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“Inno del Primo Maggio” di Pietro Gori
Vieni o Maggio t’aspettan le genti
ti salutano i liberi cuori
dolce Pasqua del lavoratori
vieni e splendi alla gloria del solSquilli un inno di alate speranze
al gran verde che il frutto matura
e la vasta ideal fioritura
in cui freme il lucente avvenirDisertate falangi di schiavi
dai cantieri da l’arse officine
via dai campi su da le marine
tregua tregua all’eterno sudorInnalziamo le mani incallite
e sian fascio di forze fecondo
noi vogliamo redimere il mondo
dal tiranni de l’ozio e de l’orGiovinezza dolori ideali
primavere dal fascino arcano
verde maggio del genere umano
date ai petti il coraggio e la féDate fiori ai ribelli caduti
collo squardo rivolto all’aurora
al gagliardo che lotta e lavora
al veggente poeta che muor.
L’Inno fu scritto da Pietro Gori sulla base della melodia del Va’ pensiero, il coro del Nabucco di Giuseppe Verdi, nel 1892, nel carcere milanese di San Vittore. Pietro vi era stato rinchiuso preventivamente perché si avvicinava il primo maggio e in Sicilia i lavoratori cominciavano a prendere coscienza politica radunandosi nei Fasci e gli agitatori anarchici dovevano essere messi in condizione di non nuocere all’ordine pubblico… Negli Stati Uniti, dove Gori sarebbe stato qualche anno più tardi, il Primo Maggio nasceva per ricordare i cinque anarchici impiccati a Chicago, in seguito allo sciopero e alle manifestazioni organizzate per ottenere la giornata lavorativa di otto ore.
Nonostante i grandi progressi dell’Occidente, sia in campo economico che sociale, il lavoro rimane destinato ad essere subordinato, dipendente da qualcuno, eterodiretto e se possibile oggi più precario e meno stabile che mai, meno locale, il più possibile glocale, i cui diritti, conquistati con tanta fatica, vengono sempre più rosicchiati da politiche economiche e sociali molto meno attente ai principi più profondi della nostra democrazia. Anche le classi sociali sono profondamente cambiate, sempre più polarizzate ed è proprio per questo che il lavoro rimane ed è ancora il cardine e l’obiettivo irrinunciabile di una società civile e democratica.
Il lavoro è punto di partenza e condizione imprescindibile per essere riconosciuti socialmente e potervi partecipare fattivamente. Eppure la visione liberista del lavoro, quale mero guadagno economico, che svalorizza chi lo compie sia moralmente sia socialmente, riducendo l’uomo a mero strumento è sempre più attuale, reale, inquietante. Senza questo passaggio anche la politica perde le sue radici e la stessa società si riduce a un mero agglomerato di interessi e di individualità concorrenti.
Questa necessità gli uni degli altri deve invece rinascere, crescere e raffozzarsi fino a ricostruire, sebbene contro corrente, la rete sociale che accompagnò nel dopoguerra tutte le parti sociali, tese alla ricostruzione.
Oggi il problema comune da affrontare e per il quale fare rete è l’attuale liberismo sfrenato, selvaggio, che ha consentito alle multinazionali di sottomettere il mercato e ai nuovi manager, votati solo al profitto, di arricchirsi indefinitamente, facendo di se stessi dei veri e propri imprenditori.
La sfida è mastodontica e il coraggio necessario ad affrontarla pure. Serve fare associazione, discutere, capire, pensare e poi agire insieme. E anche se contro corrente, provare ad opporsi al dilagante individualismo, cercare di far emergere da ciascuno di noi quei valori di solidarietà autentici che permisero, in un impeto comune, di vincere le grandi battaglie del passato per i diritti.
In tutti questi anni di crisi, in cui l’economia locale fatica a crescere, che senso ha parlare di ripartizione della ricchezza crescente a favore dei lavoratori? Piuttosto che della realizzazione dello stato sociale o di come andare incontro ai bisogni dei lavoratori? Temi importanti, ma se non affiancati da nuove prospettive, assolutamente gusci vuoti in cui rimbombano solo altrettante parole vuote. Possono i diritti tutelare la persona in modo crescente? Può un diritto essere frazionato e restituito a pezzi secondo anzianità di servizio o peggio estratto da un mazzo di carte? E se non esce l’asso, ma un due di picche?
Bisogna allargare la visione e affrontare le grandi questioni, quelle che stanno condizionando il mondo del lavoro verso quello che è stato chiamato da alcuni economisti, il punto di convergenza, quello in cui il lavoro potrà essere comprato sul mercato globale allo stesso prezzo. Il traguardo di quel punto sta piegando i Paesi più ricchi ad abbassare il costo del lavoro e la qualità della vita e sta favorendo, invece, quelli emergenti ad alzarlo, fino a quando i due estremi si toccheranno e chi aveva troppo cederà l’eccedenza a chi aveva troppo poco…com’è quella legge economica…nessun pasto è gratis? Peccato che c’è chi sempre siede ad una tavola imbandita.
Intanto, comunque i lavoratori dei Paesi più ricchi diventano più poveri e perdono i loro diritti, e per dismissione di questi le loro società decrescono in democrazia, così come gli stessi perdono in sovranità, sempre più asservite ai bisogni e agli interessi delle grandi multinazionali.
L’unico capitale che allora ogni Paese potrà da adesso in poi vantare sarà solo quello umano. Non sto parlando, però, di un capitale quantitativo, ma qualitativo, misurabile in conoscenze, saperi, qualificazione, istruzione, formazione, ricerca, avanguardia tecnologica… insomma tutto ciò che serve ad attrarre i grandi investitori economici.
Un mercato di domanda e offerta grande come tutto il mondo. Qualcuno dirà ‘perfettamente concorrenziale’, ma anche un po’ orwelliano, di sinistra di destra, poco importa. Masse di lavoratori appiattiti e funzionali all’economia liberista, che non vuole variabili, ma parametri. Siamo pronti a diventare parametri?
In ogni caso dobbiamo essere il più possibile attrattivi, per chi è a caccia di convenienti speculazioni, vetrine luccicanti capaci di attrarre gli investimenti più raffinati e sfuggire così alla più grande massificazione in atto in molte parti del pianeta. Le carte migliori da giocare sono ancora la formazione e l’innovazione, e buone politiche di governo che le sostengano e che promuovano ciò che di buono e nostrano ancora resta nel nostro Paese, obiettivi che dovrebbero stare nelle prime righe dell’agenda politica di una governance lungimirante, illuminata. Non ci vuole un genio per capire che se rimani indietro, e ancora indietro e poi più indietro, alla fine sei fuori!
Per capire quali strumenti e metodiche adottare, per non finire fuori, non dobbiamo guardare molto lontano: di realtà positive in Europa ne esistono diverse.
In Francia, per esempio, se perdi il lavoro entri in un percorso di riqualificazione e rilancio a spese dello Stato, che passa dalla formazione e aggiornamento della professione, fino al matching domanda/offera di lavoro, oltre a una serie di servizi di supporto, un compenso economico mensile di solidarietà, e la garanzia che sarai accompagnato fino al momento della stipula di un nuovo contratto di lavoro. Anche l’età non rappresenta un problema. Sono pochi i cinquantenni a spasso, perché hanno molta esperienza da dare.
In Italia, invece, parecchi sono quelli rimasti sospesi nel limbo, perché troppo vecchi per lavorare, ma allo stesso tempo troppo giovani per andare in pensione. E i giovani? I giovani sono troppo istruiti, servono a poco in piccole e medie società dove si preferisce lavorare ancora come una volta. E così i pezzi migliori se ne vanno, anzi se ne sono andati.
Adriana Paolini