“Non pensare di fare arte, falla e basta. Lascia che siano gli altri a decidere se è buona o cattiva, se gli piace o gli faccia schifo. Intanto mentre gli altri sono lì a decidere tu fai ancora più arte”.
I colori e le icone della Pop Art si possono ammirare a Palazzo Reale di Milano fino al 9 marzo 2014, nella grande mostra dedicata al più famoso ed eccentrico protagonista dell’arte americana degli anni ’60 e ’70: Andy Warhol.
La mostra fa parte di Autunno Americano, la kermesse con cui Milano ha reso omaggio alla contemporaneità americana, con un complesso di eventi che spaziano dall’arte al cinema, dalla musica al teatro.
“Warhol” presenta per la prima volta in Europa una delle collezioni più importanti dell’artista, raccolta da un suo caro amico, Peter Brant, con il quale Andy Warhol ha condiviso gli anni artisticamente e culturalmente più vivaci della sua carriera. Peter Brant, all’età di vent’anni acquistò la sua prima opera di Warhol, un disegno della Campbell’s Soup, dando inizio a quella che sarebbe poi diventata una delle più importanti raccolte d’arte contemporanea al mondo.
L’esposizione presenta oltre 150 opere, tra disegni, tele, fotografie, sculture facenti parte della Brant Foundation, che rivelano una storia e uno scambio culturale irripetibile fra il giovane collezionista e l’artista. Un incontro dal quale nascerà un legame unico e dal quale sfocerà la rivoluzionaria rivista Interview, fondata da Warhol stesso nel 1969 e che Brant acquisterà con la sua casa editrice subito dopo la morte dell’artista nel 1987.
La mostra si snoda in un arco cronologico lungo trent’anni. Dai primi disegni dell’artista illustratore e dalla “commercial art” degli esordi si passa alle opere più iconiche e famose degli anni Sessanta, come le Marilyn – tra le quali Blue Shot Marilyn – , le Taylor, le Jackie, i Disastri, le Sedie elettriche, i Flowers, gli autoritratti, i Dollars Bills, le Campbell’s e le Brillo Box, a quelle degli anni Settanta, come la serie dei Mao Tse-tung, Ladies and Gentleman, gli Skulls, gli Oxidation Paintings, Shadows, i Dollar Signs, per concludersi con gli anni Ottanta, con i Basquiat, i Rorschach, i Camouflage e le Ultime Cene.
Attraverso capolavori e opere altrettanto straordinarie ma meno conosciute, come una serie di Polaroid mai viste prima in Europa, che ritraggono i suoi autoscatti e personaggi famosi, la mostra della Brant Foundation racconta un Warhol visto da vicino, attraverso gli occhi di chi lo ha conosciuto bene, un Warhol “quotidiano”, intimo, amico.
I modelli, la tecnica e l’accessibilità dell’arte
Per Warhol l’arte non è da ammirare ma è piuttosto un mezzo di comunicazione degli usi, dei costumi e del cambiamento.
“Nulla di complicato e difficile nell’arte, che l’uomo moderno, l’uomo qualunque, non possa arrivare a comprendere”.
Una straordinaria democratizzazione del concetto di fruizione artistica, figlio della società industriale, in cui la produzione avviene in modo meccanico, in serie, così per Warhol, nell’arte come nella vita, l’accessibilità prevale sull’esclusività. Da qui i modelli della sua arte: la pubblicità, il fumetto, i divi del cinema e le celebrities riprodotte a ripetizione che diventano delle icone.
“Ai primi d’agosto del 1962 cominciai con le serigrafie. Volevo qualcosa di più forte, che comunicasse meglio l’effetto di un prodotto seriale. Con la serigrafia si prende una foto, la si sviluppa, la si trasferisce sulla seta mediante colla e poi la si inchiostra, cosicché i colori penetrano attraverso la trama salvo che nei punti dove c’è la colla. Ciò permette di ottenere più volte la stessa immagine, ma sempre con lievi differenze. Tutto così semplice, rapido, casuale: ero eccitatissimo”. Poi Marilyn morì quello stesso mese, e mi venne l’idea di trarre delle serigrafie da quel suo bel viso, le mie prime Marilyn”.
La tecnica della serigrafia è il metodo di successo per Warhol; con questo procedimento l’artista riproduce in molteplici varianti, dai toni prevalentemente forti e vivaci, oggetti di largo consumo come il cibo in scatola o le lattine ma anche ritratti di personaggi famosi. Pertanto, dalle bottiglie di Coca Cola ai divi del cinema, il maestro della Pop Art cambia per sempre la figura dell’artista e avvicina il grande pubblico all’arte, rendendola comprensibile e accessibile a tutti.
Warhol porta gli scaffali di un supermercato all’interno di un museo o di una mostra snaturando l’arte, perché secondo lui questa stessa arte deve essere “consumata” come un qualsiasi prodotto commerciale. Così, dipinge le latte della minestra Campbell’s dopo aver acquistato al supermercato un esemplare per ogni versione, in totale 32, svuotando di significato l’immagine della stessa zuppa.
“La mangiavo abitualmente. Sempre lo stesso pranzo, ogni giorno per 20 anni. Sono convinto di rappresentare gli Stati Uniti con la mia arte, ma non sono un critico sociale. Dipingo questi oggetti perché sono le cose che meglio conosco”.
Come per la zuppa fa lo stesso con la Coca Cola, il prodotto di consumo mondiale per eccellenza.
“Una Coca Cola è sempre una Coca Cola e non c’è quantità di denaro che possa farti comprare una Coca Cola più buona di quella che l’ultimo dei poveracci si sta bevendo sul marciapiede sotto casa tua. Tutte le Coca Cola sono sempre uguali e tutte le Coca Cola sono buone. Lo sa Liz Taylor, lo sa il Presidente degli Stati Uniti, lo sa il barbone e lo sai anche tu”.
Con questa affermazione Warhol ribadisce che i prodotti di massa rappresentano la democrazia sociale e come tali devono essere riconosciuti: anche il più povero può bere la stessa Coca Cola che beve Liz Taylor o il presidente degli Stati Uniti d’America.
Tra gli esempi lampanti della riproducibilità del soggetto artistico, presente in mostra a Milano, c’è “Trenta sono meglio di una” del 1963. “Qual è l’opera d’arte più conosciuta al mondo?” si domanda Warhol … “La Monna Lisa di Leonardo da Vinci” si risponde … e dunque perché non riprodurla in modo seriale, meccanica, proprio per essere accessibile a tutti? D’altronde la notorietà stessa è alla portata di tutti secondo l’artista:
“In futuro ognuno avrà fama mondiale, per un quarto d’ora”.
Non meno significativi ci sono le serie “Rosso Elvis” del 1962 e quelle di Liz Taylor, cui emerge l’interesse di Warhol per le celebrities, oggetti di culto stampati sulle figurine che collezionava da bambino.
“Alcune persone passano tutta la vita pensando a un particolare personaggio famoso. Scelgono un lui o una lei famosi e ci si fissano. Consacrano interamente la loro persona al pensiero di chi non hanno mai incontrato, o hanno forse incontrato una volta. Se chiedi a una persona famosa che genere di posta riceve, troverai che c’è sempre una persona che le scrive costantemente e che ne è ossessionata”.
Icona incontrastata che l’artista riproduce in versioni illimitate è Marilyn Monroe, il grande mito americano. In mostra si possono ammirare “Liquorice Marilyn” del 1962 e “Blue Shot Marilyn” del 1964, il ritratto della famosa attrice con in mezzo agli occhi il segno restaurato di uno dei colpi di pistola esploso da un’amica dell’artista nel 1964. L’opera fu poi acquistata nel 1967 da Brant per 5000 dollari con i proventi di un piccolo investimento.
“Quando una persona è la bellezza dell’anno e il suo stile è veramente di moda, anche se i tempi poi cambiano e cambiano i gusti, e passano anche dieci anni, se mantiene lo stesso identico aspetto, se non cambia una virgola e si prende cura di sé, sarà sempre una bellezza”.
Luogo fondamentale sia per la sperimentazione che per l’ispirazione dell’artista è la Factory, un’officina di idee collettive ubicata al quarto piano di un ex fabbrica di cappelli sulla 47ª strada di New York, teatro di molti progetti artistici tra il 1962 e il 1968. Circondato da persone cui chiede suggerimenti e idee, alla Factory Warhol realizza foto, musica, film, feste d’avanguardia. La Factory è una open house, un luogo aperto in cui tutti sono invitati a partecipare. Qui sono nati o passati per un breve periodo altri famosi artisti come Jean-Michel Basquiat, Francesco Clemente, Keith Haring.
Sono del 1964 “Le 12 sedie elettriche”, che fanno di una macchina mortale un motivo decorativo, così come “Mao” che, prodotto in serie nel 1973, sembra più un soggetto da carta da parati che un leader politico.
Troviamo esposte anche riproduzioni di foto segnaletiche di ricercati e criminali che ci ricordano la naturale inclinazione di Warhol per un per un artista-macchina, che non inventa ma riproduce, che non interpreta ma ripete all’infinito.
E le opere dedicate ai dollari, già dal 1962, come “One dollar bills”, a dimostrare che un’artista non deve temere di produrre business ma, anzi, deve essere fiero dei propri risultati economici. Il dollaro ricompare poi nelle rappresentazioni degli anni ’80, quale simbolo del potere.
“Making money is art and working is art and good business is the best art” – “Far soldi è arte e lavorare è arte e i buoni affari sono la migliore forma d’arte”.
Del 1964 è il “Self-Portrait”, autoritratto di un uomo che ci tiene a essere “la cosa giusta nel posto sbagliato o la cosa sbagliata nel posto giusto”, perché qualcosa di interessante o straordinario accade sempre.
L’autore ha un’indubbia fascinazione per ciò che è artificiale – il travestimento in alcuni autoritratti con occhiali e parrucche – ama definirsi superficiale.
Sebbene si definisce “superficiale” c’è un lato nell’artista che pare non esserlo; lo troviamo nei suoi sgargianti “Flowers” del 1964, in cui la bellezza del fiore si accompagna al potente ricordo della madre e alla consapevolezza della tragedia della sua morte.
“La bellezza è ovunque, basta saperla cogliere”.
Molto singolari sono “Le Ossidazioni” del 1978; si tratta di esperimenti “provocatori” prodotti nella Factory, in cui l’artista si divertiva a utilizzare l’urina sopra grandi tele create con pigmento di rame, dando origine a opere “metalliche” dalle tonalità verdi-bluastre.
Tra le ultime opere esposte in ordine cronologico sono di particolare bellezza il ritratto di “Jean Michel Basquiat” del 1982 e le grandi tavole decorative del 1984 che riprendono, giocando sulla simmetria, le famose macchie dello psichiatra Rorschach – sono le uniche opere, con le Ossidazioni, in cui l’artista non basa il suo lavoro su immagini preesistenti.
A chiudere l’esposizione c’è “L’ultima cena” del 1986, in cui ritorna la fascinazione delle opere di Leonardo – che l’artista guardava come celebrità, alla pari di Liz o Marilyn e non come capolavoro – esposta a Milano nel 1987, che segna la conclusione della carriera dell’artista, poco prima della sua morte.
Uscendo dalla visita ci si sofferma a pensare e a “guardare” il mondo con quella genialità, tipica dell’artista, di fronte ai beni di consumo e alle immagini pubblicitarie, ma che è anche purezza di sguardi, curiosità, capacità di stupirsi, ingenuità simile a quella di un bambino di fronte alle cose del mondo.
Questa è la vera energia di Warhol, la vicinanza alla sua opera. Perché egli ha saputo vedere la bellezza anche in una scatola di zuppa o in una sedia elettrica, restituendo agli oggetti e ai personaggi che raffigurava quella forza e quel valore che furono il cuore della cultura del suo tempo e che, per certi versi, lo sono anche del nostro, in un contesto in cui i mezzi di comunicazione si accavallano e si sovrappongono, in un mondo bersagliato da immagini in un dejà vu.
E quando gli si domanda “Quali vorrebbe che fossero le sue ultime parole famose?” Andy Warhol risponde: “Goodbye”.
di Annamaria Rivolta
Bibliografia:
“Palazzo Reale, “Warhol”, Milano, 24 Ore Cultura srl, 2013.
Linkografia:
gennaio 17th, 2014 at 21:16
Le mani di Gesù dipinte da Leonardo nel Cenacolo, uniche nel dipinto, una con la palma verso il basso e l’altra verso l’alto indicano che Gesù era ambidestro come naturalmente era Leonardo e in parte Michelangelo Buonarroti? Non a caso Andy Warhol riprodusse, oltre il Cenacolo, serialmente la Gioconda e Marilyn che richiamano lo stesso volto archetipo. Cfr. ebook (amazon)di Ravecca Massimo: Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.