Categoria | Politica-Economia

Cosmopolitismo

Pubblicato il 12 settembre 2017 da redazione

il piccolo principe

Se i poteri che contano si lavano le mani del dovere di rendere la vita vivibile, allora succede che l’incertezza dell‘esistenza umana diviene un fatto privato e la responsabilità di come affrontarla viene caricata senza tanti sconti sulle spalle del singolo. Le prevaricazioni e le disgrazie della vita finiscono, così, per essere liquidate come lavori fai-da-te, mal eseguiti, per i quali l’individuo, che ne viene colpito, è condannato a ricercare soluzioni, progettate e gestite al meglio di sé.

Ai problemi generati da una società venuta meno alle sue promesse e che ha rinnegato l‘impegno ad avallare collettivamente una polizza assicurativa contro i rischi della vita individuale, il singolo, rimasto in balia delle proprie risorse, troppo spesso è, o rischia di essere, drammaticamente inadeguato.

Questa individualizzazione coatta, generata da uno Stato in piena ritirata, porta con sé, però, anche una nuova precarietà esistenziale che destabilizza, non solo l’occupazione, ma anche la condotta di vita. La paura di essere stigmatizzati come non conformi, ufficialmente propagandata e coltivata nella «società disciplinare» è ora così sostituita, nella «società della prestazione», dalla paura di rivelarsi inadeguati.

Gli individui, formalmente emancipati, si ritrovano sostanzialmente incapaci ad affrontare i tormenti di una vita completamente individualizzata. E le misere risorse, gestite in autonomia, e la consapevolezza della propria inadeguatezza, fanno ben poco di fronte all’incombente minaccia della depressione, così l’individuo può rivolgersi solo ai propri Dei personali, quelli che vuole, a sua scelta, come scriveva Ulrich Beck.

Inoltre, il crescente processo di globalizzazione, che sta erodendo la sovranità territoriale delle entità politiche superstiti, e che vede la stragrande maggioranza dei governanti tagliata fuori dalla comunicazione con il potere, spingono sempre più individui ha perdere anche la speranza di stabilire un dialogo sensato.

Resta, però, ancora un‘opzione possibile tra quelle percorribili, il modello della «conversazione», e in particolare quella tra persone abituate a vivere in modi molto diversi tra loro.

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Il mondo sta diventando sempre più affollato, nei prossimi 50 anni ci avvicineremo a 9 miliardi di individui e il dialogo tra persone di paesi diversi potrà essere piacevole o carico di tensione, secondo le circostanze, ma sarà inevitabile.

Così sta a noi cogliere l’opportunità, darci la possibilità, di imparare a tirar fuori le nostre migliori risorse e, nello stabilire nuove «conversazioni», rimodulare “l’ordine del discorso”. Tendere cioè a una Cultura, a un Linguaggio e a una Pratica in cui gli individui attraverso la conversazione creino nuove strategie di inclusione che servano a tessere una società cosmopolita.

Riducendo la rilevanza dello stato-nazione e legando la cittadinanza a contesti cosmopoliti o post-nazionali, il primo piano si sposta sui diritti e in particolare il diritto di partecipare alla «cosmopoli» della comunicazione globale, ovvero di non rimanere esclusi dal flusso di beni, idee e persone che caratterizzano il mondo globale contemporaneo.

Non si richiede di essere pienamente identificati come comunità nazionale, o di accedere ai diritti politici di piena partecipazione, si chiede di più il riconoscimento del «diritto alla mobilità» (Turner) ovvero un passaporto che consenta di superare facilmente le frontiere, per potersi spostare, poter decidere di entrare e uscire senza vincoli eccessivi dai gruppi e dalle comunità, avere rifugio e accoglienza dove si decide di porre la propria, temporanea, residenza.

Il concetto di Cittadinanza, lasciando allora quello di nazionalità, rivendica piuttosto universalità, un più ampio legame morale tra tutti gli esseri umani, legato alle esigenze specifiche e ai risultati che si intendono ottenere nelle situazioni in cui ci si trova ad agire.

I «nuovi cosmopoliti» chiedono garanzie di libertà e di autonomia e non forti e vincolanti identificazioni. La cittadinanza è più strumento e risorsa, senza particolari lealtà a identità locali.

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L’idea di «cosmopolitismo» è più un’identità o status legale unitario che deve essere garantito a livello globale e non solo a un’élite privilegiata, che possiede le risorse per accedere ai flussi comunicativi contemporanei.

La cittadinanza è quindi ridefinita sui diritti umani, individuali e universali, che devono essere protetti e garantiti a livello globale anche in mancanza del riconoscimento di una cittadinanza nazionale nominale.

E questa condivisione di valori universalistici sta diventando una costante simbolica, una rappresentazione collettiva, una credenza, una convinzione, una nuova cultura cosmopolita che aspira a divenire Istituzionale ovvero vincolante con norme e sanzioni.

Così l’individuo sempre  più povero e affamato di identità, chiede di essere, di esistere.

«Cosmopolitismo», quindi, non più coatto o inconsapevole, ma scelta e aspirazione verso un’inclusione più universale perché basata sul diritto di avere dei diritti.

di Adriana Paolini

 

Bibliografia

Zygmunt Bauman, “Stranieri alle porte”, Laterza editore, 2016

Ulrich Beck, “Lo sguardo cosmopolita”, Carocci editore, 2005

Enzo Colombo, “Oltre la cittadinanza multiculturale”, 2010

Michel Foucault, “L’ordine del discorso”, Piccola Biblioteca Einaudi, 2004

Ilenya Camozzi, “Lo spazio del riconoscimento”, Il Mulino, 2008

 

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