Due settimane per un viaggio sono poche; a maggior ragione se la destinazione è il subcontinente indiano. Vari motivi non mi hanno permesso di restare più a lungo e così quest’esperienza indiana è diventata una vacanza più che un viaggio. Non voglio quindi raccontarla dal punto di vista del turista. Potrei scrivere della visita al Taj Mahal e a grandi moschee, ma probabilmente non farei un lavoro all’altezza delle innumerevoli guide già esistenti; preferisco ricordare la gente che ho incontrato e le impressioni del posto, nella speranza di rendere un’idea di com’è davvero.
Siamo in due. Partiamo con l’idea di vedere il triangolo d’oro, cioè Delhi, Agra e Jaipur, le tre città che attirano più turisti, prima di dirigerci nello stato del Himachal Pradesh, a ridosso degli Himalaya. Ci rendiamo presto conto però che per il tempo a disposizione andare fino lassù sarebbe stato impossibile, a meno di non passare più tempo in treno e in autobus che nei posti che vogliamo vedere. L’alternativa che scegliamo è radicalmente diversa: prendiamo un volo fino a Goa…
Ma partiamo dall’inizio. Le città indiane sono enormi, stancanti. Nelle strade c’è un caos visivo e acustico totale, tra risciò e auto che schiamazzano, cani randagi un po’ ovunque, carri tirati da buoi in posti improbabili e una massa non insignificante di gente. La povertà, vera, è visibile ad ogni angolo. Dopo pochi giorni diventa molto difficile essere affabili e gentili con chi ti viene a parlare: da bianco in India, almeno nelle città, sembra di essere un bancomat ambulante da cui si possono ottenere soldi se solo si è abbastanza furbi o insistenti. Ci vuole poco e ti fai furbo anche tu, ma ti rimane una diffidenza che diventa un riflesso.
A Delhi stiamo due giorni, poi prendiamo un treno per Agra. Il viaggio di circa 4 ore è reso piacevole da un gruppo di sette ragazzi indiani che si siedono nel nostro scompartimento. Chiacchieriamo, chiediamo informazioni su cose da fare e vedere. Ci raccontano che sono studenti di medicina, di ritorno da un incontro per tutte le scuole di medicina dell’India tenutosi a Delhi. Sono evidentemente benestanti, parlano un buon inglese, a volte leggermente troppo formale, hanno smartphone e bei vestiti, uno di loro è addirittura stato in Europa e in America. Noi facciamo molte domande, e loro sono felici di rispondere. Parliamo di ragazze: da loro l’uomo sceglie una potenziale moglie, rigorosamente della stessa estrazione sociale da un “catalogo matrimoniale” di foto, si incontrano insieme alle rispettive famiglie, e se si piacciono si sposano. Semplice. Bisogna dire però che la situazione sta cambiando, anche se molto lentamente, per le nuove generazioni, dove le relazioni pre-matrimoniali cominciano ad essere più frequenti. Il progresso in questo senso è ostacolato da due fattori: la posizione centrale della religione nella cultura indiana e la rigida struttura sociale, ancora organizzata in termini di caste. Nonostante ciò il progresso economico dell’India (soprattutto dei centri urbani), unitamente ad una maggiore alfabetizzazione e inclusione delle donne nel mondo del lavoro, ha portato nell’ultimo decennio importanti segnali di cambiamento.
La nostra lunga conversazione in treno è il primo vero contatto che abbiamo con gli Indiani. Arrivati ad Agra si torna ad essere assillati: un certo Malik ci accompagna sul risciò di un amico e insiste per farci fare un giro della città il giorno dopo. Al nostro ripetuto, ma cordiale rifiuto risponde facendoci vedere un libretto dove altri turisti hanno scritto messaggi su di lui. Sono per la maggior parte positivi; ne troviamo uno di un ragazzo napoletano: “Malik cerca di fare il furbo, ma meno di altri.” Visto che ci teniamo alla nostra libertà di spostamento, insistiamo nel nostro rifiuto di assumere Malik come guida turistica. Riusciamo a liberarcene solo un’ora dopo l’arrivo in hotel: per tutto questo tempo lui rimane in cortile, prima cerca di insistere, poi ci guarda male e basta.
Ad Agra succede una cosa inaspettata: stiamo mangiando in terrazza dell’hotel, con vista sul Taj Mahal visitato quella mattina (imperdibile), il nostro treno parte fra due ore. Ad un tratto noto una scimmia che si avvicina alla terrazza, dal lato lontano. Salta sulla terrazza e si dirige con nonchalance verso di noi. Arrivata a qualche metro di distanza di colpo il suo passo si fa deciso, ci punta, salta sul tavolo: di riflesso afferro la macchina fotografica appoggiata lì, lei agguanta una bottiglia di Coca-cola e salta via. Poi torna pure a fregarmi il pane. Noi, un po’ impauriti, un po’ divertiti, stiamo a guardare, quando cerco di avvicinarmi minaccioso quella digrigna i denti e io rinuncio… poi ci pensa uno dei camerieri con un bastone. Insomma, occhio alle scimmie, che sono un po’ in tutta l’India. A Jaipur andiamo a vedere il cosiddetto Tempio delle Scimmie, che è in realtà dedicato a Surya, dio del Sole nell’induismo, ma deriva il suo soprannome dalla quantità di macachi che ci sono nelle vicinanze. Questi però sono buoni – o hanno paura della nostra guida, un ragazzo intorno ai 16 anni che ci spiega che fa questo lavoro nei weekend e dopo la scuola, per aiutare la famiglia, e che sogna di studiare scienze del turismo e diventare una guida vera.
La visita a Jaipur si limita a questo e a qualche passeggiata per le strade della città, che pare meno povera di Agra e Delhi. L’architettura è affascinante, specie nella Città Rosa dove i palazzi sono costruiti in arenaria rosa, appunto. Le strade sono larghe e con il loro allineamento Est-Ovest o Nord-Sud tagliano il centrocittà in rettangoli regolari. Ma l’aria cittadina ci ha stancato, abbiamo bisogno di altro: così torniamo a Delhi, da dove un aereo ci porta nel famoso stato di Goa.
Goa è in origine colonia portoghese: rimane un’enclave del Portogallo fino al 1961 quando viene assimilata all’India attraverso un intervento militare. A partire da qualche anno dopo l’annessione, Goa inizia ad attrarre turisti diventando presto una destinazione prediletta da hippies occidentali e in seguito israeliani, grazie alle sue spiagge praticamente incontaminate e ai prezzi molto bassi offerti dalle prime guest house dei suoi villaggi. La goa trance, variante del sottogenere di musica elettronica trance, e simili alla psy trance (trance psichedelica) viene sviluppata da alcuni DJ del posto negli anni ’80, durante i quali la scena alternativa di Goa è nel suo periodo di massimo splendore, la droga gira liberamente e le feste in spiaggia vanno avanti fino a mattina inoltrata.
Oggi la situazione è cambiata per molti versi. Lo stato di Goa ha adottato misure molto severe per combattere l’uso di stupefacenti e la proliferazione di rave: c’è un divieto per l’uso di strumenti musicali e amplificatori tra le 22 e le 6 e si rischiano fino a 10 anni di carcere per possesso di hashish. Insomma, non è più la Goa di una volta e si è molto commercializzata. Tra le varie località in riva all’oceano scegliamo una delle meno turistiche, Anjuna, che si rivela una scelta felice. Arriviamo in bassa stagione, non c’è molta gente. Il primo giorno un ragazzo indiano ferma il suo motorino e ci chiede come mai i turisti occidentali sono scortesi con gli indiani e cercano di evitarli. La domanda ci stupisce fino a un certo punto: ecco il riflesso-diffidenza che evidentemente traspare proprio dai nostri modi e sguardi. Ci scusiamo e cerchiamo di spiegarci. Poi per caso incontriamo la stessa persona, Kaju (trascrizione fonetica libera) e il suo amico Rau il giorno dopo, facciamo amicizia. Ci invitano a cena a casa loro e usciamo con loro, beviamo birra e giriamo sui loro motorini. Durante la nottata succede un po’ di tutto, ad un certo punto siamo costretti a corrompere dei poliziotti che ci accusano di essere in evidente stato di ubriachezza… Kaju e Rau li rivedremo quasi tutti i giorni per la settimana seguente, passata a bere lassi al bar sulla spiaggia, prendere il sole e passeggiare. Tra le persone incontrate a Goa sono di gran lunga i più simpatici. L’ultimo giorno ci sentiamo rivolgere la stessa domanda riguardo all’atteggiamento degli occidentali da parte di un altro uomo. Ancora una volta ci scusiamo e accettiamo di farci offrire un tè. Finisce che ci propone di fare i trafficanti di diamanti: a quanto pare possiamo guadagnare 4000 euro portando un pacco di gioielli in Europa. Quando gli spieghiamo che la cosa non ci interessa ci chiede, cinque volte in altrettanti minuti, di non parlare con nessuno della conversazione…
In ogni caso a Goa stiamo davvero bene. Il periodo ancora poco turistico fa sì che i prezzi siano ancora molto bassi, è il periodo ideale se si vuole fare una vacanza tranquilla ed infatti il posto è pieno di coppie, sia di occidentali che di asiatici. Tra dicembre e gennaio Goa si riempie di turisti, soprattutto britannici e russi (ma con sempre più indiani, negli ultimi anni), diventando una specie di Ibiza un po’ più esotica e meno ricca. L’impressione visitando località notoriamente turistiche come ad esempio Baga è che la presenza di una controcultura a Goa sia poco più di un ricordo. Ne rimangono alcune tracce, certo. Camminando per strada è normale, a parte le continue richieste di entrare in negozi/bancarelle a comprare vestiti pseudo-etnici tutti uguali o gioielli scadenti, sentirsi offrire hashish e MDMA. Un ragazzo inglese in vacanza post-laurea che incontriamo ad Anjuna ci chiede se vogliamo provare della ketamina che ha comprato lì. Nei locali in spiaggia c’è musica trance e house a tutte le ore del giorno, e i posti sono frequentati sia dai turisti che dai residenti di Goa, tra i quali spiccano alcuni occidentali. (Mi ricordo vivamente un vecchio italo-americano con i capelli grigi raccolti in una coda e adornati da una specie di bastoncino piumato). Ma in generale sembra che tutti qui stiano aspettando l’inizio della stagione turistica e l’arrivo di voli charter pieni di gente venuta a fare festa e spendere soldi.
La settimana passa in fretta ed è tempo di tornare a casa. Riflettendoci dopo il ritorno, mi rendo conto che abbiamo visto una faccia dell’India, quella che insegue un’occidentalizzazione basata sulla crescita economica e una progressiva, seppur lenta, liberalizzazione dei costumi. Una realtà indiana che non va ignorata, anche se forse meno attraente da vedere del lato più tradizionale e spirituale. Per quello dovrò aspettare la prossima occasione, e prometto a me stesso che ci sarà.
di Alejandro Torrado