Ai Musei San Domenico di Forlì “Novecento”, storia in arte della vita italiana tra le due guerre.
“Inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cosa della natura”: così, nel 1929, Massimo Bontempelli definiva il compito dell’artista sulle pagine della rivista che fondò con Curzio Malaparte, “900 – Cahiers d’Italie et d’Europe”.
Proprio da qui, dai grandi temi affrontati nel Ventennio dagli artisti che aderirono alle direttive del regime, prende avvio la mostra “Novecento – Arte e vita in Italia tra le due guerre” in corso ai Musei San Domenico di Forlì fino al 16 giugno 2013.
L’esposizione rievoca infatti le principali occasioni in cui gli artisti (non solo architetti, pittori e scultori, ma anche designer, grafici, pubblicitari, ebanisti, orafi e creatori di moda) si prestarono a celebrare l’ideologia e i miti proposti dal Fascismo, sviscerando i temi dell’architettura pubblica, della pittura murale della scultura monumentale e della grafica pubblicitaria al fine di ridefinire ogni aspetto della realtà e della vita, passando dal mito classico a una mitologia tutta contemporanea.
La mostra si apre con la presentazione di una celebre tavola, di artista ignoto, raffigurante il mito quattrocentesco della “città ideale”, vera e propria icona del Rinascimento e del suo culto per la prospettiva ora assurto a modello dal Novecento: essa rappresenta infatti il rappel à l’ordre, il ritorno all’ordine tanto propugnato dal Fascismo che intendeva chiudere con le avanguardie storiche e giungere a una nuova definizione di arte, configurata come continuo confronto con una tradizione dove l’antico veniva fatto rivivere, per la sua dimensione eroica, in una dimensione moderna.
La celebrazione della vittoria e degli eroi della grande guerra diede così nuovo slancio alla scultura monumentale e alla pittura: epica contemporanea e allegoria tradizionale divengono così i protagonisti della prima sezione della mostra, intitolata appunto “Il culto della patria”; a essa si affianca un focus sull’icona del Duce: “Dux.
Ascesa e caduta dell’immagine di Mussolini” analizza infatti il percorso storico – artistico della rappresentazione del più importante leader fascista, partendo dal celebre busto colossale realizzato da Adolfo Wildt nel 1923 su suggerimento di Margherita Sarfatti per arrivare al ciclo di dipinti satirici realizzati nel 1943 dal fascista “di sinistra” Mino Maccari che, con ferocia caricaturale, affossava per sempre l’immagine del Duce. Ma l’affermazione del mito fascista non avrebbe avuto fondamento se non avesse trovato il consenso delle masse popolari: sarà dunque la città il principale campo di azione di quei massicci interventi urbanistici che dimostravano, nel loro piccolo, la volontà di modernizzare la nazione.
Proprio in città si andò a sviluppare quella che la mostra definisce come “Arte pubblica. I grandi cantieri tra monumentalismo e razionalismo”, rappresentata dai bozzetti e dai modelli preparatori, sia in pittura che in scultura, di edifici o complessi a destinazione diversa, come le sedi delle assicurazioni, i palazzi delle poste o di giustizia, le università. Sempre qui, poi, la grande rivoluzione comunicativa passò anche per la grafica, la cartellonistica pubblicitaria e le arti illustrative come nuove e più moderne espressioni della vita sociale di un paese che entrava nel processo di modernizzazione: la sezione “L’arte grafica tra pubblicità e consenso” raccoglie così i bozzetti degli storici manifesti di marche italiane disegnati da Dudovich, Codognato e Schawinsky.
Ma non dimentichiamo che tali trasformazioni non esclusero l’esaltazione del retaggio e dei valori dell’Italia rurale, che continuava a essere maggioritaria rispetto alla parte della popolazione inurbata e impegnata nell’industria: la vita dei campi viene così trasfigurata dai pittori in ritmi solenni, in composizioni studiate dove sono continui i riferimenti alla pittura del Quattrocento, come ci mostra la sezione “Le opere e i giorni. La conquista della terra e l’Italia rurale”.
Salendo al secondo piano dell’edificio la visita si fa più intima e famigliare: dopo aver indagato il mito urbano e rurale di uno dei grandi regimi totalitari del Novecento, l’esposizione si sofferma ad analizzare le sfaccettature folkloristiche delle genti italiche tra le due guerre. Pittori, architetti, musicisti, chirurghi, astronomi, aviatori e palombari popolano la sezione “Un popolo di artisti. Artista e artiere”, le maschere della Commedia dell’Arte sono protagoniste della sezione “Maschere. Il gran teatro della vita”, mentre molte figure nude, simboli di un’Italia mediterranea serena e vitale, ancora pagana, fomentano la nuova mitologia del quotidiano nelle sezioni “Il mito classico. Dei ed eroi”, “Mediterraneo.
Il popolo del mare” e la splendida “Giovinezza, giovinezza…il culto del corpo e l’ideologia dello sport”. Dopo la lunga passerella “Vivere. La moda dall’autarchia allo stile italiano” dedicata agli abiti confezionati dalle maggiori sartorie italiane, la mostra si conclude con una sezione assai raccolta, quasi spirituale: quello della “Maternità”, che prima di diventare motivo ricorrente nella propaganda di regime, aveva dominato la pittura del “ritorno all’ordine” di Funi, Guidi, Donghi, Casorati e Carrà.
Ne è un caso esemplare l’omonimo quadro di Severini, che con realismo esasperato mette in scena il tenero e malinconico legame tra una madre che allatta e un figlio destinato a una triste sorte.
di Clara Amodeo