorito fame e povertà e un conseguente tasso di disoccupazione che supera il 72%, dato quest’ultimo in netto peggioramento rispetto al 50% di una ventina di anni fa.
Il dominio delle risorse naturali da parte di famiglie e clan appartenenti alla parte cristiana della popolazione ha aumentato la divisione e preparato un terreno di odio i cui frutti sono sotto gli occhi di tutti.
Quando Mohammed Yusuf fondò il gruppo a Maidiguri, capitale dello stato di Borno, scelse il nome Boko Haram. In realtà è un nome composto dalla parola Boko, che in lingua Hausa significa cultura,o educazione occidentale, assieme alla parola di origine araba haram, che si può tradurre come divieto, peccato. Queste due parole affiancate tradotte suono come: l’educazione occidentale è peccato.
La scelta fatta dal religioso Yusuf era già quindi una dichiarazione di intenti, volta a rifiutare ogni aspetto della presenza occidentale e come una delle cause del perpetuarsi delle disparità economiche, delle ingiustizie sociali, e come strumento per perseguire una purificazione morale, religiosa, culturale soprattutto attraverso l’applicazione rigorosa della legge islamica, la Sharia. Con questo termine strainvocato si intende comunemente il rispetto più intransigente degli insegnamenti del Profeta Maometto, l’interpretazione più rigida dei precetti coranici, la fondazione di uno stato islamico che ricomprenda tutto il territorio della federazione Nigeriana.
Nonostante Yusuf apertamente si ispirasse agli insegnamenti del predicatore puritano del 1440 Ibn Taymyyah, e fosse stato educato in una scuola salafita, fino al 2009 l’opposizione al governo federale nigeriano non era sfociata in lotta armata.
Yusuf aveva fondato una scuola coranica per i figli delle famiglie più povere e costruito una moschea a Maidiguri, attività caritatevoli in realtà dirette a diffondere tra la popolazione gli orientamenti radicali e a propagandare in quelle terre l’adozione della Sharia islamica come unica legge dello stato.
Fu la serie di uccisioni e violenze del luglio 2009, a seguito della protesta per l’applicazione delle norme sull’obbligo dell’uso del casco per i conducenti di motocicli, a segnare la svolta.
Tra le vittime della repressione poliziesca, che lasciò cadaveri sulle strade, non meno di 800 persone, vi fu lo stesso Yusuf.
La sua morte fu un errore che portò tra le fila di Boko Haram schiere di sostenitori sempre più esasperatamente avversi ai privilegi, la corruzione e le violenze e i soprusi delle classi dominanti.
Non è chiaro quale ruolo possa avere avuto in questa fase la presenza di appartenenti a organizzazioni radicali esterne. Nelle società della penisola arabica, ricche, considerate moderate, spesso aderenti a costumi e istruzione non dissimili da quelli occidentali, in realtà i precetti fanaticamente puritani di Ibn Taymmyah continuano a essere prevalenti e sono spesso queste stesse famiglie i maggiori sponsor delle colonne armate.
La somala Al Shabab, per esempio, oppure la più internazionale Al Qaeda, sono forse tra i maggiori responsabili di una deviazione di Boko Haram verso una visione sunnita molto più intransigente, di quanto non lo fosse in origine. Il religioso Yusuf per ottenere il potere, probabilmente, non avrebbe scelto la lotta armata, ma un percorso all’interno della legalità e del consenso.
Gli appartenenti al gruppo si danno alla macchia e dopo la sua morte inizia una lunga serie di attentati, anche kamikaze, in un’escalation che porta nel 2013 il numero di morti oltre 5000.
Attentati suicidi, assassinii politici, sono tutti obbiettivi che indicano le classiche metodiche del terrorismo radicale islamico organizzato, dirette e ispirate da istruttori militari e demagoghi provenienti dall’esterno e palesemente coerenti con le dinamiche e le metodiche in questo momento più diffuse a livello internazionale, fino a pochissimi anni fa assenti in Boko Haram.
E il carisma dei fratelli mussulmani, venuti dall’esterno, è stato e continua a essere supportato da flussi di denaro e armi consistenti. Tanto convincenti da riunire sotto la stessa bandiera, quella del gruppo della gente della Sunna per la propaganda religiosa e la guerra santa (Jamāʿat Ahl al-Sunna li-daʿwa wa l-Jihād), le cinque fazioni in cui si era scisso il gruppo alla morte del fondatore Yusuf.
La guida del movimento è passata a Abubakar Shekau, leader determinato e molto più incline a usare i mezzi mediatici. Appare spesso in video propagandistici, assieme a miliziani ben armati ed equipaggiati.
Il governo nigeriano ha già annunciato almeno tre volte di avere ucciso il capo militare. Benché le forze armate nigeriane siano in forte difficoltà a contrastare il gruppo, vi è il sospetto che in realtà non vi sia un solo Abubakar Shekau, ma che la direzione del gruppo armato sia passata a un collettivo di comandanti di colonne armate diverse, che di volta in volta rivendicano le azioni e si presentano a minacciando i nemici attraverso i filmati diffusi poi attraverso i media e la rete.
Shekaku era uno dei tanti giovani e poveri studenti che venivano portati dai genitori alla scuola islamica di Yussuf perché garantisse loro un’istruzione.
Sin dall’inizio però aveva manifestato una propensione alla violenza e alla ribellione che lo avevano fatto addirittura allontanare dalla scuola stessa. Fu solo nel 2005 che venne riammesso in Boko Haram . Ma è con la morte di Yussuf che inizia la sua rapida scalata ai vertici.
La sua intransigenza e la sua ferocia lo rendevano il leader ideale per il nuovo corso terroristico ispirato da organizzazioni come Al Qaeda prima e dello Stato Islamico poi.
Sotto la sua guida Boko Haram è diventata velocemente sinonimo di ferocia e di rabbia sanguinaria.
Gli attacchi sin dal 2009 sono indirizzati oltre che alle stazioni di polizia e agli uffici governativi, obbiettivi scontati in quanto rappresentativi dello stato federale corrotto filo occidentale, ma anche verso le scuole e le università, accusate di educare la gioventù con principi contrari all’insegnamento del profeta e agli stili di vita del corrotto, miscredente e sfruttatore mondo occidentale.
Ovviamente, i cristiani sono ai loro occhi il simbolo di questa presenza impura e Shekaku ha apertamente dichiarato guerra alle comunità cristiane, che sono diventate poi uno degli obbiettivi primari.
Sparatorie e stragi durante le messe o le celebrazioni costituiscono una terribile attualità, come gli attacchi ai villaggi, le uccisioni indiscriminate, i saccheggi, che hanno ormai raggiunto proporzioni enormi.
Il gigante dai piedi di argilla
Ma dietro al successo dell’offensiva armata e al richiamo che Boko Haram esercita sui militanti che continuano a ingrossare le sue file, pesa come una tara ancestrale la situazione politica interna della Nigeria e l’incapacità di scrollarsi di dosso i difetti di fondo della sua società.
L’attuale presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, non solo non è riuscito seriamente a contrastare la corruzione, a riunire la nazione (nel paese ci sono ben 250 gruppi etnico-linguistici diversi) contro la minaccia islamista, che viene dal nord, ma a pochi mesi dalle nuove elezioni il suo immobilismo incarna l’ipnosi in cui sembra vivere la classe dirigente del paese.
La stella politica di Jonathan ha iniziato a brillare nel 1999 quando, professore di zoologia impiegato nella Commissione Ambientale del Delta del Niger, si trovò quasi catapultato nel grande gioco politico.
Nato in un villaggio della costa da una famiglia cristiana di poveri artigiani, nel delta del Niger, come moltissimi altri abitanti di quelle zone non ricevette nulla dell’enorme ricchezza petrolifera che le grandi compagnie internazionali sfruttavano nelle concessioni governative, praticamente senza alcun controllo, provocando una delle più grandi devastazioni ambientali e sociali che la storia conosca.
I vertici del People’s Democratic Party lo vollero nelle loro file in quanto rappresentante ideale delle nuove generazioni orientate alla modernizzazione del Paese e alla lotta alla corruzione.
Dopo la morte del presidente Yar’dua, di religione musulmana, Goodluck si presentò alle elezioni del 2011 vincendole.
Ma nonostante la cultura di cambiamento che sembrava portare con sé, la decisione di correre alle elezioni fece saltare l’accordo non scritto per cui alla presidenza del paese si dovessero alternare persone di fede cristiana e musulmana.
Inoltre tutte le promesse di riforme, specialmente nel campo del controllo delle risorse petrolifere, si sono arenate nella giungla di interessi incrociati, in scandali di corruzione per centinaia di milioni di dollari, culminato nell’appropriazione indebita da parte di persone rimaste ancora ignote, di venti miliardi di dollari stornati all’estero dalle casse della compagnia petrolifera di stato.
Compresso nella lotta politica e nel gioco delle lobby, sembra lontano dalle vicissitudini che sta attraversando il paese più popoloso dell’Africa, con i suoi 174 milioni di abitanti.
E’ sopratutto la distanza con cui lui e la maggioranza di governo hanno trattato la questione musulmana settentrionale a imbarazzare l’opinione pubblica.
L’indecisione di cui Goodluck continua a essere ostaggio, mentre Boko Haram conquista territori giorno dopo giorno alla causa del Califfato Islamico, fa sentire i cittadini delle aree dove operano i terroristi sempre più abbandonati a se stessi.
A inizio Gennaio di quest’anno, mentre Boko Haram per quattro giorni metteva a ferro e a fuoco il villaggio di Baga, e lasciava dietro di se più di duemila morti, in nessuno dei discorsi tenuti a Lagos (la capitale economica del paese) il presidente Jonathan menziona la più grande strage avvenuta nel paese, né mai pronuncia il nome di Boko Haram.
La vicenda che più ha colpito la comunità internazionale è stata il rapimento di 300 ragazze il 14 ‘aprile 2014 da una scuola femminile a Chibok, le torture e la conversione forzata all’Islam che hanno dovuto subire, fino alla loro vendita come schiave nei territori controllati da Boko Haram, perché fosse chiaro che il destino delle donne islamiche non è di essere istruite e emancipate, ma sottomesse all’uomo.
Ma a nove mesi da quel terribile evento, con la maggior parte delle studentesse ancora nelle mani dei terroristi, nessun progresso particolare è stato fatto, né nei discorsi elettorali si fa riferimento a questa orribile ferita ancora aperta nella società nigeriana.
Nemmeno un’inaspettata visita da parte di Jonathan nei territori dello stato di Borno, culla dell’insurrezione islamista, ha portato risultati: il morale della popolazione è rimasto basso e il presidente è stato accusato apertamente di fare solo campagna elettorale, usando il caos in cui sta precipitando il paese a proprio vantaggio.
Come se al peggio non vi fosse limite, dal 2013 i programmi di assistenza tecnica e addestramento antiterroristico delle forze armate attivati dall’amministrazione statunitense sono stati bloccati dopo che le armi fornite per combattere i ribelli sanguinari di Boko Haram sono state utilizzate in azioni repressive contro la popolazione civile.
Il governo nigeriano ha risposto alle proteste internazionali dichiarando che l’uso della forza è una facoltà dello stato, specie in situazioni di tale gravità, l’ennesima gaffe politica che ha posto l’amministrazione Obama in un imbarazzo tale da ritirare i consiglieri militari e far cessare, almeno fino a ora, ogni fornitura di armi ed equipaggiamenti.
Il 10 e l’11 Gennaio scorso i vertici di Boko Haram hanno alzato ulteriormente il tiro utilizzando due bambine, forse di 10 anni, come bombe umane, portando distruzione e terrore nei mercati di Maiduguri e Potiskum.
Non è la prima volta che accade, ma dopo la strage di Baga di nuovo emerge la capacità organizzativa dei terroristi.
Dal 2014 nel mirino di Boko Haram sono entrati anche il Camerun e il Ciad. Già numerosi attacchi sanguinosi ai villaggi sul confine con la Nigeria hanno portato oltre 10mila persone a lasciare le proprie case e a divenire profughi.
Lo scorso 27 luglio nella città di Kolofata, con due assalti coordinati, Boko Haram ha rapito la moglie del vice premier camerunense Amadou Ali e un leader musulmano moderato, Seini Boukar Lamine, assieme a tutta la sua famiglia, liberati lo scorso Ottobre dopo una complicata trattativa.
Tra il 2 e il 18 Gennaio, in una serie di incursioni nei villaggi confinanti col Niger, sono state rapite almeno 80 persone, di cui una cinquantina sono bambini e ragazzi, mentre ci sarebbero anche circa 10 morti.
L’esercito del Camerun e del Ciad stanno organizzando una risposta comune e sono in corso in questi giorni azioni anche all’interno del territorio nigeriano per inseguire i terroristi che rientrano ai propri santuari.
La situazione resta molto confusa nella zona e questo è l’obbiettivo principale di Boko Haram perché le azioni ottengano la maggior efficacia possibile.
Al di là delle differenti valutazioni circa l’allargamento del conflitto, cioè se si tratti di una prova della forza militare raggiunta da Boko Haram oppure si tratti di azioni generate dalla non sempre continua azione di contrasto delle forze armate nigeriane, certamente c’è una debolezza di fondo che potrebbe far temere per un collasso dello stato nigeriano.
Che la crisi del tessuto sociale sia importante lo hanno rivelato gli assalti alle chiese nel nord del paese: dopo la pubblicazione del numero della rivista satirica Charlie Hebdo, successivo alla strage nella redazione di Parigi, sono scaturite manifestazioni di protesta che hanno portato alla distruzione di ben 45 luoghi di culto cristiani. Nemmeno gli assalti dei terroristi avevano saputo fare altrettanto in un colpo solo.
Questo indica che una parte della popolazione del nord della Nigeria potrebbe prendere posizione a favore di Boko Haram, per via della mancanza di continuità nella risposta armata alle sfide dei ribelli e per l’incapacità della classe dirigente a reagire, finalmente, alla propria crisi interna di valori morali.
di Davide Migliore
Linkografia:
http://it.wikipedia.org/wiki/Boko_Haram
http://www.tempi.it/origine-e-storia-boko-haram#.VMLI6i7IfIU
http://www.repubblica.it/argomenti/boko_haram
http://www.cfr.org/nigeria/boko-haram/p25739
http://it.wikipedia.org/wiki/Nigeria
http://www.repubblica.it/esteri/2015/01/18/news/boko_haram_camerun-105226496/