Con l’espressione ‘Primavera Araba’ ci si riferisce alla rivoluzione e ai movimenti di protesta nati alla fine del 2010 ed esplosi, soprattutto, nel corso del 2011 nei regimi arabi nord-africani e medio-orientali.
Per comprendere al meglio cosa si intende con tale espressione è, però, importante affrontare alcuni degli episodi e dei concetti chiave.
Cos’è?
‘Primavera Araba’ è un’espressione giornalistica che indica una serie di agitazioni e proteste. L’espressione è generica e include al suo interno differenti situazioni e storie di paesi tra loro diversi. I paesi coinvolti, infatti, hanno (e avevano prima delle rivolte) culture, sistemi economici e modalità di re-azione diversi. Ciò che accomuna i regimi arabi, oltre alla vicinanza geografica, sono le tipologie di governo (dittature/semi-dittature militari e non), il ruolo dell’elemento religioso e alcune peculiarità nelle condizioni di vita della popolazione.
Quando?
Siamo in Tunisia, a Sidi Bouzid, cittadina di 40.000 abitanti circa. Un ragazzo di 26 anni, segnato dalle condizioni lavorative dalle quali da tempo cerca di ricavare il necessario per vivere, protesta. Protesta contro chi gli ha sottratto gli strumenti di lavoro.
Il ragazzo, Mohamed è il suo nome, secondo le autorità non ha il permesso per vendere frutta e verdura: per questo motivo, lui che ha perso a 3 anni il padre, si vede confiscata la carriola con cui lavora[1].
Lui, che ha cominciato a lavorare a 10 anni per i problemi finanziari della famiglia[2], si vede negata la possibilità di chiedere giustizia e di rientrare in possesso del mezzo di trasporto della sua merce.
La sua voce non è ascoltata, il regime non ha orecchie per tipi come lui.
È il 17 Dicembre 2010, Mohamed Bouazizi si dà fuoco. Muore il 4 Gennaio 2011 in seguito alle ustioni riportate.
L’inizio della rivolta coincide, a livello simbolico, con il drammatico gesto di Mohamed.
“Come credete che io possa guadagnarmi da vivere?”
Quali le ragioni dietro ad un gesto del genere? Difficile capire quali siano i fattori che portino un individuo ad una scelta tanto dolorosa. Di certo, però, le condizioni comuni delle genti di un paese portano la popolazione a immedesimarsi nell’autore del drammatico gesto e a percepire che, al posto di Mohamed, poteva esserci chiunque altro. Nelle difficoltà del ragazzo c’è un intero paese. Un popolo intero che decide di scendere in piazza per dire ‘basta’. Le ultime parole di Mohamed, prima del fuoco che gli ha strappato la vita, spiegano la situazione: “come credete che io possa guadagnarmi da vivere?”.
Se i processi decisionali e i ‘perché’ dietro ad un evento individuale tanto drammatico sono difficili da comprendere, sicuramente ancor più complesse appaiono le ragioni di un movimento che ha invaso le piazze di così tanti paesi e con la collaborazione di milioni di persone. Tuttavia, di fronte a continue vessazioni da parte delle autorità locali, crisi economiche che portano una scia di estrema povertà, corruzione dei regimi autoritari, violazioni dei diritti umani, civili, politici e mancanza di libertà delle popolazioni, è, umanamente, più semplice comprendere.
Di certo, ogni paese, in particolare, ha condizioni diverse per cui il popolo si sente in dovere di agire e reagire. Né si possono ridurre a poche righe e alle medesime motivazioni le azioni dei popoli contro i propri governi.
Nel giro di pochi mesi, il grido di protesta aumenta. Il ruggito di Mohamed ha portato migliaia di persone in piazza, per lo più giovani, in grado di creare partecipazione grazie a metodi innovativi (come i social networks) e, al contempo, tradizionali (come i momenti di aggregazione religiosi). In Tunisia, nel giro di meno di due mesi, il presidente Ben Alì vede andare in crisi il proprio dispotismo che durava da 14 anni ed è costretto a rifugiarsi in Arabia Saudita. Le piazze che chiedono la democratizzazione sono mosse da quella voglia di libertà che coinvolge, in un effetto domino, anche altri paesi dell’area nordafricana.
In primis, l’Egitto. A due settimane dalla caduta del presidente tunisino, ecco che il presidente egiziano Mubarak, in carica da 30 anni, è sotto l’assedio delle piazze. La repressione delle rivolte appare sempre più violenta e non si limita al blocco dei canali di comunicazione (come, ad esempio, il ‘taglio’ di Internet). Nel mese di agosto del 2011, infatti, l’ormai ex presidente egiziano, rinunciato al potere l’11 febbraio e agli arresti da aprile, è stato accusato per l’uccisione di 800 manifestanti.
A seguito degli episodi tunisini ed egiziani, altri paesi come Marocco, Arabia Saudita, Bahrein e Libia hanno visto accrescere il numero di manifestazioni e rivolte in piazza.
La Libia, in particolare, ha visto lo scontro tra ribelli e autorità già a partire dal mese di febbraio del 2011. La guerriglia, che ha interessato direttamente anche alcuni paesi europei – attirati probabilmente da questioni economiche – , è continuata fino a Ottobre: il giorno 20 del mese, infatti, Gheddafi, il leader libico, viene catturato, grazie altresì all’intervento degli elicotteri della NATO.
Tra i maggiori paesi coinvolti dalle proteste della Primavera Araba, non si può non citare il caso della Siria.
Lo stato del Vicino Oriente ha vissuto mesi di vibrante protesta sin da febbraio 2011 e, secondo alcune stime dell’ONU, tra marzo e settembre del medesimo anno, negli scontri di piazza tra ribelli e autorità sarebbero morte circa 2600 persone[3]. Insieme alle rivolte nello Yemen, quello siriano appare il caso più violento e sanguinoso: nonostante ciò, le condanne da parte dell’Unione Europea sono arrivate tardive, a volte ‘silenziose’ e spesso contornate di ambiguità, se raffrontate con la reazione degli stessi paesi europei verso il caso libico. Dal 15 marzo 2011 al 30 novembre 2012, secondo le stime di un rapporto delle Nazioni Unite, espresse direttamente dall’Alto commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay, negli scontri per le strade arebbero morte più di 60.000 persone [4].
E oggi?
Oggi, anche in quei paesi in cui la rottura con le forme autoritarie di governo è stata più evidente, i problemi legati alla democratizzazione perdurano. A partire dalla Tunisia, dove la rivoluzione sembrava aver portato maggiori risultati, il 6 febbraio 2013 è stato ucciso Chokri Belaid, leader dell’opposizione di sinistra, scatenando una vera e propria crisi politica. Altri casi, invece, dimostrano come le rivolte non siano riuscite nel proprio intento di destituzione dei leader dai loro incarichi: è questo il caso dell’Algeria, dove Abdelaziz Bouteflika è stato rieletto nel Novembre del 2012.
Altri ancora, purtroppo, non trovano soluzione di continuità e vedono perdurare scontri e vittime.
Di sicuro per l’assestamento di processi socio-politici così delicati è necessario del tempo.
Ad ogni modo, la preoccupazione più grande nell’analisi degli eventi è quella che il numero di morti e di conflitti debba aumentare affinché la storia incanali il percorso di paesi, popoli e popolazioni verso una strada di pace e di rapporti di civiltà.
di Tomaso Cimino