Sostanze inorganiche, metalli e leghe incontrano l’elettronica e aiutano l’uomo a “stare in piedi”.
Il ventunesimo secolo è stato il centenario che ha segnato la svolta in molti campi, scientifici e non.
Grandi sono stati i risultati ottenuti soprattutto in campo medico e ciò ha avuto conseguenze positive anche nel sociale.
In passato persone con menomazioni fisiche, o anziani non più autosufficienti, andavano incontro a una sorta di “invalidità sociale” che si sommava a quella fisica. Quest’ultima impediva all’individuo una vita sentimentale piena, l’inserimento nel mondo del lavoro e l’autosufficienza nella vita di tutti i giorni. Quelli che noi oggi chiamiamo disabili erano di fatto dei reietti (pensiamo al Gobbo di Notre-Dame o a Giacomo Leopardi).
La stampella: Prima rudimentale forma di sostegno
Camminare è una delle capacità indispensabili alla vita dell’uomo, forse è il primo passo verso l’autosufficienza, quando si scende dalle braccia della mamma e gattonando, aggrappandosi, finalmente si diventa “Bipedi”! Capita che questa conquista a qualcuno venga tolta, da un incidente o dagli acciacchi della vecchiaia. Così già in epoca preromana qualcuno si inventò un bastone per aiutare il suo anziano nonno ad andare a passeggio anziché star seduto tutto il giorno sull’uscio di casa.
Da lì il cammino fu lungo e tortuoso: dai primi bastoni semplici a quelli con una biforcazione in cima per l’appoggio della mano, fino alle grucce ascellari dell’ottocento, proseguendo con le moderne stampelle in metallo e plastica perfettamente ergonomiche.
La protesi: una vera rivoluzione
Ma la vera svolta non furono le grucce da ospedale, bensì una scoperta ormai ultracentenaria: la protesi, invenzione di fine ottocento e ancora da studiare, testare e perfezionare.
La prima protesi d’anca fu costruita a Berlino nel 1891 da Gluck che utilizzò l’avorio, seguito da Robert Jones nel 1895 che scelse di usare l’oro. Si susseguirono molti tentativi con l’uso dei più svariati materiali: vetro, bakelite, pirex e altri ancora.
Fu subito chiaro che il vero problema era la scelta del materiale. L’introduzione nell’organismo di qualsiasi oggetto estraneo viene ostacolata dal corpo stesso, ci sono fenomeni di rigetto e infezione. I luminari della medicina dell’epoca si trovarono di fronte ad un ostacolo: la “biocompatibilità”, caratteristica che alcune sostanze manifestano e altre no. C’erano inoltre esigenze meccaniche, di resistenza a carico e deformazione da rispettare. Un passo avanti fu quello di Smith-Peterson nel 1923 che scelse una lega cromo-cobalto, ad elevata resistenza e con minori reazioni indesiderate da parte dell’organismo.
L’avvento di questa lega diede una nuova spinta alla ricerca protesica, che ebbe il suo momento migliore alla fine degli anni cinquanta, quando Sir John Charnley introdusse il Polietilene e il cemento. Finalmente erano stati ottenuti risultati soddisfacenti per l’aspetto meccanico e di risoluzione del dolore. I principali problemi rimanevano l’usura e l’ancoraggio della protesi all’osso stesso. Negli anni ottanta le nuove tecnologie permisero l’adozione di protesi in titanio che non necessitavano l’ancoraggio all’osso tramite cemento e garantivano un’alta integrazione con l’organismo e sufficiente resistenza all’usura.
Quella dell’anca è solo un esempio delle tante forme di protesica che possono essere utili all’uomo per camminare. Sono ormai molto frequenti anche quella del ginocchio per gli anziani , mentre per chi subisce amputazioni, si stanno sperimentando arti bionici di altissimo livello. Non sono da dimenticare tutti gli ambiti di ricerca volti alla progettazione di organi interni e tessuti artificiali. Tutte queste branche presentano alcune problematiche simili, come l’usura e l’integrazione tra corpo umano e materiale esterno. (foto: gamba bionica guidata dal pensiero)
Biocompatibilità e nuove prospettive
Tutti i materiali vanno incontro ad usura dopo un certo tempo. Si parla di “tempi di vita” delle protesi (ma anche degli impianti medici in genere, macchinari, qualsiasi oggetto elettronico o meccanico ha un limite massimo di anni di funzionamento). Al momento, le migliori protesi hanno tempi di vita di 15 anni circa, che in ambito medico è un buon risultato. Quindi gli ingegneri biomedici cercano materiali che mettano insieme tante caratteristiche necessarie a un impianto soddisfacente: oltre alla resistenza all’usura, esigenze meccaniche, biologiche, di integrazione coi tessuti organici e ultime, ma non per importanza, quelle economiche.
I padri della protesica furono i primi a confrontarsi col problema della biocompatibilità, subito affiancati da cardiologi, dentisti, medici di ogni genere, tecnici e ingegneri fino ai produttori di Piercing o di bigiotteria, che spesso causano infezioni se prodotti con materiali inadatti. Quelli che vengono definiti “biomateriali” sono quindi oggetto di studio da tanti punti di vista, uno studio che abbraccia chimica, fisica, medicina ed elettronica. Quest’ultima in particolare è di fondamentale importanza perché fornisce gli strumenti necessari alla ricerca stessa, come microscopi, strumenti di indagine e di laboratorio e macchinari di ogni tipo.
È evidente che la storia dei biomateriali e della protesica è ancora tutta da scrivere, è un campo in cui la ricerca può fare molto, per offrire un grande aiuto alla medicina e dare una svolta alla vita di tante persone, non solo a livello fisico, ma anche sociale. Basta pensare alle barriere architettoniche, all’integrazione nel mondo lavorativo e sociale per un ragazzo con disabilità fisiche, problemi che oggi si possono risolvere con un impianto adatto, quando il tipo di disabilità lo consente.
Immaginate voi stessi, a settant’anni, in pensione, con tanto tempo libero a disposizione. L’osteoporosi potrebbe costringervi a impiegare venti minuti per andare dal bagno alla cucina o mettervi a letto giorno e notte. Invece oggi bastano due protesi di ginocchio per scorazzare come ragazzini … no forse è troppo, diciamo come sessantenni. La protesica (per ora) non fa miracoli, ma lasciatela lavorare e ne vedremo delle belle!
di Silvia Ciuffreda
Linkografia:
novembre 21st, 2013 at 00:05
Chissà se la mia amata nonna materna fosse viva oggi… donna sostanzialmente dell’800, ma con uno spirito invidiabile. Visto lo stato sempre più penoso delle sue ginocchia, a quasi 80 anni non ha esitato a prendere un aereo (il primo della sua vita!) per andare a trovare i suoi ultimi parenti, anziani come lei… quindi sono sicuro che avrebbe accolto con gioia questo progresso, se non altro perchè l’avrebbe di nuovo resa libera ed autonoma come amava essere…. Hip Hip Hurrà per i biomateriali!