Povertà e incertezza
Centotrentamila persone che vivono in appena un chilometro quadrato?
Negli “slum” indiani è possibile. La parola “slum” evoca un’area urbana delimitata, collocata allo stesso tempo all’interno di una città più grande. Un contesto abitativo dove le condizioni di vita sono spaventosamente al di sotto di una soglia ragionevole di accettabilità.
Gli ammassi di baracche e lamiere che compongono il desolato paesaggio detengono il triste primato della più alta concentrazione umana del pianeta.
In queste aree sovrappopolate, così significativamente vive, ma allo stesso tempo fuori dalle dinamiche economiche e sociali del resto del mondo, i bambini crescono senza la traccia di alberi, fiori o farfalle a colorare il paesaggio circostante. Imperversa una miseria tale che la maggior parte delle famiglie deve accontentarsi di poco o nulla per sopravvivere.
In una condizione già di per sé precaria e non sostenibile nel lungo periodo, si muore giovanissimi, con un tasso di mortalità infantile tremendamente alto.
Molti bambini crescono deformati a causa della cattiva alimentazione nonché soggetti a infinite malattie che, per mancanza di infrastrutture e soldi, non possono essere curate.
Gli uomini sono costretti ai lavori più umili per guadagnarsi quei pochi spiccioli necessari per vivere e, nonostante le risorse alimentari scarseggino, per nutrirei numerosissimi membri della propria famiglia.
In alcuni “slum” dell’India più di venti persone vivono circoscritte in pochi metri quadrati.
Si vive il presente, utilizzando le risorse quotidianamente a disposizione. Manca qualsiasi certezza, i guadagni certi sono pochi e vige la massima precarietà. Si tratta di una delle peggiori condizioni urbane del mondo.
La vita negli “slum” sembra essere concepita in una forma circolare, con un susseguirsi infinito di cicli di vita e morte che scorrono con naturalezza tra persone abituate a convivere con le realtà più drammatiche.
Dalle campagne alle grandi città
Le ragioni del sovraffollamento che si registra negli “slum” indiani sono da ricercare prevalentemente nel secolo passato. A seguito delle forti calamità naturali che hanno devastato le enormi campagne del Paese e dalla mancanza di lavoro nelle stesse, milioni di famiglie sono state costrette a emigrare dalle zone rurali verso le città, allettati da maggiori possibilità di sopravvivenza. Soprattutto nei grandi centri urbani come Bombay, Calcutta e Madras, la popolazione è così letteralmente esplosa. La possibilità di un lavoro per molti è però rimasta un’utopia e i pochi che hanno trovato “fortuna” hanno dovuto adattarsi a condizioni più umili di vita. Nelle grandi città sono andati concentrandosi milioni di operai poverissimi. Il passo verso gli “slum” è stato breve.
Primi tra i grandi del Pianeta
Lo slum di Dharavi a Bombay ha fama di essere il più grande dell’India, se non del mondo.
Al suo interno vive all’incirca un milione di persone, ma a colpire non è tanto il dato numerico quanto un altro primato: la percentuale di rifiuti riciclata è superiore a quella dei paesi più avanzati del mondo.
I rifiuti che arrivano dal resto della città rappresentano “oro” per la gran parte di chi vi abita.
All’arrivo nello “slum” dei camion dell’immondizia, un’unica massa composta da donne e bambini, insieme con una serie di animali quali capre, maiali e mucche, si lancia sulla montagna di rifiuti, con l’intento di racimolare qualsiasi cosa: plastica, cartoni, dispositivi elettronici usati, sapone, etc.
Tutto ciò che a Bombay viene scartato, è raccolto da qualcun’altro.
L’80% della plastica consumata giornalmente dai 19 milioni di abitanti della città è riciclata all’interno di questo “slum”. Un’enormità, specie se riferita a un contesto geografico come quello indiano dove la sostenibilità ambientale non sembra essere motivo di preoccupazione. Il dato assume proporzioni ancora più impressionanti se confrontato con i numeri di altri paesi: in Gran Bretagna si ricicla il 39% dei rifiuti totali, in Irlanda il 36% e in Italia il 37%. In Europa, solo Austria e Germania sfiorano il 50%.
E non è soltanto la plastica a essere riciclata, bensì molti altri tipi di rifiuti che andrebbero altrimenti a sovraccaricare le già ricolme discariche alle spalle della città.
Un fiorente modello di business
Se si guarda in profondità ai 175 ettari di vicoletti labirintici e baracche di lamiera, si scopre come lo “slum” di Dharavi a Bombay sia l’artefice di uno dei più efficaci e incoraggianti modelli economici dell’intera Asia. Un business fiorente che, secondo le stime di alcuni economisti, sfiorerebbe il miliardo di dollari l’anno. Le persone coinvolte nel riciclaggio dei rifiuti sono all’incirca 250.000, con più di 15.000 piccole fabbriche mono-stanza capeggiate da 5.000 micro-imprenditori.
Numeri rincuoranti se si pensa che lo smaltimento dei rifiuti e il relativo riciclaggio rimane una questione spinosa pressoché ovunque.
All’interno del più grande “slum” dell’India la parola rifiuto pare non esistere. Lungo le viuzze che serpeggiano tra capanne e baracche, andirivieni di persone gettano sacchi di rifiuti (raccolti dalla discarica) di ogni genere. L’iter che tali scarti dovranno compiere prima di essere riassemblati in prodotti finiti è altrettanto contorto.
La plastica, per esempio, è inizialmente divisa e raggruppata per tipologia di utilizzo (es. tappi, giocattoli rotti, vecchie tastiere ecc.…) e per colore. Essa è successivamente lavata e triturata per poi essere venduta ad altri assemblatori che curano le ultime parti del processo.
I singoli guadagni per l’attività di ricerca e separazione dei rifiuti sono dai 3 ai 5 dollari al giorno.
Il “mercato” del rifiuto è molto vasto: in alcune fabbriche ci si focalizza sulla raccolta dei rifiuti prodotti dal sapone che vengono disciolti in giganteschi recipienti di alluminio per essere trasformati nuovamente in saponette. Altre tipologie di riciclaggio, invece, prevedono il recupero dei cartoni del latte.
Colori e rumori
L’atmosfera negli “slum” è particolarmente coinvolgente: persone indaffarate in lavori di ogni genere, suoni di sottofondo tra i più diversi, martellate, saldature e trapanate provenienti da una bottega, metri di batterie di macchine accatastate in un’altra, fili da attaccapanni e pezzi di ferri da stiro in un’altra ancora. È un circolo sempre uguale a se stesso: consumo – riciclo – consumo.
In aree urbane così minacciate dalla povertà, regna un senso di solidarietà e fratellanza fuori dal comune (considerata la massa di gente che vi abita). La religione plasma la vita e le abitudini degli uomini. L’intimità è cosa sconosciuta e i bambini “colorano” ogni angolo delle strade.
La particolarità di simili luoghi si ritrova nelle attività, frutto del lavoro e delle braccia dell’uomo, che non si avvale in nessun caso di macchine, ma solo di utensili rudimentali.
Non si comprende però perché, nonostante questo fiorente business, le condizioni di vita degli abitanti dello “slum” siano ancora perlopiù precarie e incerte.
Prima di tutto, vista la numerosità dei lavoratori, ognuno deve accontentarsi di un piccolissimo ruolo nella vita sociale, eseguendo una piccola parte dell’attività complessiva.
In secondo luogo, la maggior parte delle operazioni di riciclo dei rifiuti rimane illegale, sia per la bassa concessione di licenze governative, sia per l’alto prezzo da pagare per la regolarizzazione delle stesse.
La situazione provoca il flusso di capitali verso organizzazioni più potenti e di stampo mafioso che controllano ogni aspetto della vita dello “slum” e gestiscono gran parte della produttività realizzata.
In più, all’interno di queste aree difficilmente si può fare business e mettere in pratica idee imprenditoriali personali con il solo sforzo individuale, poiché vi è una forte mancanza di fondi da investire (sopraggiungeranno con più facilità dal tipo di organizzazioni sopracitate).
Le ragioni per credere
Esistono tuttavia barlumi di speranza. Lo stipendio medio di un lavoratore ha nettamente superato quello derivante dalla vita agricola.
I flussi di capitale pervenuti attraverso il riciclo dei rifiuti, sebbene non tutti finiscano nelle tasche dei lavoratori, hanno creato una nuova classe sociale che può permettersi anche il risparmio, ritenuto impensabile fino a qualche anno fa.
In alcuni angoli dello “slum”, si sono visti addirittura i primi ATM.
Le speranze più recenti provengono dal crescente interesse delle istituzioni internazionali, che solo negli ultimi 15-20 anni hanno seriamente cominciato a prendersi cura delle condizioni di vita degli abitanti dei vari “slum” in giro per il mondo.
di Andrea Cecchi
Bibliografia:
– La città della gioia, Lapierre
– Shantaram, Gregory Roberts
Linkografia:
http://www.sustainablebusinesstoolkit.com/dharavi-indias-recycling-slumdog-entrepreneurs/
http://www.theguardian.com/environment/2007/mar/04/india.recycling
http://www.youtube.com/watch?v=Im0tHRs9Bng&hd=1